sabato 31 marzo 2018

Roberto Saporito Jazz, Rock Venezia

 Il libro di Roberto Saporito arriva in Aprile in libreria. Questa la mia lettura.  “Adesso devi solo trovare la tua isola, ma con i soldi si trova tutto, e l’unica cosa che non ti manca in questo momento, sono proprio i soldi.
In questa parte di mondo i soldi possono anche risolvere i problemi esistenziali e chi dice il contrario mente, sapendo di mentire.”
Conosco e leggo Roberto Saporito da alcuni anni.

Elogiava la sua scrittura Nicola Vacca, critico letterario molto attento al fermento letterario, ed erano queste le sue parole nel 2014 su Satisfiction “Roberto Saporito è uno dei migliori scrittori della nostra narrativa.” “Gli scrittori veri a questo servono. A cambiare radicalmente i lettori nel bene e nel male ma anche al di là del bene e del male. Perché quello che conta quando chiudiamo un libro è cercare di capire se le pagine scritte fanno parte di noi. Con i libri di Roberto questo accade. Ma lui è uno scrittore vero.” Credo come Nicola che Roberto sia uno scrittore vero e credo che questo suo libro, da poco uscito per la casa editrice Castelvecchi, sia uno dei suoi racconti più interiore e intimo. Mi ritrovo proprio in questa storia, raccontata tra una musica jazz e rock in cui Venezia resta protagonista assoluta e suona con noi e i My Velvet Red.

“Stai pensando che la solitudine si combatte con l’estremizzazione della solitudine stessa, mettendo a nudo il proprio cuore davanti al nulla totale. Che un’isola è quello che ti ci vuole in questo momento. Un’isola e un motoscafo per scappare dall'isola quando il bisogno di vedere altre persone diventa veramente impellente, necessario, non un obbligo sociale, ma una cosa cercata unicamente nel momento in cui diventa urgente vedere davvero altre persone, come una forma di misantropia benigna”

Le nuvole di Venezia:  “Sposti lo sguardo al cielo striato da nuvole grigie sovrapposte da nuvole meno grigie, sovrapposte ad un ulteriore strato di nuvole bianco sporco, merlate e frastagliate e lievemente in movimento, nuvole che attraversano silenziose la laguna.”

E intanto quello spazio interiore vissuto dalla solitudine. “È che non sei più abituato alle case vuote tutte per te, la tua casa da troppi anni sono gli alberghi, non sei abituato alla solitudine, non sei abituato ad un luogo dove non si può ordinare la colazione in camera semplicemente alzando la cornetta di un telefono, dove uscendo dalla stanza si incontra sicuramente qualcuno, mentre qui fuori non c’è nessuno”

Leggo e vorrei tratteggiare e salvare e riportare intere frasi molto vicine al camminare e con in testa l’ultimo di libro di Thomas Bernhard "Camminare".
e da Roberto Saporito “Camminare così, con questa andatura da persona che sembra che stia davvero andando da qualche parte, da persona con una vera meta da raggiungere quasi con una certa fretta, mi calma, mi dà equilibrio, mi azzera i pensieri fastidiosi, mi alleggerisce il peso che spesso mi grava sulle spalle, che mi provoca dolorosi mal di schiena, e mal di testa” Con Roberto andiamo via sull'isola, la nostra isola letteraria che stasera ci salva, senza bisogno di soldi, con un buon libro in mano.
Ringraziando l’autore.
Ippolita Luzzo 

Pablo Paolo Peretti Cinque streghe danesi e un poeta

Piccoli cerchi che si espandono.
La coincidenza del sabato santo lega le poesie di Pablo Paolo Peretti ai riti religiosi della settimana santa, una settimana in cui la Chiesa celebra il sacrificio, la morte e la resurrezione.
Nel libro di Pablo le donne sono protagoniste anch'esse di martirio, furono duemila in Danimarca  le donne accusate e uccise per stregoneria. Torturate dal tribunale dell'Inquisizione con spietatezza, già  nel 1487, l'inquisitore Kramer descriveva e consigliava i trucchi per svelare chi fosse una strega. Da allora fino al 1700, le donne ostetriche, studiose, o con forte carattere, venivano bruciate al rogo. La Chiesa vedeva in loro il maligno, vedeva nella forza, nella conoscenza, la morte e il peccato. Secoli bui.
Di queste donne il poeta sente ancora le voci e ne sceglie cinque, cinque donne a cui dare voce, cinque donne da fare parlare all'alba degli anni duemila, anni altrettanto problematici per chi vuole vivere di conoscenze e di autenticità.
Johanne, Giertrud, Anna L., Maren, Anna B., parlano attraverso Pablo, il medium, il poeta tramite, lui che è voce e vive insieme a loro. Lui sceglie di firmare insieme a loro la prima delle dieci poesie che ogni donna avrà per presentarsi al mondo. 
Mi succede alcune volte di intercettare amicizie e sinergie, amicizie e compagnia, lontane nel tempo e nello spazio, e sono felice di avere  qui con me questi versi in cui vi è amicizia e somiglianza fra le donne ingiustamente arse e noi, fra il poeta e le donne, e lo stesso disprezzo verso le tante ingiustizie. Maren Spliids messa al rogo nel 1641
Il vostro sputo
il vostro disprezzo
lo porterò 
dentro quel fuoco che vi libererà di me. 
E voi vi sentirete sollevati
condannandomi 
a rinascere dalle mie ceneri.
Cominciate a chiudervi in casa. 
Il mio bussare alle vostre porte 
non conoscerà tregua.
Sembra di vedere Maren e Pablo insieme alle altre,  sul palco della nazione Danimarca, di ogni nazione, di vederli mano in mano, di vederli in piedi, dritti, davanti ai regnanti, ai cardinali, ai giudici, ai torturatori. Sembra di sentire quel bussare, nella potenza evocativa del verso, nella forza della poesia.
Cinque donne innocenti e un poeta. 
Giertrud morta nel 1577
la sua quotidianità, 
Una tovaglia a fiori/che contrasta con un giardino/millecolori./ Seduto/mangio pane e estate/lasciandomi provocare da una mosca/...
Sono erba, luce e cielo    
e l'ultima strega condannata a Ribe, Danimarca, nel 1652, Anna Bruds: Sei il fiore/ dentro il bicchiere/ quello/ che colora questa stanza.
Ed ancora nei cerchi che si espandono 
Mi piacerebbe fermare la vita su queste mie fantasie di uomo solo il dialogo con  Johanne, diventa un cerchio che si allarga sempre più.
I cerchi di Pablo
Ippolita Luzzo 


