Nino Racco inizia il suo canto con i versi di Ignazio Butitta con un canto scritto per Rosa Balestrieri e subito dopo ci porta a quel mondo di cantastorie e di cantautori che hanno rallegrato, illuminato e rafforzato, gli ideali della gioventù.
Il ritorno a Giorgio Gaber, l’idea che non può essere mangiata e la partecipazione che non c’è, l’idea della possibile palingesi universale si incaglia verso un pensiero rozzo, di chi offende chiamando “ricchioni” coloro che amano i loro simili. Offrendo la poesia in forma di rosa, da Pasolini, nel vento novembre, canta Nino Racco, "tutto il mio folle amore lo soffia il cielo."
Nino Racco ci fa conoscere un avo di Pasolini, Vincenzo Colussi, ferito nella campagna di Russia, voluta da Napoleone, e salvato da una ragazza polacca, Susanna, mentre ormai stava nel ventre squarciato del cavallo a delirare. Cantando attraverso i secoli ingiusti e difficili per la libertà individuale e collettiva, giungiamo nel cielo di Praga, quando la piazza fermò la sua vita, quando quel fumo si sparse lontano in ricordo di Jean Palach, che si era immolato per protestare contro l’invasione della Polonia da parte del regime sovietico.
Una speranza nel cielo di Praga.
E siamo a Sanremo sempre in quegli anni e Luigi Tenco prepara un testo contro l’insensatezza delle guerre, con quei soldati mandati a morire come se fossero uno sciame di insetti, senza più espressione sul volto. Una canzone stupenda edulcorata e traslata in sette differenti versioni per essere mandata al Festival di Sanremo con un saluto per sempre.
Nino Racco ci recita una poesia di una donna somala, una poesia sulla casa, sulla casa che abbiamo e che siamo costretti a lasciare se arriva la guerra e ricantiamo insieme l’inno della fratellanza “Ragazzo che sorridi, il mondo di domani paura non avrà ed una mano bianca un nera stringerà” ricordando cosa siano i principi di umanità: La fratellanza fra i popoli, la democrazia.
Solone eliminò i debiti dei poveri, ricorda Teodorakis e intanto siamo giunti alla fine al Pisci Spada che muore per amore, siamo giunti all’acqua blu quando la pubblicità ci fa fare quello che non vogliamo più.
Unico canto dove Luigi Tenco ride della risata distaccata del così va il mondo, noi sorpresi applaudiamo Nino Racco, grande cantastorie dei nostri anni fuggiti nei cieli di Praga, di Sanremo, di Bovalino e Lamezia.
Un grazie immenso dal regno della Litweb
Ippolita Luzzo
Ippolitweb
venerdì 29 marzo 2019
domenica 24 marzo 2019
Esportiamo il Lametame in Danimarca
“ Alla maniera di castigat ridendo mores. – Frase latina («corregge i costumi col ridere») composta dal letterato francese J. de Santeuil (sec. 17°) per il busto d’Arlecchino che doveva decorare il proscenio della Comédie Italienne a Parigi; si ripete talora riferendola a persona che sa ammonire senza che nelle sue parole si senta il rimprovero, e nello specifico a scrittore che dà insegnamenti morali attraverso forme letterarie apparentemente leggere e, comunque, divertenti.”
Questo sulla Treccani e lo stesso sul mio blog Lametame forever
www.IlLametame.it è il mio foglio inventato. Da anni.
Io sono l'inventore del termine, il direttore responsabile, l'editorialista e mi occupo anche di cronaca rosa, verde, gialla e bluette. Un grande giornale che si distinse in tempi passati con un server che non serviva e con un link che non si apriva.
Ognuno poteva immaginare cosa ci fosse nel Lametame.
Invettivi, sorrisi e stupore, lo sguardo meravigliato sul nostro intimo e sul nostro sociale, su giovani e vecchi intergenerazionale, il chiacchierare inutile e vano di gente che gracida nel Lametame.
Senza però voler alcun male, tutti i servizi furono scritti con la benevolenza come crema reale, pronta ed unguento da accarezzare su mani e penne intente al ticchettare di tasti irreali.
