martedì 13 settembre 2016

Una grande solitudine

A volte rido e ridendo e guidando mi dico:- Ho la lebbra. Abbiamo la lebbra nella mia famiglia e tutti ci rifuggono come appestati. Ridendo me lo dico e poi aggiungo una pernacchia ai cari abitanti, ai cari parenti  del paesello.  Così si spiega tutto. Si spiega il fatto che venga lasciata morire di indifferenza la mia mamma che un angelo è stata, ha scodellato parmigiane e carciofi al forno, fatto taralli e focacce ripiene, bottiglie di salsa e trasformato maiali  in salsicce per ognuno che lo chiedesse, sempre col sorriso sulle labbra. Forse è la cosa che mi fa più rabbia, forse è questa mia impotenza nel non riuscire a regalarle gli affetti e le relazioni che le spetterebbero. Non mi posso sostituire al parentado scomparso, a vicini scomparsi, ad una vita che non le è stata concessa. Poi dicono che il destino venga in eredità proprio dalle mamme e noi abbiamo ereditato la stessa magnifica indifferenza. Lo dico brutale a mia sorella, imponendole uno stop, una rotta in cui non può seguirmi. Al destino non si sfugge, nemmeno se aneli quel mondo fatto di incontri, di chiacchiere, di amicizie, che sembra regalato a tutti meno che a te. Poi guardo gli altri che escono a due a due. A due a due, due fratelli passeggiano sempre insieme, a due a due, ci sono le coppie francobollo, a due a due, ecco le amiche sempre quelle, da secoli, escono in due. Sono altri modi di essere, altri pianeti, e non mi interessano, ne sento la claustrofobia.    
Alcuni dicono che non si è soli nemmeno con la faccia rivolta al muro in un carcere di isolamento, nelle celle di  circa 6 per 8 piedi di dimensione (circa 1,80 x 2,40 metri), con pareti in acciaio o in mattoni, con sbarre in acciaio verso il corridoio esterno.
Non si è soli in ospedale, in una sala operatoria, mentre i chirurghi tagliano via un pezzo alla volta. 
Si dice che si è soli in mezzo agli altri, nei convegni, nelle feste organizzate, nel momento del successo. Vero anche questo.
La solitudine, averla o non averla, è un regalo o una condanna, un destino l'ho chiamata io, " Una solitudine come destino"
 Una solitudine corporea e non mentale, una solitudine che sembra un muro altissimo da scavalcare.  
Nel destino che ci è stato dato non contano gli sforzi che si fanno, conta la fortuna, il consenso, la chiamata.
Quel che noi possiamo fare è trovare un modo per beffare il destino, ridendo della lebbra, ridendo di quello che ci viene regalato e ridendo di quello che non ci viene regalato. E fatela una telefonata a mia mamma ogni tanto, mi verrebbe da esclamare! Pezzi di .....


3 commenti:

Agata Amantia ha detto...

Cara Ippokita, ho letto le tue parole, sono bellissime. Mi toccano il cuore, quando parli della tua mamma. La mia se n'è andata dopo una malattia orribile che l'aveva condannata a una solitudine forzata: l'Alzheimer. Ma io trovavo ugualmente la strada, un piccolo sentiero ripido, per arrivare a lei, ci capivamo. Tocca a te allontanare la sua solitudine, credimi, non provare rabbia né dolore per gli altri, non valgono neanche questi sentimenti. Sii indifferente. Siamo tutti soli, in fondo. E quelli che dicono di avere tanti amici, forse più degli altri.Ti abbraccio assieme alla tua mamma.

Ippolita Litweb ha detto...

Grazie cara, però lei non merita veramente questo silenzio.Farò tesoro del tuo consiglio, credimi.

medinitalo.wordpress,com ha detto...

dopo le melanzane, le pittanchiuse e i momenti di allegra confusione, arriva il disinteresse e l'oblio, arriva la solitudine che è difficile da digerire (più per chi la osserva che per chi la vive)