Pablo Paolo Peretti è nato il 5 Ottobre 1957 a San Donà di Piave, Venezia. Dal 1999 abita a Copenhagen. Le sue pubblicazioni sono Crowded Airports and Tired Queens / Aeroporti affollati e stanche regine (2016); Cucina di rabbia e poesia (2015). Ha scritto poesie contenute nei romanzi Olivia e Noi due come un romanzo (Mondadori) di Paola Calvetti. Nel 1994 è stato freelance e opinionista per il mensile Moda (Nuova Eri). Sue poesie sono state lette su RAI3 e citate su importanti riviste italiane.

giovedì 29 marzo 2018

La spartenza a chitarra battente: Francesco Sicari e Francesco Loccisano

Sono passati quasi dieci anni dal giorno in cui andai da Giacinto Lucchino per costruirmi una compilation di canzoni per l'unico compleanno io abbia festeggiato. Mi ricordo quanto mi sia sentita compresa e quanto nel tempo noi tutti abbiamo riconosciuto a Giacinto e fratelli una competenza musicale e una sensibilità sociale. Plaudo quindi alla scelta dei musicisti sul palco dell'auditorium del liceo Tommaso Campanella.
Due gruppi si sono alternati e  hanno confluito in un canto da me amato: La Malarazza, u cristu in cruci. Mi sembrava di rivedere Mimmo Martino sul palco, con La Mattanza, mi sembrava di risentirlo parlare a cena accanto a me, dopo quella nostra partecipazione a Tabula rasa, sul palco di Reggio Calabria.
Ippolita, mi diceva, hanno distorto tutto, Modugno ha usato male un testo, lo ha piegato a fini commerciali. Mi spiegava anche altro e io non ho preso appunti, ma rivedevo ieri sera negli occhi e nella voce di Francesco Sicari, cantautore di origine di Briatico, la stessa dolente adesione ad una realtà di distorsione.
Sul palco dove si è esibito con la partecipazione della prima violinista dell'orchestra di Ennio Morricone, Prisca Amor, Massimo Cusato e Attilio Costa, Francesco Sicari incontra Francesco Loccisano.
Con lui, chitarra battente, parlerà di spartenza, del dolore di lasciare questa terra, e  insieme ricordare  Tommaso Bordonaro,  una data, 15 agosto 1988, per descrivere cosa sia, e come si possa definire, La Spartenza, in un diario, in una canzone, su un palco.
La chitarra di Francesco Locisano batte il ritmo, batte il tempo, batte la storia infigarda del sud, la batte proprio. 
Francesco Loccisano ha fatto parte dei Taranta Power di Eugenio Bennato, ha collaborato in un live con Gianna Nannini, con Vinicio Capossela, con il percussionista Andrea Piccioni, e ieri sera insieme a Tonino Palamara e Nicola Scagliozzi ci avrà suonato i brani del suo album Solstizio.
Risuonava la musica battente contro un sud in cui il retaggio del pressapochismo è difficile da sconfiggere, contro un sud avvelenato e mediocre.
 Nemmeno contro, in effetti, perché se stai lottando contro hai già un nemico da combattere e un campo di battaglia e non fantasmi.  
Il sud è territorio di fantasmi. E nella sparizione del tutto risuona limpida la protesta ritmica battente di musicisti per davvero. 
  
I protagonisti sul palco sono artisti riconosciuti e di grande virtuosità, ho fatto fotografie sfocate e solo queste mi sembra siano degne di essere messe in pubblico, chiedo scusa,  resta per me una grande fortuna aver potuto applaudirli. 
Ippolita Luzzo 


 "Ieri sera vi era una rassegna nata da un'idea di Ecsdance con la provincia di Catanzaro e ora da due anni sviluppata con Sorvolandia nella manifestazione Settembre al Parco Terra tra due mari"   