Evviva evviva Il Lametame che piacque subito ai giornalisti, ai radio e tele cronisti, questi accolsero tutti con simpatia un foglio che proprio non c'era ma si poteva permettere il vero.
Poi Il Lametame fu trascinato nel buio oblio della bannata, sparì Lo Stile della Litweb, e con il profilo che fu oscurato scomparve anche la sua testata.
Ora ritorna nell'etere oscuro del nuovo stile, nella nuova veste tipografica e con nuovi articoli sempre reali.
Negli anni tristi dei nostri bavagli, sotto i bavagli noi sorridiamo e con Massimiliano Lo Russo, nostro artista, abbiamo di nuovo ripreso a cantare. Intanto noi facciamo auguri a tutti i nativi del settembrino, siano essi Bilance o verginelle, noi siamo i saggi ed i maturi del calendario prossimo venturo.
Dalla redazione di questo giornale
Evviva evviva Il Lametame.
Il Lametame riecheggia da anni, da moltissimi anni, nelle teste benpensanti del Lametino e da allora in poi Il Lametame sarà il pubblico termine coniato da me e esportato nella nazione delle patrie lettere. Un marchio SIAE per indicare non tanto un luogo o il suo paesaggio bensì i gesti, le scortesie, le piccinerie, con cui si pensa di fare comunità, a dir la verità una comunità che non esiste.
Le parole di Ceronetti intellettuale viaggiatore nella descrizione del cimitero:
"Nel cimitero di Lamezia (dove scivolo disperato per tanta bruttezza) una splendida, grassa, lucente lucertola annuncia tripudiante l’Anàstasis a Giorgio Fragalà il quale “dedicò ogni suo atto alla Famiglia e al suo Impiego”. (Forse è da interpretare: a come impiegare, nel senso di adoperare, la Famiglia)... E intanto musica, fischi di treno, mai pace."
Credo, ridendo, che fra topi, lucertole e serpenti, una colomba possa ancora volare sui cieli della piana infelix. mi soffermerò invece sulle frasi di Ceronetti tratte da "Un viaggio in Italia" commissionato da Giulio Einaudi allo scrittore, pubblicato nel 1983.
"Lamezia, un luogo texano, italianamente inesistente... Lo squallore intollerabile di Nicastro... Un funebre vacare di giovani nei bar, raggruppati intorno al Niente... Come si può vivere in un luogo così brutto? “...E le cose visibili s’intendono per la notizia delle cose invisibili” (così deve parlare un vero storico!). Nicastro sembra una ricostruzione post-atomica, talmente affrettata e stracciona da far rimpiangere quando la bomba aveva fatto il deserto. Qualche avanzo povero, che sarà demolito per fare posto al disumano... Mio Dio, quant'è brutta l’Italia! Di bellezza restano poche, assurde tracce: beato chi le ritrova e le segue, fuori di questo mondo. Qualche bel topo lungo i binari della ferrovia. Vernice rossa e croci nazi... Facce concentrate hanno tutti i calabresi. Sembrano, anche non pensando, una nazione di filosofi..."
In effetti il paesaggio a ben guardare conserva ancora molta bellezza, certo deturpata, però presente, e il pittoresco, benché molto omologato, si può trovare. Il vero orrido che affascina, il sublime, presente nelle irregolarità, nel rumore, nella laidezza dei gesti oppure nella generosità che non aspetti più, vivacchia nella piana lametina come altrove mostrando segni di una vitalità restia ad arrendersi.
Raffaele mi incoraggia a risiedermi ai tasti e a ripigiarli, ed a lui rispondo, alla generosità di chi ci crede, di chi crede al potere dello scritto che possa immortalare il “momento storico"
La relazione era conclusa, il relatore aveva trattato il tema in modo puntuale e preciso, sublime direi, anche ironico, il dibattito era vivace e durante un mio breve intervento ho sintetizzato il senso delle parole di Ceronetti. Con i bavagli di Massimiliano Lo Russo
Ippolita Luzzo
Questo sulla Treccani e lo stesso sul mio blog Lametame forever
www.IlLametame.it è il mio foglio inventato. Da anni.
