Non fate
troppi pettegolezzi: La lezione di Paolin.
Nella Torino dal color viola
Quando manca il motivo per
continuare, quattro scrittori spezzano la penna, si precipitano dalle scale, si
addormentano per l’eternità
Quattro scrittori tratteggiati nelle linee essenziali, nei contorni, con occhiali, baffi, barba e capelli, sopracciglia, in un viola che ci piace molto. Il viola è il colore della penitenza, del dolore, della tristezza, ma accresce la capacità creativa e la fantasia. Chi ama il viola è amante dell'arte. Con umiltà.
Demetrio Paolin scrive "La mia
dipendenza dalla scrittura: questo è il mio esame di coscienza. Torino,
gennaio-novembre 2013"
Fare lezione a scuola così, con in mano il libro di Demetrio, per dire ai ragazzi che qualcosa dobbiamo pur ricordare
"C’è una poesia di Borges ne "L’elogio dell’ombra", in cui lo scrittore argentino immagina Caino e Abele che si incontrano in un ipotetico aldilà. Nessuno dei due ricorda chi ha ucciso chi e sembra che questa smemoratezza sia salvifica per entrambi.Nessuno di noi ricorda tutto, l’oblio serve per discernere alcuni ricordi da altri. Il rischio che si corre sarebbe altrimenti la pazzia"
Nella Torino che non conosco e che conosco così, dal suo descriverla, seguiamo i momenti che lui racconta.
Quattro autori, quattro uomini, alle prese con povertà, pudore e vergogna, servizio e dono, impossibilità a vivere un momento di più.
Nell'accostarsi affettuoso di Demetrio ai suoi scrittori
c’è un
momento in cui anche la scrittura non consola più, è il momento in cui gli
editori non ti pagano, in cui il foglio non
dà più gioia e non risponde, nella strettoia del giorno. Allora il
rasoio o una pillola o cadere dalle scale sembra unico modo per spezzare lo stringimento.
EMILIO SALGARI Torino, strada Val San
Martino Superiore 27 (25 aprile 1911)
Salgari, l’uomo
pulito dell’immaginario semplice, lussureggiante ma corretto. I suoi personaggi
onesti vivono in una colorata e profumata natura, combattono nemici certi e
cattivi, si fidano e amano. Con responsabilità. Nella costrizione Salgari scrive.
Vi è “una nevrosi da spazi angusti, da costrizione carceraria. Si prendano alcune
bestie e le si privi del loro habitat, le si privi della loro dovuta violenza e
diventeranno queste cose vuote.”
Questo sentimento di costrizione e di vergogna si supera con l’immaginazione. Inventa mondi. Ad un certo
punto Salgari sa che la sua storia
personale finisce male e “quello di Salgari non è un suicidio, ma un
sacrificio: c’è qualcosa di religioso e primitivo nel suo gesto. Sandokan è
invecchiato.” atto di resa, ma in grande stile.
CESARE PAVESE Torino, piazza Carlo
Felice 60 (27 agosto 1950)
Pavese come Orfeo
Lavorare
stanca:” il mito di Orfeo inizia con un viaggio e finisce con un ritiro
solitario sulle colline. La dicotomia tra movimento/immobilità” Il movimento
però è simile a quello di chi
improvvisamente si volta. Orfeo si volta ed Euridice è immobile e chiara: il
tempo pare fermarsi, lui rivede l’oggetto del suo amore. Nel momento in cui
appare più viva, lei svanisce come i filamenti delle lampadine prima di
bruciarsi, che rilasciano una luce chiarissima, molto più forte del loro
voltaggio, una luce finale, che è segno che ogni cosa sta per finire. Così per
Orfeo è stata Euridice: un nitore composto e poi nulla più.” Dialoghi con
Leucò.
E mentre Pavese diviene Orfeo "Il sacro rimane a noi lontano, mentre
il mistero – sempre quando si è ammessi a esperirlo – ci consente una
conoscenza totale, ci fa immedesimare con gli stessi Dei di cui celebriamo il
rito."
Tutto l’amore
che Orfeo ha per Euridice è un viatico per comprendere che l’uomo è niente.
In "Il mestiere di vivere" Pavese, nel marzo del 1950, il 25 per la precisione,
scrive queste righe: Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide
perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria,
inermità, nulla." Ma anche il nulla può dare euforia.
L'euforia del leggere sempre molto simile è.
PRIMO LEVI Torino, corso Re Umberto
75 (11 aprile 1987)
Se questo è un uomo "una sorta di progressivo
spogliamento dell’uomo: Si immagini ora un uomo a cui, insieme alle persone
amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine,
letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e
bisogno. L’uovo senza guscio e l’uomo vuoto sono la medesima cosa."
E poi il
sopravvissuto ha vergogna "perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie,
di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di
vivere di te? Non lo puoi escludere: […], no, non trovi trasgressioni palesi,
non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato […], non hai rubato il pane di
nessuno; tuttavia non lo puoi escludere." Primo Levi, I sommersi e i salvati
Mi disse una
mia amica, dottoressa al Sert, che basta pochissimo, un odore, una musica e si
è di nuovo ripiombati nell'inferno della droga, dell’alcool, la sirena che
trascina i suoi pazienti. Forse lo scrisse Jung. Qui lo leggiamo da Paolin che
fa parafrasi da Levi "Via Cigna è la descrizione dell’angoscia dell’essere
ancora laggiù nel lager e di come basti un niente affinché tale sentimento
venga portato alla luce, grazie a una trama di complessi rimandi interni e
citazioni velate."
"il nome –
questo Levi lo sapeva bene – è il nocciolo dell’esistenza del mondo, perché la
parola è ciò che crea il mondo. Così immagino Levi che durante un noioso
venerdì pomeriggio, aspettando il suono della sirena che sanciva la fine del
turno, scarabocchia qualcosa su di un quattrino. Prende un foglio bianco e
incomincia ad anagrammare il suo nome e il suo cognome. Per il suo cognome
la soluzione più facile è quella di invertire le sillabe. E così facendo da "levi" è passato a "vile". Fuori sta annottando e la sirena ancora non suona,
Primo prende il foglio e legge: primo vile" Che cosa triste! sbagliare anagramma
FRANCO LUCENTINI Torino, piazza
Vittorio Veneto angolo via Po (5 agosto 2002)
“Nell’agosto
del 2002 Lucentini si butta giù dalle scale del suo appartamento di Torino.
Lucentini vive in un bellissimo alloggio in piazza Vittorio Veneto, che è forse
la piazza della mia città che amo di più.”
Venendo meno il dialogo venne meno
il motivo “. Per Lucentini succede qualcosa di simile, il dialogo è un prisma
che offre diversi punti di vista, mostra incongruenze, perplessità, dubbi e
pochissime certezze; il cammino verso la verità non è facile, non è costruito
su saldi pilastri, ma appunto è traballante e balbettante come può esserlo un
dialogo tra due esseri umani”
“l’ossessione
della scrittura come tentativo di riprodurre fedelmente qualcosa che già c’è.
C’è stato un tempo in cui la parola era una cosa sola con l’idea e la realtà;
nominare e pensare erano la stessa cosa: perché facevano esistere. Poi venne la
memoria, e con la memoria venne la letteratura e quella identità si perse. Fu
Babele, fummo noi con le nostre povere parole che ci permettono di vedere il
mondo e di capirlo come enigma e tramite uno specchio oscuro. La condizione
dello scrittore, lo diceva Benjamin nel saggio su Leskov, è una condizione di
morente” Al servizio della letteratura: se muore il dialogo muore tutto.
Ippolita Luzzo