mercoledì 28 marzo 2018

Lampi e Ispiere da Ravasi a Perec in EDB


Le Ispiere, Il raggio di sole, collana della EDB, illuminano il buio con Gianfranco Ravasi La voce del silenzio.
I Lampi d'autore, collana di autori quali Anatole France, Il procuratore di Giudea, oggi ospitano Georges Perec, La Cosa. 
Fra Lampi e Ispiere oggi, fra i lampi che squarciano il cielo durante un temporale e danno un fugace bagliore, benché si aprano nella vastità della volta celeste, alle ispiere, quei raggi di sole sottili, che attraversano le fessure illuminando ambienti bui.
Le ispiere: La collana della #EDB prende il nome dell’ispiera, il raggio di sole che illumina la polvere e si rende visibili nella oscurità. Un raggio di sole nel buio. Un sottile rigo di luce. Righiamo di luce il buio, sembra dicano entrambi i testi e soprattutto questo del cardinale Gianfranco Ravasi, La voce del silenzio. Fra buio e luce, costrizione e libertà, male e bene. 
L’universo mutevole, il linguaggio rigido. Nel buio della parola parlata ci sta l’ispiera, il silenzio sottile che illumina la conversazione nella semioscurità "Il termine ispiera compare nel Codice Riccardiano 1341 come traduzione di un passo del vangelo apocrifo dello Pseudo Matteo in cui si narra un gioco d'infanzia di Gesù che cavalca l'ispiera del sole."
Accosto con commozione queste due collane, e nella luce di lampi e ispiere scorgo quella linea, quella luce, quel momento in cui ci si accorge di essere stati nel buio.
Leggo il libro di Ravasi, La voce del silenzio, e ogni frase racchiude e apre riflessioni, i passi della Bibbia sono simboli.
 Siamo sul monte Sinai insieme al profeta Elia, il primo dei profeti, aspettiamo di incontrare Dio. Come Elia, perseguitati dalla cattiva regina Gezabele, cerchiamo il messaggio della salvezza.
Sul monte Sinai Dio si rivelerà nel mormorio di un vento leggero, una voce di silenzio sottile.    
Siamo nel giardino fiorito del Cantico dei Cantici, così lo ha chiamato Thomas Eliot, il giardino fiorito in quei dieci giorni di primavera, una linea sottile di giorni fra il sole bruciante dell’estate e il freddo gelido dell’inverno. I fili d'erba spuntano fiduciosi.Simboli.  
Nella diafania della parola i simboli che noi siamo. Piacerebbe moltissimo a Fabrizio Coscia questa diafania, la parola così trasparente da riuscire a mostrare la luce che sta al di là, l’essenza, la sostanza delle cose. Fabrizio Coscia chiama "La bellezza che resta", questo svelamento, il gesuita Teilhard De Chardin diafania: "riuscire a mostrare la luce che sta al di là, l'essenza, la sostanza delle cose, e non diventare uno schermo opaco"
 Pagine di una trasparenza diafanica leggiamo nella Bibbia
 Il grande codice, La Bibbia, la stella polare, chiama Ravasi il testo biblico, la stella polare di riferimento per colorare, musicare e interpretare.
Scrive Chagall:"La Bibbia è l'alfabeto colorato della speranza"
Non è sufficiente denunciare l'artificio di una costrizione per trarre, dalla sua soppressione, l'occasione di una qualsivoglia libertà, dice Perec, quasi dialogando con Ravasi,  La costrizione è ciò che permette la libertà scrive ancora Perec nella Cosa e Ravasi risponde paradossalmente con "Se non esistessero il male e la sofferenza nell'Occidente non sarebbe quasi esistita buona parte della filosofia". Se non esistesse il buio, il male, la costrizione e l'ingiustizia, come potremmo vedere le ispiere?
Ippolita Luzzo
  

martedì 27 marzo 2018

Agnès Varda e JR al cinema San Nicola di Cosenza

"Non ci siamo incontrati su una panchina, non ci siamo incontrati alla fermata di un tram, non ci siamo incontrati alla cassa di un bar, ci siamo sfiorati e non ci siamo incontrati. Poi però ci siamo incontrati." Comincia così il film di Agnès Varda e JR, lei un nome della Nouvelle Vague, regista, e lui fotografo, curioso di ingrandire i volti che entrano nel suo camioncino fotografico.
Iniziamo a viaggiare con loro nei villaggi francesi profumati di lavanda, nei villaggi di minatori ormai abbandonati, al porto di Le Havre, e andiamo a vedere un bunker precipitato sulla spiaggia e diventato la culla di un momento per un amico defunto di Agnès. Dondola dondola il vento lo spinge e poi la marea tira giù l'immagine incollata il giorno prima da JR.
Sparita, pfui.
Eppur ci resta quella tenerezza dell'istante, ci restano insieme le immagini di quell'ombrellino bianco e fatto di trine, ricordo di un matrimonio di molti anni prima, e messo in mano alla ragazza del bar, fiabesco personaggio ora che sta incollata su un muro, ci restano le risate di quella panchina da dove Agnès non potrebbe scendere se non con l'aiuto di JR.
Ci resta quell'immagine sfocata degli occhi di JR, lui toglie gli occhiali per fare un regalo ad Agnès, per consolarla del rifiuto di Godard, e lei non riesce a vederli. Non riusciamo a vedere gli occhi, la nostra visione sempre parziale sarà, offuscata, sembra ci dica Agnès. 
Resta la piacevolezza dell'incontro fra generazioni lontane, questa è proprio il grande regalo dell'arte, andare oltre il corpo, le rughe, gli impedimenti e saltare il dislivello con la voglia, l'incoscienza e la follia di esserci, di guardare, non appannati, di guardare oltre miopia, presbiopia e cataratta. Andare in quel piccolo cimitero di dieci tombe e salutare Henri Cartier-Bresson, andare da Godard e non essere ricevuti. 
Ti voglio bene lo stesso, scrive sul biglietto a Godard una dispiaciuta Agnès.
L'ho capita: Come se io andassi da una mia cara amica che mi ha bannato e scrivessi uguale.
D'altronde si vuole bene a ciò che ci piaceva fare con loro, a ciò che abbiamo conosciuto insieme e tutto si porta con noi, nel nostro costruire identità, se è stato vivente l'istante, se sono stati viventi gli anni e le conversazioni.
Elogio al vivente, alla serenità, a quella grande gioia che ci fa saltare dalla sedia, prendere l'auto e andare, pioggia o non pioggia, al Cinema San Nicola.       
 La tela e lo schermo continua oltre; la quarta edizione della rassegna di "Falso Movimento", patrocinata dal Comune di Cosenza al cinema San Nicola, ha indagato il rapporto tra cinema e arti visive, con Egon Schiele, "La morte e la fanciulla" e  ieri sera "Visages Villages". Cito solo i due film dove ci siamo incontrati, io e il cinema San Nicola, come Agnès Varda e JR, insieme a chi si riconosce per assonanza, consonanza, somiglianza e avvia un motore di ricerca verso altri volti, altri spunti di conoscenza, nel regno felice delle opportunità e del caso.
Nel film, delizioso, la Varda dice a JR: Il caso è il migliore dei miei assistenti, e noi con lei, noi, partecipanti alla visione del film, noi che ci tratteniamo a fine serata davanti al cinema a parlare di visioni, di ponti, di associazioni mentali, noi diciamo lo stesso, augurandoci di partire come lei, e con lei poi fermarci su quella panchina insieme a JR, insieme a Mara, Gianluca, Daniele, Giuseppe, insieme al cinema che ci fa incontrare. 
Ippolita Luzzo   