Io sono l'inventore del termine, il direttore responsabile, l'editorialista e mi occupo anche di cronaca rosa, verde, gialla e bluette. Un grande giornale che si distinse in tempi passati con un server che non serviva e con un link che non si apriva.
Ognuno poteva immaginare cosa ci fosse nel Lametame.
Invettivi, sorrisi e stupore, lo sguardo meravigliato sul nostro intimo e sul nostro sociale, su giovani e vecchi intergenerazionale, il chiacchierare inutile e vano di gente che gracida nel Lametame.
Senza però voler alcun male, tutti i servizi furono scritti con la benevolenza come crema reale, pronta ed unguento da accarezzare su mani e penne intente al ticchettare di tasti irreali.
Evviva evviva Il Lametame che piacque subito ai giornalisti, ai radio e tele cronisti, questi accolsero tutti con simpatia un foglio che proprio non c'era ma si poteva permettere il vero.
Poi Il Lametame fu trascinato nel buio oblio della bannata, sparì Lo Stile della Litweb, e con il profilo che fu oscurato scomparve anche la sua testata.
Ora ritorna nell'etere oscuro del nuovo stile, nella nuova veste tipografica e con nuovi articoli sempre reali.
Negli anni tristi dei nostri bavagli, sotto i bavagli noi sorridiamo e con Massimiliano Lo Russo, nostro artista, abbiamo di nuovo ripreso a cantare. Intanto noi facciamo auguri a tutti i nativi del settembrino, siano essi Bilance o verginelle, noi siamo i saggi ed i maturi del calendario prossimo venturo.
Dalla redazione di questo giornale
Evviva evviva Il Lametame.
Il Lametame riecheggia da anni, da moltissimi anni, nelle teste benpensanti del Lametino e da allora in poi Il Lametame sarà il pubblico termine coniato da me e esportato nella nazione delle patrie lettere. Un marchio SIAE per indicare non tanto un luogo o il suo paesaggio bensì i gesti, le scortesie, le piccinerie, con cui si pensa di fare comunità, a dir la verità una comunità che non esiste.
Le parole di Ceronetti intellettuale viaggiatore nella descrizione del cimitero:
"Nel cimitero di Lamezia (dove scivolo disperato per tanta bruttezza) una splendida, grassa, lucente lucertola annuncia tripudiante l’Anàstasis a Giorgio Fragalà il quale “dedicò ogni suo atto alla Famiglia e al suo Impiego”. (Forse è da interpretare: a come impiegare, nel senso di adoperare, la Famiglia)... E intanto musica, fischi di treno, mai pace."
Credo, ridendo, che fra topi, lucertole e serpenti, una colomba possa ancora volare sui cieli della piana infelix. mi soffermerò invece sulle frasi di Ceronetti tratte da "Un viaggio in Italia" commissionato da Giulio Einaudi allo scrittore, pubblicato nel 1983.
"Lamezia, un luogo texano, italianamente inesistente... Lo squallore intollerabile di Nicastro... Un funebre vacare di giovani nei bar, raggruppati intorno al Niente... Come si può vivere in un luogo così brutto? “...E le cose visibili s’intendono per la notizia delle cose invisibili” (così deve parlare un vero storico!). Nicastro sembra una ricostruzione post-atomica, talmente affrettata e stracciona da far rimpiangere quando la bomba aveva fatto il deserto. Qualche avanzo povero, che sarà demolito per fare posto al disumano... Mio Dio, quant'è brutta l’Italia! Di bellezza restano poche, assurde tracce: beato chi le ritrova e le segue, fuori di questo mondo. Qualche bel topo lungo i binari della ferrovia. Vernice rossa e croci nazi... Facce concentrate hanno tutti i calabresi. Sembrano, anche non pensando, una nazione di filosofi..."
In effetti il paesaggio a ben guardare conserva ancora molta bellezza, certo deturpata, però presente, e il pittoresco, benché molto omologato, si può trovare. Il vero orrido che affascina, il sublime, presente nelle irregolarità, nel rumore, nella laidezza dei gesti oppure nella generosità che non aspetti più, vivacchia nella piana lametina come altrove mostrando segni di una vitalità restia ad arrendersi.
