Ringrazio la bellissima opportunità della stima reciproca fra lettori e autori e sono felice di poter parlare di un libro che è un avvincente ritratto di anni appena trascorsi eppure ormai tramontati per sempre: Gli anni dei famelici.
Il libro di Davide D'Urso mi chiarisce in maniera inequivocabile del perché io, nauseata dalla trasformazione epocale che vedevo durante gli anni ottanta, mi sia ritirata, chiudendo televisioni e giornali. La storia che viviamo è un soffio, la nostra personale dura poco, eppure la generazione dei settantenni e più ha vissuto fra il nuovo e il vecchio, con la pervicacia di distruggere il passato.
I famelici di Davide D'Urso: Libro bellissimo. I famelici sono la generazione che ora ha settanta anni e più. Una volta vecchiaia ora non più. I famelici hanno divorato, senza per questo esserne felici, il piccolo, il dimesso, la morigeratezza di costumi ed hanno sostituito case grandi a case piccole, macchine grandi a macchine piccole, centri commerciali a negozi piccoli. "Ce ne ricorderemo di questo pianeta", diremo con Sciascia.
Una vera guerra ai valori, alle consuetudini, ai riti, alla morigeratezza. Gli individui sono stati interpreti di una finta rivoluzione e di un edonismo senza confronti, in un momento storico in cui tutto è sembrato possibile. Tutto è possibile, era il diktat, se vuoi comprare puoi fare un assegno postdatato, pagherò, se vuoi viaggiare ci sono mille opportunità a basso costo, crociere con navi da tremila passeggeri, se vuoi distrarti ci sono le televisioni private con svolazzanti femmine nude o scarsamente vestite, ci sono mille programmi televisivi sul nulla catartico dell'offerta riflessiva.
Nel libro c'è lo sguardo rispettoso verso i personaggi, intrappolati nel corso degli eventi, ed è giusto così, lo sguardo di un quarantenne che di tutto quello sciupio vede ora la precarietà, vede un futuro fosco, un mondo imbruttito e sporcato, inquinato e difficile, vede schiavi e violenze, vede proprio un non futuro. In tutto questo gli "intellettuali" hanno giocato ai festival, ai premi, ai convegni, e insieme ai politici hanno fatto finta di autoflagellarsi
"Non so se è sempre stato così, ma oggi nei paesi di provincia la cultura è diventata lo strumento di gratificazione personale del professore di turno. Il quale, con l’autoreferenzialità tipica di queste terre, non fa altro che passare il tempo a rievocare modesti avvenimenti verificatisi in paese; rivolgendosi a un pubblico di attempati professori altrettanto esperti e fanatici della materia che, in seguito, lo inviteranno a presenziare ai loro dibattiti circa l’ennesimo, microscopico episodio storico che va assolutamente raccontato perché, dicono, bisogna valorizzare il territorio. Alla fine, gli interlocutori sono sempre gli stessi, il territorio non si valorizza mai e a ricevere qualche beneficio – un rimborso spese o, più spesso, la soddisfazione di un applauso e qualche ammirata stretta di mano sono gli stessi che li pongono in essere, e tutto finisce nel dimenticatoio dopo qualche giorno."
I famelici di Davide D'Urso non sono da condannare ma da studiare, sono coloro che hanno avuto entusiasmo ed hanno creduto nelle "magnifiche sorti e progressive"
Conosco il periodo storico esplorato dall’interno con gli occhi, primo di un bambino e poi da adolescente e infine uomo. Conosco i famelici, intendendo una generazione che si è lasciata convincere a vendere i mobili antichi ereditati per una cucina in formica, a lasciare le loro scomode case senza riscaldamenti per orridi appartamenti senza luce. La storia di uno sciupio che è sembrato ai più abbondanza. Lo sguardo con cui l'autore guarda gli anni è affettuoso, attento a non far male, a rispettare ciò che ancora è da rispettare: il senso del sacro nei rapporti, le amicizie che stanno ferme tutta una vita, che saranno la vita per ognuno. A Serafino, l'amico sfortunato del padre del narratore, mi ritrovo a dedicare anche io una lettura appena terminata dei Famelici, Serafino che viene stritolato dalla famiglia che si sfalda, dalle vernici che lo intossicano, dal finto benessere che inquina tutti, chi più chi meno.
Anche i vincenti, anche coloro che sembrano aver conquistato tutto, in effetti guarderanno le conquiste con il senso della vacuità di quel possesso.
Il libro cerca di rispondere a domande che vedono la risposta negli occhi di una generazione di giovani, di quaranta o trenta anni, che ci guardano muti. Mi metto anch'io insieme ai famelici, anche se sono stata una digiunatrice, diciamo così, essendo impegnata in ossessioni simili a quelle dell'autore. L'ossessione di capire mio padre, mia madre, la mia famiglia patriarcale con le sue orribilità.
Ed insieme all'autore ho trovato che la storia degli individui e delle famiglie si possa raccontare travasandola in letteratura, decantandola e purificandola per capirla e per perdonarla.
Un atto di sublimazione al posto degli sputi, della rabbia, della contestazione che ora non si sa neppure contro chi dirigerla.
Un libro da leggere, un libro nel Regno della Litweb, nella letteratura incontrata sul web, ma presente in libreria, un libro che porteremo nelle piazze di un regno che nacque proprio per abolire gli assegni, postdatati e non.
Un libro di un autore che ama i libri, che ama viverci dentro con l'immaginazione della letteratura
Ippolita Luzzo