domenica 25 marzo 2018

De Chirico: Enigma dell'infinito al Museo MARTE di San Pietro a Maida



La qualità è rivoluzionaria.
Di nuovo in Calabria, dopo una mostra al Maon di Catanzaro nel marzo 2006, una raccolta di opere di De Chirico
Al Museo delle Arti e del Territorio di San Pietro a Maida un evento espositivo in programma dal 24 al 31 marzo mi vede per caso presente grazie all'invito di care amiche. Sono molto felice quando in un mondo di robot incrocio esseri umani.
Piacevolissima serata dunque con l’Enigma dell’infinito "40 anni di Giorgio De Chirico". Una struttura museale presenta un progetto riconosciuto di interesse regionale e la mostra è realizzata con il contributo della G.R. nell'ambito dei finanziamenti per valorizzare e qualificare un territorio. Sono infatti presenti Salvatore Bullotta Responsabile Dipartimento cultura della regione Calabria e Giacinto Gaetano direttore del Sistema Bibliotecario Lametino.
I miei appunti conservano alcune immagini: Il sindaco Pietro Putame racconta la nascita del Museo da una idea del professore Michele Licata, con il contributo per i reperti archeologici del professore Antonio Spanò e per la parte antropologica del Professore Pietro Gullo, Direttore del Museo.
Siamo nei locali di quella che era la Scuola Primaria, sul corso cittadino del paese, e ascoltiamo Ermenegildo Frioni, della Organizzazione Artistica FriArte, raccontarci di De Chirico, del suo carattere quasi scontroso, del suo salutare con un cenno impercettibile.
La mostra espositiva sarà una settimana di studio sulle sue opere seguendo due o tre frasi che mi sono appuntate: La povertà di una volta poggia sulla ricchezza di oggi, dice Pietro Gullo, e " anche una rosa dipinta può essere rivoluzionaria" una frase detta da Picasso e riportata da Pasquale Lettieri, critico d'arte, in un suo appassionato intervento in favore della qualità. La qualità è rivoluzionaria e comprende la capacità di usare termini passatisti per l'avvenire. Tra classicità e avanguardia pittorica, nella necessità di adattabilità,  i doppi punti vista dei pittori fiamminghi e Rubens molto amato da De Chirico.
Marcello Palminteri, nel suo precedente intervento aveva legato la musica e la filosofia alle opere di De Chirico ed intanto il Sindaco si dirige al taglio del nastro e noi tutti sciamiamo nelle sale al piano superiore.
 Una occasione per ammirare De Chirico ed insieme nelle altre sale le opere di artisti a noi vicini, Antonio Pujia Veneziano, Francesco Antonio Caporale, Antonio Saladino,
 per segnalare una attenta visita nelle altre sale dove ho incontrato in tutti gli artisti il contemporaneo della qualità.

Qualcosa è cambiato nel sud non più valigie, scrive Giovanni Barone come titolo a questo suo lavoro esposto al Marte di San Pietro a Maida. Nel museo opere di artisti che offrono in visualizzazione la croce di tutte le valigie
Ippolita Luzzo 
      

venerdì 23 marzo 2018

La fiaba di Massimo Carlotto: Amal vuol dire speranza

Non è questo il titolo del libro da cui è tratto lo spettacolo di stamani al Liceo Classico di Lamezia Terme, proposto e organizzato dalla Fondazione Lilli e dal Sistema Bibliotecario.
La via del pepe con sottotitolo I mercati del Mediterraneo narra in parole e musiche l'epopea di annegati al largo di Lampedusa. A prua nel barcone sta Amal, la speranza, con cinque grani di pepe stretti nel pugno, sono il dono del nonno, un uomo legato al sacro, sono il dono simbolo della lunga via della storia. Sul barcone intanto si scruta l'orizzonte, si aspetta la terra, e mentre si attende, e mentre fiduciosi si abbandonano al rumore del mare avviene il collasso. La carretta del mare si sbriciola, annegano tutti, tutti tranne Amal, la speranza.
Appare nel mare una strana figura, fatta di acqua, ma con un viso femminile, la morte a forma di acqua, e inizia a discorrere con Amal per distrarsi, per allontanare la noia. Amal, smarrito, viene a sapere del potere insito nei cinque grani di pepe, lui non annegherà, per il momento, grazie alle arti del nonno, rimasto in Africa. Nel dialogo con la morte il ragazzo si accorgerà ben presto che non vi è  nessuna dignità in questo viaggio e lascia andare i grani. La morte li rimette nel suo pugno con le parole "Non bisogna prendere la morte sul serio". La morte gioca come il gatto col topo e alla fine lascia andare Amal giù nel mare. Una fiaba però ha sempre la potenza del bene, e il nonno riappare, prende il posto del nipote, Amal arriva, sbarca, non viene creduto, viene rispedito di nuovo in Africa, in un luogo imprecisato e ritorna il cammino con una picozza in mano per trovare l'acqua.
Ed è la tristezza il segreto per trovare la vena, sembra dirci Massimo Carlotto, davanti a questa immane tragedia che ogni giorno vede i nostri tempi trascorrere.
Un cimitero, il mare Mediterraneo, un cimitero di numeri senza nome, un cimitero di nefandezze compiute in nome del dio mercato, in nome del commercio di corpi venduti e spellati, venduti e annegati. Una tristezza tanto enorme da richiedere l'uso fiabesco del racconto.
Ascoltiamo le musiche di strumenti di quei luoghi, uno è unico al mondo, Maurizio Camardi e Mauro Palmas suonano, e sentiamo il pizzicore agli occhi, come se ci fossimo toccati gli occhi con la polvere rossa del pepe pestato.
Nella fiaba la luna ha una lacrima, il cielo partecipa con un turbine, gli elementi della terra e dell'acqua si danno un abbraccio nella dolente ingiustizia della storia umana, individuale e di popoli.
"Nel cielo non c'era una nuvola. Nemmeno una. La mano di Dio le aveva allontanate con un gesto delicato perché l'azzurro più intenso splendesse nella traversata del peschereccio Firouz. Il mare era immobile e così trasparente che si potevano contare le conchiglie sul fondo di sabbia dorata. Migliaia di sardine avvolgevano lo scafo" 
Con il cielo fotografato da Daniele Rizzuti, la massa degli elementi che sovrastano i delitti e le atrocità commesse in nome del bisogno. 
Il bisogno di Amal, la speranza. 
Ippolita Luzzo   