Raffaele mi incoraggia a risiedermi ai tasti e a ripigiarli, ed a lui rispondo, alla generosità di chi ci crede, di chi crede al potere dello scritto che possa immortalare il “momento storico"
La relazione era conclusa, il relatore aveva trattato il tema in modo puntuale e preciso, sublime direi, anche ironico, il dibattito era vivace e durante un mio breve intervento ho sintetizzato il senso delle parole di Ceronetti. Con i bavagli di Massimiliano Lo Russo
Ippolita Luzzo
sabato 23 marzo 2019
Fabrizio Coscia I Sentieri Delle Ninfe
Nei dintorni del discorso amoroso
Appena nato il libro di Fabrizio Coscia ha il sapore di un classico, il senso di un saggio sull'arte, il profumo di un passato lontano e il continuo delirio felice che da "Soli eravamo" a "La Bellezza che resta" ci giunge fino a noi.
I sentieri attraversati da lui, insieme ai suoi lettori, percorrono luoghi bellissimi, "testimoniati" da quadri, per "imparare a vedere di nuovo attraverso lo sguardo dell'artista" e capire dove si nasconde ciò che crediamo sia perso.
Uno svelamento.
Fabrizio Coscia continua con questo libro a svelarci cosa sia il compito dell'arte, cioè il continuo svelamento sulla soglia dell'impossibile. Per riuscire nel suo intento chiama alla memoria libri, film, quadri, dialoghi, momenti fra il sogno e la veglia, in quel cadere, in quell'abbandono che può regalarci una percezione dilatata.
Qui sembra siano le ninfe a percorrere i sentieri e a sparire fuggenti alla nostra vista, una pura apparizione, un dono di levità e bellezza, fatto di acqua e vento, di bellezza e illuminazione, quasi un rito, ed è proprio un rito ciò che avviene leggendo il libro, fermandosi di volta in volta davanti ai quadri di Bonnard e di Marthe, la modella moglie raffigurata più e più volte nella sua quotidianità e sempre svestita, eppure sempre enigmatica, misteriosa, come se il nudo non svestisse alcunchè.
Fermiamoci con Fabrizio a rileggere Albertine, nel romanzo di Marcel Proust, a rileggere Lolita di Nabokov, e camminando con lui arriveremo ai film, al film di Rossellini " Un amore" da un atto di Jean Cocteau "La voce umana" con la voce di Anna Magnani al telefono che si strugge per l'impossibilità di poter raggiungere e avere il suono della voce amata, di un lui irrangiugibile.
Sentieri impercorribili quelli del possesso e della certezza, quelli dell'amore e dell'amato, ci dice Fabrizio con i suoi riferimenti ai Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes.
Sentieri impercorribili anche voler conoscere tramite la fotografia, con le immagini, nel disagio delle mille e mille immagini che vorrebbero rapirci e trascinarci lontano da noi.
Bisognerà reimparare a guardare per distinguere l'Altro, ci suggerisce Fabrizio Coscia, in questa passeggiata per i sentieri delle ninfe, fermandoci e attendendo di vederle riapparire sorridenti a farci ciao.
Ippolita Luzzo
Appena nato il libro di Fabrizio Coscia ha il sapore di un classico, il senso di un saggio sull'arte, il profumo di un passato lontano e il continuo delirio felice che da "Soli eravamo" a "La Bellezza che resta" ci giunge fino a noi.
I sentieri attraversati da lui, insieme ai suoi lettori, percorrono luoghi bellissimi, "testimoniati" da quadri, per "imparare a vedere di nuovo attraverso lo sguardo dell'artista" e capire dove si nasconde ciò che crediamo sia perso.
Uno svelamento.
Fabrizio Coscia continua con questo libro a svelarci cosa sia il compito dell'arte, cioè il continuo svelamento sulla soglia dell'impossibile. Per riuscire nel suo intento chiama alla memoria libri, film, quadri, dialoghi, momenti fra il sogno e la veglia, in quel cadere, in quell'abbandono che può regalarci una percezione dilatata.