martedì 20 marzo 2018

La casa dei bambini di Michele Cocchi

Per fortuite circostanze compro domenica il libro di Margaret Atwood, Il racconto dell'ancella, e mi sembra che questo racconto parli al libro di Michele Cocchi, La casa dei bambini.
Entrambi i racconti si svolgono in una casa prigione ed in entrambi la privazione della libertà, un senso di claustrofobia aleggia dappertutto. Il desiderio della fuga, l'elogio della fuga, come nel bel libro di Laborit, viene materializzato già dalle prime pagine del libro di Michele. Da subito i ragazzi, orfani, oppure abbandonati dalla famiglia,  scappano dalla Casa, dove vengono ospitati in attesa della scelta, per essere dati in adozione, scappano e noi già parteggiamo per quella fuga senza ancora sapere nulla di loro.
La fuga finisce presto, verranno scoperti e portati dal direttore. Sandro, Nuto, Dino.
Conosciamo La Casa, conosciamo Giuliano e le mamme, cioè le donne che si occupano dei bimbi, la scuola, la mensa. "La Casa era come una nave e ognuno di loro avrebbe trovato la terra dove scendere e vivere felice"
Alla casa arrivavano le persone per scegliere i bimbi da prendere e quelle mattine erano tutti nervosi. "Aspettavano la scelta per settimane e, quando finalmente ne arrivava una, volevano che finisse il prima possibile." Essere scelti, in verità, li preoccupava. 
Segno ciò che si dicono i due libri, letti insieme, uno transita nell'altro, e nel mio mondo fatto di niente trovo la mia di pagina: Qui conosciamo Caterina, la bimba della locanda, nel paese dove si trova la Casa e sentiamo le parole di sua madre al pensionante, da poco arrivato "Il paese è abitato da vecchi. I giovani se ne sono andati via. Così si era inventata Dalma."Ha sempre avuto degli amici immaginari anche quando era molto piccola. Ho paura che perda il senso della realtà"
Caterina, per giocare, si era inventata Dalma, ed "a volte non era poi tanto male perdere il senso della realtà" Da me i libri si parlano e confabulano tra loro, ed è Caterina ora ad andare alla Casa, in visita, per mano di uno di quei bambini che avevano tentato la fuga. Una fuga dal reale. 
Nella Casa dei bambini la storia chiusa, chiusissima, di una ingiustizia senza possibilità di fuga.
Michele Cocchi adotta uno stile compatto, come un mattone, racconta con descrizioni accurate e costruisce come un muratore, a sua volta, con la malta, le pareti narrative del periodo. 
Una prova complessa, una scrittura corposa, un esercizio di attenzione e un impegno verso i disederati, gli orfani, le vittime, verso coloro che hanno perso la possibilità di fuga. 
Ippolita Luzzo   

lunedì 19 marzo 2018

Piccola società disoccupata al Teatro Morelli

A Cosenza è sempre bello andare.
Bellissimo il Teatro Morelli, ed alla confluenza dei fiumi Crati e Busento la Rosticceria Sasà con i suoi gustosi panzerotti filanti di mozzarella e colorati dal rosso del pomodoro.
 Da stampa alternativa ringrazio chi legge e chi mi regala opportunità di esserci a spettacoli e incontri. Ieri sera, al termine di una domenica ricca di spunti con la riflessione sullo sciupio del palazzo D'Ippolito a Lamezia, sull'incuria in cui vengono lasciati dalla Sovrintendenza e dal Comune palazzi storici, stiamo qui in prima fila ad ascoltare la Piccola Società Disoccupata.
Rémi De Vos drammaturgo francese, nato a Dunquerque Francia, è l'autore del testo. La drammaturgia e la regia di Beppe Rosso.  
Ordunque Marx è morto.
Sul palcoscenico del Teatro Morelli  le sedie prima accatastate vengono sistemate ben in ordine come in preparazione di una conferenza, di quelle conferenze sul lavoro tanto dibattute.
Il cerchio la pipa e gli psicofarmaci usati per lenire il disagio. Il disagio si allarga e si spande e come una nube piovosa arriva a noi spettatori incapaci di opporre un ombrello al riparo della pioggia.
Il drammaturgo aveva di sicuro in mente la sofferenza alienante  di un dire, ma a chi? Non essendoci più un capitalista riconosciuto in quanto tale il dire dei lavoratori non più lavoratori si annulla in un nichilismo di fatto e si spiaccica sulla sala nel corpo degli spettatori. 
Senza lavoro cos'è un uomo? Senza un motivo per vivere, senza una gratificazione, senza poter dire so fare questa cosa, sono abile, sono bravo, come si vive? Certo il lavoro serve per guadagnare, ma serve essenzialmente ad avere una dignità, ad essere in grado di vedersi capace. Molto si è detto sull'alienazione, molto ora si dice in giro sulla disoccupazione, molto era stato discettato e così risentire ieri sera a teatro, da attori pur molto bravi e competenti, uno studio, credo sia proprio uno studio, sugli effetti del non lavoro obbligato dalle circostanze, ha creato in me e in altri disagio e malessere.
Nelle migliori intenzioni spesso, come Goethe ci insegna, si resta perplessi sulla riuscita. Il teatro non è una conferenza.  
Noi però eravamo troppo felici e ritorneremo a Cosenza con il teatro che amiamo. 
Ippolita Luzzo

foto dello spettacolo di Angelo Maggio   
   
   