Qui sembra siano le ninfe a percorrere i sentieri e a sparire fuggenti alla nostra vista, una pura apparizione, un dono di levità e bellezza, fatto di acqua e vento, di bellezza e illuminazione, quasi un rito, ed è proprio un rito ciò che avviene leggendo il libro, fermandosi di volta in volta davanti ai quadri di Bonnard e di Marthe, la modella moglie raffigurata più e più volte nella sua quotidianità e sempre svestita, eppure sempre enigmatica, misteriosa, come se il nudo non svestisse alcunchè.
Fermiamoci con Fabrizio a rileggere Albertine, nel romanzo di Marcel Proust, a rileggere Lolita di Nabokov, e camminando con lui arriveremo ai film, al film di Rossellini " Un amore" da un atto di Jean Cocteau "La voce umana" con la voce di Anna Magnani al telefono che si strugge per l'impossibilità di poter raggiungere e avere il suono della voce amata, di un lui irrangiugibile.
Sentieri impercorribili quelli del possesso e della certezza, quelli dell'amore e dell'amato, ci dice Fabrizio con i suoi riferimenti ai Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes.
Sentieri impercorribili anche voler conoscere tramite la fotografia, con le immagini, nel disagio delle mille e mille immagini che vorrebbero rapirci e trascinarci lontano da noi.
Bisognerà reimparare a guardare per distinguere l'Altro, ci suggerisce Fabrizio Coscia, in questa passeggiata per i sentieri delle ninfe, fermandoci e attendendo di vederle riapparire sorridenti a farci ciao.
Ippolita Luzzo
martedì 12 marzo 2019
Il termine “giovane”
giovane giovane giovane
hai tutta una vita
da vivere ancor
ridono ridono ridono
ti ridono gli occhi
pensando all’amor
svegliati svegliati svegliati
milioni di baci
aspettano te
spendili spendili spendili
tutti tutti con me
Così cantava nel 1963 al Festival di Sanremo Pino Donaggio Il termine “giovane” può essere un sostantivo, un aggettivo qualificativo e un contenitore di sciocchezzaio. Usato a sproposito nei confronti e nei dibattiti si aggira infelice e spaesato non riconoscendosi.
Chi è un giovane come sostantivo? Un essere umano di età variabiale dai 18 ai 30 anni.
Giovani in cerca di prima occupazione, si scrive sui giornali.
Dopo quell’età, stabilita per convenzione, io a 30 anni mi sentivo già adulta, dopo quell’età giovane non designa più il momento di passaggio fra adolescenza ed età matura.
Usato come aggettivo qualificativo ha la sua utile connotazione nel senso di fresco, recente, nuovo, una qualità deperibile e a scadenza.
Scade con il tempo, trascorsi gli anni quella qualità non riguarda più l’oggetto, la persona, il Festival o il libro a cui appartiene.
Nulla resta giovane in eterno. Essendo deperibile dovrebbe essere usato con cautela questo termine, dovrebbe essere rispettato sia nel suo esplodere incontenibile verso la supponenza sia nel suo ripiegarsi sommesso nella insicurezza.
Invece ora questo termine precipita nello sciocchezzaio delle parole vuote con cui infarciscono i discorsi sia i politici che gli intellettuali, scrittori scrittrici e presentatrici, operatori culturali e non, un vero sciocchezzaio immondo senza senso e senza virtù.
Sarebbe bene che chi martirizza questo termine a suo piacimento per poter ottenere vantaggi pecuniari o passerelle televisive e radiofoniche, oppure peggio ancora un like su Facebook o un passaggio in blog, o più semplicemente un buon sostanzioso aiuto regionale, facesse un semplice ripasso sul dizionario italiano.
giovane giovane giovane
hai tutta una vita
da vivere ancor
fermala al volo
bella com’è
giorno per giorno
tutta per te
hai tutta una vita
da vivere ancor
ridono ridono ridono
ti ridono gli occhi
pensando all’amor
svegliati svegliati svegliati
milioni di baci
aspettano te
spendili spendili spendili
tutti tutti con me
Così cantava nel 1963 al Festival di Sanremo Pino Donaggio Il termine “giovane” può essere un sostantivo, un aggettivo qualificativo e un contenitore di sciocchezzaio. Usato a sproposito nei confronti e nei dibattiti si aggira infelice e spaesato non riconoscendosi.
Chi è un giovane come sostantivo? Un essere umano di età variabiale dai 18 ai 30 anni.
Giovani in cerca di prima occupazione, si scrive sui giornali.
Dopo quell’età, stabilita per convenzione, io a 30 anni mi sentivo già adulta, dopo quell’età giovane non designa più il momento di passaggio fra adolescenza ed età matura.
Usato come aggettivo qualificativo ha la sua utile connotazione nel senso di fresco, recente, nuovo, una qualità deperibile e a scadenza.
Scade con il tempo, trascorsi gli anni quella qualità non riguarda più l’oggetto, la persona, il Festival o il libro a cui appartiene.
Nulla resta giovane in eterno. Essendo deperibile dovrebbe essere usato con cautela questo termine, dovrebbe essere rispettato sia nel suo esplodere incontenibile verso la supponenza sia nel suo ripiegarsi sommesso nella insicurezza.
Invece ora questo termine precipita nello sciocchezzaio delle parole vuote con cui infarciscono i discorsi sia i politici che gli intellettuali, scrittori scrittrici e presentatrici, operatori culturali e non, un vero sciocchezzaio immondo senza senso e senza virtù.
Sarebbe bene che chi martirizza questo termine a suo piacimento per poter ottenere vantaggi pecuniari o passerelle televisive e radiofoniche, oppure peggio ancora un like su Facebook o un passaggio in blog, o più semplicemente un buon sostanzioso aiuto regionale, facesse un semplice ripasso sul dizionario italiano.
giovane giovane giovane
hai tutta una vita
da vivere ancor
fermala al volo
bella com’è
giorno per giorno
tutta per te
sabato 2 marzo 2019
Il paradigma dei miei Frattempi Floriano Lamanna
Parole e versi come onomatopee, locuzioni fonicamente imitative, per suggerire il suono sul piano retorico o stilistico, questo il gioco di versi in Floriano Lamanna, scegliere termini inusuali per sentirne la potenza dell'evocazione e la meraviglia della sorpresa.
Ci sorprenderemo a leggere i versi e i componimenti presenti nella raccolta data in stampa da Rubbettino print per conto di Calabria Letteraria editrice nel mese di Febbraio 2019.Trascrivo
Il ricettacolo di ognuno che ognuno
La melodia/Tarpata è Schiattata,/la giravolta e i fandango/all'Orecchio/dal Lobo al Timpano/negate.
L'impatto Aguzzo/ è sull'astuzia;
il ricettacolo di ognuno che ognuno!
Su quello "Schiattata" io vedo la povera melodia, il suono dolce ed educato tarpato, chiuso, e sembra non ci sia che negazione se non ci fosse l'astuzia in soccorso. Ah che bella parola l'astuzia! Nella filosofia hegeliana, astuzia. della ragione (ted. List der Vernunft), il fatto che la Ragione che governa la storia del mondo si serve degli scopi particolari e caduchi degli uomini come strumenti per realizzare i suoi proprî fini." Hegel applica il termine astuzia della ragione al fine ultimo del mondo, la coscienza della mente della sua libertà. Lo scopo rappresenta il razionale negli eventi storico-mondiali e si realizza su diverse azioni umane, che possono essere guidate anche da passioni e interessi particolari. La ragione, in questo caso, è così "astuta" da lasciare che le passioni funzionino da sole, che "da ciò che si mette in esistenza perde e soffre". L '"Idea non paga per il tributo dell'esistenza e della transitorietà, ma per le passioni degli individui".Lo scopo è "nella relazione indiretta con l'oggetto" e "inserisce tra sé e un altro oggetto".