sabato 17 marzo 2018

La maligredi di Gioacchino Criaco

La maligredi è la malvagità, è quel sassolino che sbatte contro il parabrezza di un'auto in corsa, sembra che non abbia prodotto niente e dopo poco il vetro va in frantumi irrimediabilmente danneggiato. La maligredi è la brama del lupo, il lupo in un ovile scanna tutte le pecore. "Quando arriva, la maligredi spacca i paesi, le famiglie e avvelena il sangue fino alla settima generazione". La cattiveria, il rancore, la sete di vendetta, ciò che distrugge, e da ciò le donne hanno sempre cercato di tenere lontano gli uomini consigliando la pace e il perdono, tenere l'animo sgombro e invitare alla concordia.
Un popolo ingenuo e innocente era un tempo il popolo dei monti, un popolo abitante un monte luminoso, Aspromonte vuol dire proprio monte luminoso, lucente, innevato di bianco e splendente al sole. Un popolo di antichi riti grecanici e bizantini, una comunità, quella di Africo, con le rughe, con i bisogni condivisi, con profumi e racconti.
Stasera il protagonista dei racconti di Gioacchino Criaco è suo nonno, stesso suo nome, un nonno desideroso di trasmettere ciò che è stato cancellato dalla storia ufficiale. Una vita di una comunità sradicata e spostata in un non luogo, in una piana, una palude dove si viveva in malattia e asma, senza respiro. Il racconto di Gioacchino ha un ampio respiro stasera, via l'asma e la palude, via il malessere, bensì il recupero dell'orgoglioso momento in cui negli anni settanta si tentò una rivolta con a capo Rocco Palamara, anarchico, a rivendicare un paese e la sua esistenza.  Un sequel o presequel di Anime nere questo libro che sembra voglia aggiungere altri protagonisti, altri abitanti in un luogo che si vorrebbe far rivivere, anche se pur come luogo di incontri letterari. Nel libro, fra i tanti personaggi, le gelsominaie, le donne lavoratrici e raccoglitrici di gelsomino  staranno al fianco dei ragazzi in una lotta che lo Stato soffocò e disperse. Allora la politica preferì allearsi contro di loro, chiedendo braccia e menti alla maligredi e vediamo i frutti avvelenati fino a qui.
Da Staiti a Brancaleone con le nenie bellissime delle mamme, il vento di Africo, il libeccio, e Rocco Palamara, la storia dei ragazzi d’Aspromonte ora chiude il ciclo sempre nella stessa libreria, nella Sagio Libri, dove ora Pasqualino Bongiovanni  comincia con La Rosa nel Bicchiere di Franco Costabile e siamo a dieci anni, dice Gioacchino Criaco. Dieci anni da Anime nere. Fare giustizia di tanti stereotipi.
Ascoltare Gioacchino è sempre un piacere, si va via pacificati. La nobiltà dei gesti e dei pensieri nella narrazione di Gioacchino Criaco confermano una nuova stagione. La stagione della comunità di scrittori calabresi.  Io dico che questo è il periodo d’oro della narrativa. Da Domenico Dara ad Olimpio Talarico, a Nicola Fiorita e i Lou Palanca a Nicola H. Cosentino, a Pietro Criaco e a moltissimi altri. Il bisogno di comunità, di stringersi in un luogo letterario vedendo i luoghi reali trasformati in non luoghi. 
Fra i libri citati questa sera quelli di Saverio Strati, Mario La Cava, e Via dall’Aspromonte di Pietro Criaco. Quella via che avrebbe dovuto collegare il paese alla pianura ora collega tutti noi nella letteratura della conoscenza.
Ippolita Luzzo   

lunedì 12 marzo 2018

"Brasilia" tra il vero e il falso di Franz Krauspenhaar

"Il sole stava per tramontare su Brasilia, la città che sembrava non avere confini tra il vero e il falso, tra il reale e l'irreale." così a pagina 23 cominciamo questo giro con una Buick giallo canarino verso gli uffici della tv privata Tuni, nello studio dove nel 1980 si mandavano messaggi subliminali. Leggo come se Franz Krauspenhaar stesse parlando di Reti televisive private italiane e il parallelo mi fa sorridere. Immaginare una Brasilia a Cologno Monzese mi sembra facilissimo e il popolo delle favelas di Brasilia italiana saranno poi gli elettori di una sigla pubblicitaria.
"Brasilia ha gli edifici a forma di astronave, tra i pezzi grossi di pattume intorno, come se si stessero creando campi di calcinacci attorno a navi spaziali enormi, messe in mezzo a una città sbalorditiva.”Brasilia: tra i palazzi e le costruzioni a cupola e le bellissime cattedrali di Niemayer puoi ascoltare la grandezza del cosmo."
Leggo quindi questo racconto immaginando Franz divertirsi con fantasmi e sparizioni in un incontro fra padre e figlio, fra passato e presente, fra giornalismo e narrativa. Nello stesso periodo in cui leggo il libro mi viene incontro un articolo su come Oscar Niemeyer fu incaricato dal presidente del Brasile di creare questa città nella giungla, e di come lui si avvia in macchina, un viaggio lunghissimo. 
Dalla Porsche di Grandi Momenti, qui, siamo in viaggio su una Buick gialla, sempre belle macchine guidano la narrativa dei libri di Franz.
Io ho letto Brasilia più come un gioco, come un divertimento, che non come uno libro che debba incutere paura, pensando di avere alle spalle tutto il narrato fatto di esperimenti nei vari campi di concentramento e tutte le insensatezze di regimi totalitari.
Mi auguro sia così almeno e mi auguro che i racconti su grandi poteri dominanti restino sempre confinati sulle pagine scritte dell'immaginario letterario per esorcizzare il dilemma esistenziale su buoni e cattivi, su padri e figli, su ricchi e poveri. In viaggio da In Time, film dove i ricchi potevano comprare il tempo a Brasilia, dove basta bere il siero dell'eterna giovinezza, televisiva
Ippolita Luzzo     