Da "Il mio respiro è un biroccio" a "Il trespolo sollevando il turibolo" al " Spezza, Spacca, Schioppo" nel "La Stravaganza dell'Esteta Stramazza" vi divertirete ad giocare come se foste ad un tavolo di biliardo, in pause riflessive in attesa.
Mutuata dall'ambiente del biliardo con la stecca, è la frase "calma e gesso": durante una partita è necessario tenere sotto controllo la tensione nervosa ed bisogna assicurarsi di aver preparato lo strumento di gioco, mutuato dall'ambiente poetico il tenere sotto controllo il verseggiare pallido e assorto, non più presso un rovente muro d'orto ma di prima mattina, giocando con il titolo" Bevo Solo di Prima Mattina e Faccio sempre le Scale.
Trovo verità e sincerità nei versi in lettura, ed in "Crogiolati" mi piace riportare "Io sono solo un/Umano che scrive Cose/90 oggi/Spero che non sia/un giorno di paura,/anche se la paura/specchio speculare intelligenza.
Mario Caligiuri nella prefazione scrive:" Una silloge che disorienta... mentre sta arrivando la bufera. E in questo gioco di specchi, in questo trionfo delle ombre, ci metti di fronte alla nudità della poesia."
Nelle onomatopee del pensiero.
Ippolita Luzzo
Ci sorprenderemo a leggere i versi e i componimenti presenti nella raccolta data in stampa da Rubbettino print per conto di Calabria Letteraria editrice nel mese di Febbraio 2019.Trascrivo
Il ricettacolo di ognuno che ognuno
La melodia/Tarpata è Schiattata,/la giravolta e i fandango/all'Orecchio/dal Lobo al Timpano/negate.
L'impatto Aguzzo/ è sull'astuzia;
il ricettacolo di ognuno che ognuno!
Su quello "Schiattata" io vedo la povera melodia, il suono dolce ed educato tarpato, chiuso, e sembra non ci sia che negazione se non ci fosse l'astuzia in soccorso. Ah che bella parola l'astuzia! Nella filosofia hegeliana, astuzia. della ragione (ted. List der Vernunft), il fatto che la Ragione che governa la storia del mondo si serve degli scopi particolari e caduchi degli uomini come strumenti per realizzare i suoi proprî fini." Hegel applica il termine astuzia della ragione al fine ultimo del mondo, la coscienza della mente della sua libertà. Lo scopo rappresenta il razionale negli eventi storico-mondiali e si realizza su diverse azioni umane, che possono essere guidate anche da passioni e interessi particolari. La ragione, in questo caso, è così "astuta" da lasciare che le passioni funzionino da sole, che "da ciò che si mette in esistenza perde e soffre". L '"Idea non paga per il tributo dell'esistenza e della transitorietà, ma per le passioni degli individui".Lo scopo è "nella relazione indiretta con l'oggetto" e "inserisce tra sé e un altro oggetto".
Da "Il mio respiro è un biroccio" a "Il trespolo sollevando il turibolo" al " Spezza, Spacca, Schioppo" nel "La Stravaganza dell'Esteta Stramazza" vi divertirete ad giocare come se foste ad un tavolo di biliardo, in pause riflessive in attesa.
Mutuata dall'ambiente del biliardo con la stecca, è la frase "calma e gesso": durante una partita è necessario tenere sotto controllo la tensione nervosa ed bisogna assicurarsi di aver preparato lo strumento di gioco, mutuato dall'ambiente poetico il tenere sotto controllo il verseggiare pallido e assorto, non più presso un rovente muro d'orto ma di prima mattina, giocando con il titolo" Bevo Solo di Prima Mattina e Faccio sempre le Scale.
Trovo verità e sincerità nei versi in lettura, ed in "Crogiolati" mi piace riportare "Io sono solo un/Umano che scrive Cose/90 oggi/Spero che non sia/un giorno di paura,/anche se la paura/specchio speculare intelligenza.
Mario Caligiuri nella prefazione scrive:" Una silloge che disorienta... mentre sta arrivando la bufera. E in questo gioco di specchi, in questo trionfo delle ombre, ci metti di fronte alla nudità della poesia."
Nelle onomatopee del pensiero.
Ippolita Luzzo
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