sabato 10 marzo 2018

Gli automi cellulari all'Uniter

Arriva l'evoluzione artificiale all'Uniter con la relazione di Domenico Talia, professore presso l'Università della Calabria.
Tema della relazione: " Sistemi Complessi e Evoluzione Artificiale con Automi Cellulari."
A dirla così non si evince la piacevolezza della serata e il senso di benessere alla fine nell'aver certezza che una regola base, semplicissima, sta all'origine di ogni vita vivente: una costruzione matematica precisa. Come nasce la vita? Come si replica? Come muore e poi torna a rivivere?
Seguendo il principio, dal particolare all'universale, dal fenomeno nascente al fenomeno emergente, il professore Talia ci ha avvinto alle sorti di un automa cellulare in grado di riprodursi seguendo le leggi della vicinanza, del calore, dello spostamento, e poi negli esempi sulla nostra vita abbiamo capito quanto anche il nostro cervello altro non sia che un automa cellulare! Non c'è un pilota che guida i nostri neuroni, il volo degli uccelli o gli spostamenti dei pesci, bensì una regola, innata, dicevano i filosofi, vedendo già un tempo molto lontano ciò che vediamo ora con altri mezzi. Dai sofisti a noi, dalle analisi linguistiche della scuola di Noam Chomsky che hanno teorizzato l'esistenza di strutture grammaticali innate, cioè presenti nel cervello già alla nascita (e.g. nell'area di Broca), senza le quali i bambini non potrebbero sviluppare una competenza linguistica e in psicologia all'innatismo modulare, assumendo l'idea di base che la mente sia costituita da insiemi più o meno connessi di strutture o moduli innati, incapsulati, specializzati e selezionati dall'evoluzione per eseguire funzioni particolari, siamo giunti ad un vero e proprio laboratorio di Intelligenza artificiale. Affascinati dalla lezione, dal cristallo di neve alla nevicata, dalla conchiglia alla regola,  continuiamo a svolgerla nella nostra testa con Goethe, dal particolare all'universale con in mano la foglia del ginko biloba, 
E’ una sola cosa viva
Che in se stessa si è divisa?
O son due,che scelto hanno,
si conoscano come una?

In risposta a tal domanda
Trovai forse il giusto senso.
Non avverti nei miei canti
Che io sono uno e doppio insieme?    Goethe
 ...è la mia continua domanda, la stessa tensione, sempre. Ogni cosa che dico, da semplice appassionata di chi scrive, tende sempre a chiarire, a mettere luce nella divisione e trovare l’unione, il percorso unico. Ed il professore Talia ieri sera ce lo ha dimostrato con precisione matematica. Una regola tanto semplice da essere sicuramente divina.
Ippolita Luzzo 


giovedì 8 marzo 2018

La vita lontana di Paolo Pecere


Essere e divenire nelLa Vita lontana di Paolo Pecere. Sembra che il titolo non fosse questo, allora io vedrei bene "Essere e divenire". Come si cambia per ricominciare da altro.
Il tempo intercorso per creare questo romanzo è durato alcuni anni, quattro, se ricordo bene, e Paolo Pecere ha visitato realmente i luoghi dove i protagonisti abitano e si spostano nella lontananza degli affetti, nella lontananza da se stessi, nella lontananza della propria personalità. Personalità doppie in effetti, i protagonisti fanno viaggi nel loro interiore per togliere e mettere altro, senza tornare mai. Lontano da dove. Non so che titolo abbia avuto in mente Paolo Pecere mentre costruiva esistenze e le sconvolgeva, allontanando il vissuto, dilatando i concetti di essenza, e chiedendosi di cosa siano fatti le azioni, di quanto libero arbitrio ci sia nelle decisioni.
Leggiamo dunque questa storia, narrata dalla voce della protagonista femminile, Dora, l'unica forse che si muove solo per ritrovare coloro che sono andati via e forse non hanno più alcuna voglia a farsi ritrovare.
Il racconto, complesso, condensato in una visione femminile e in un atteggiamento da osservatrice, in effetti, Dora osserva ma non fa, sembra che lasci gli avvenimenti inverarsi senza una sua effettiva complicità: Avvengono.
Nella trama, in apparenza normale, come normale vuole a tutti i costi che noi la percepiamo la protagonista narrante, c'è un matrimonio, da un amore adolescenziale, la nascita di due gemelli e tanti interessi in comune, letture, lotte, ideali. Sembrerebbe un idillio se non avvenisse l'imponderabile. Il coniuge cambia, diventa un altro. Per sempre.
E lei resta a crescere i figli e sembra anche qui che lei riesca a inserire in un tran tran rassicurante i figli e invece tutto si spagina, si sfaglia,  e i due gemelli si allontanano. Ci allontaniamo e poi e poi non so se ci ritroveremo più vicini, almeno è un azzardo.
La scrittura di Pecere è densa, e benché sembri con un suo ordine interno ci pone quesiti, ci destabilizza, ci impone una adesione problematica.
Mi sono posta davvero il problema se in una famiglia ci si conosce, non credo, se si ha una possibilità di intervenire, non credo, e mi sono posta il problema del perché Dora sia così certa di non poter a sua volta andarsene via da un immaginario che fa a gara ad essere smentito dai fatti. 
Il viaggio di Pecere sta nella filosofia, nella religione orientale, nell'essere e divenire, dove si scontra l'occidentale e l'orientale, e dove naufraga l'occidente con i suoi riti. " Ora la casa è vuota. Il televisore era accanto alla finestra, dove oggi sta il divano, e viceversa, come se uno specchio avesse rovesciato i posti delle cose. Immaginando di sedermi vedo, riflesse sullo schermo spento, quattro persone sul divano." ed ancora "Nelle faglie del ricordo, a questo punto, si è prodotto uno scambio di persona. Sono crollati d’un tratto i giorni successivi: del volto senza vita di Elio resta solo un’idea grigia, senza le mie carezze e il mio rimorso. Al suo posto si è installata un’altra immagine, che si presenta come sua, e invece è di un uomo che dormiva nelle rovine di Chittorgarh, quel pomeriggio dopo la pioggia, e che mi aveva fatto pensare a lui. Questo falso, col tempo, è diventato il simbolo di un travestimento, attraverso il quale bisogna saper vedere la nostra vita lontana. Così Elio, portando al culmine il suo processo di sottrazione, si è ridotto in me all'essenziale: un uomo che non era chi sembrava, e riposa aspettando il temporale."
Una realtà raccontata non è altro che il racconto ed è l'elaborazione di ciò che la narratrice immagina di sapere. Ad un certo punto in oriente Dora arriva e si sposta e l'essere dei fatti incontra lei all'apparir del vero" La verità è feroce come una radiografia, non fa per noi, persone deboli e poco incisive, campioni di confabulazione. Marzio ha ragione: lo sapevo già. Ma c’è dell’altro, in quel che ha detto, che invece suona nuovo." In una domanda che so già.  
Ippolita Luzzo   

Pétronille di Amélie Nothomb



-Buonasera. Che nome devo scrivere?

-Pétronille Fanto – rispose…

-E’ lei – esclamai.

Quante volte ho sperimentato quel momento mentre firmo delle copie: veder apparire davanti a me una persona con la quale intrattengo una corrispondenza. Lo shock è sempre violento. Passare da un incontro sulla carta a un incontro in carne e ossa significa cambiare dimensione… Spesso, vedere l’amico di penna dal vivo vuol dire operare una regressione, scadere nella banalità…se l’aspetto dell’altro, per Dio sa quale motivo, non si dimostra all'altezza di una corrispondenza, questa non raggiungerà mai più il livello precedente. Non si potrà né dimenticarlo né astrarsene… l’aspetto fisico conta nell'amicizia e anche nelle relazioni più elementari. Non sto parlando qui di bellezza o bruttezza, parlo di quella cosa così vaga e importante che chiamiamo fisionomia.

Pétronille Fanto aveva scritto ad Amélie Nothomb due o tre lettere e aveva taciuto la sua età. Aveva trattato, in quelle lettere, argomenti tenebrosi e seri tanto da indurre a far pensare alla scrittrice di essere in corrispondenza con una persona adulta. Ed ora nell'incontro in libreria Amélie vede davanti a sé una adolescente, addirittura un apparente ragazzo.

Pétronille è invece una studiosa di Shakespeare, sta facendo una tesi su un contemporaneo di Shakespeare e al termine dell’incontro, fuori, in una strada, nella notte, domanda:- Se le scrivo, mi risponderà ancora?- e si sentirà rispondere:- Certamente.

Nasce così un’amicizia che non racconto, voglio sempre lasciare ai lettori il gusto di scoprire una storia ed odio chi mi racconta il libro per filo e per segno, come se io non fossi capace di costruirmelo da sola. Leggere è infatti una costruzione di immagini e noi saremo attratte dalle varie fasi di questa amicizia, saremo insieme alle due che pian piano avranno altre occasioni ed altre incontri, nel piacere di entrambe di leggersi. Del resto si sono incontrate su un foglio, una leggendo i romanzi dell’altra, ed ora una sta nel romanzo dell’altra. Anche l’adolescente cresce, scrive e pubblica, anche l’adolescente Pétronille diventerà scrittrice. “Aceto di miele” sulla quarta di copertina Amélie legge “Pétronille Fanto, ventisei anni, esperta dei contemporanei di Shakespeare, firma qui un insolente esordio”  Un romanzo di lettere. Molte lettere, oggi mail, molte mail.

Si scrive a scrittrici e si diventa amiche di scrittrici, si scrive e ci si perde, ci si innamora oppure si ricostruisce attraverso la scrittura una personalità. Mail. Mi affascina la storia e il libro di esordio di Pétronille, pensando al mio manoscritto di mail e mail ad uno scrittore, Reds, uno scrittore, morto da poco, senza averlo mai conosciuto. Egli sosteneva la stessa cosa di Amélie, e cioè quella delusione nell’incontro di persona, “un processo irrimediabile”

Avendo, nella corrispondenza, enfatizzato l’altro, la realtà non reggerà all’impatto. Non è così nella storia di amicizia fra Amélie Nothomb e Pétronille Fanto, nome inventato per proteggere la vera persona che viene tratteggiata, in un racconto verità che piacerà e farà riflettere.

Tradotto da Monica Capuani nella collana Amazzoni della Voland, il libro conserva il suo mistero sugli incontri e l’amicizia e su una Pétronille che saluteremo. -Buonasera, che nome devo scrivere?-Ippolita Luzzo 

giovedì 1 marzo 2018

Marzo e poi Althusser

Un senso di sgomento guardando il pc impallato, lento, vedendo tutto disfarsi intorno. Il viso, la voce, di chi ci è caro. Disfatta, è il termine che mi viene meglio, guadando le buche nei marosi delle strade cittadine per non bucare di nuova le ruote della panda. Disfatta totale, dal pc impallato al terribile vivere qui, in un incaprettamento generale. Ricordo i sogni, gli ideali lontani, l'avvenire dura "longtemp" scrisse Louis Althusser in una sua autobiografia in cui cerca di spiegare a se stesso e ai lettori ciò che avvenne in un attimo. 
"Sulla pagina del titolo, autografa, Louis Althusser aveva scrit- 
to: L'avvenire dura a lungo, seguito da un sottotitolo cancellato: 
Breve storia di un omicidio, e da un altro titolo: D'una notte 
l'alba, ugualmente cancellato, che corrisponde a un primo tentati- 
vo di introduzione di cui sussistono le prime nove pagine dattilo- 
scritte, interrotte a metà d'una frase."Filosofo marxista e militante comunista tra gli anni '40 e '70. Intraprende, con la memoria, un cammino di ricerca, per capire come è potuto accadere che proprio lui abbia strozzato la moglie.
L'avvenire dura a lungo, ed ogni nostra azione trascina piano piano giorni, firme, assegni, disastri e diventa una valanga. 
Nello sconforto più totale di non poter fare marcia indietro, tutti sbigottiti guardiamo senza lacrime avvenimenti di cronaca, avvenimenti sociali e accadimenti personali con lo stesso sgomento, impotenti. 
Ippolita Luzzo.