Intervista con Daniela Matronola
"Matronola racconta di avere sorriso a questo suo amico-personaggio, a questo amico invisibile, quando gli è comparso."Ho letto molto su internet di Daniela Matronola, conosciuta grazie al libro “Il mio amico” uscito nel luglio 2020 per la casa editrice Manni. Daniela Matronola ha scritto poesie, racconti, ha scritto per riviste letterarie e io ora vorrei proprio da lei un suo profilo letterario per un organico riassunto del suo essere sempre attenta nella scrittura
Mi accorgo di aver parlato di Daniela in terza persona ma lei è ora qui con noi e a lei posso rivolgere la mia richiesta con un colloquiale tu da amica
Daniela: Dunque, mi chiedi una sintesi. È molto semplice e difficile al limite dell’impossibile. Provo a dire questo: nel tempo ho attraversato la letteratura in molto modi. Scrivendola in molte sue forme. Versi, prose (poetiche e narrative), racconti, romanzi compiuti - uno edito uno no (gli altri sono in corso di scrittura). Considero letteratura anche la “lettura” dei libri di altri. Trovo sia un fertile terreno di sfida alla composizione anche la redazione di un articolo o di un mini saggio in cui il lavoro è di analisi del testo e di configurazione di una poetica e di uno stile. Intendo che mi dedico a queste “scritture diverse” con la stessa dedizione e forse con una vaga punta di accanimento.
Ippolita: Mi piace moltissimo il momento intuitivo, reputandolo il più libero, scevro da ogni precedente, e preferisco la conoscenza per intuizione prima di approfondire e avviarsi verso il terreno della speculazione e dell’agire. Mi rendo conto di aver ripetuto un tuo modo di fare ma essendo simile il mio fare mi piace evidenziarne la somiglianza. Sono rimasta non molto sorpresa da come sia stato ben accolto il libro, da Andrea Carraro, da Filippo La Porta, da Paolo Di Paolo che ha firmato la prefazione, e ciò sta a dimostrare che il libro giunge dopo un percorso di grande attenzione alla letteratura. È così?
Daniela: Ho un mio sistema di lavoro ma, sempre, anche nel lavoro “critico”, mi lascio guidare da quella sorgente rivelatoria che è l’intuizione, così come nel lavoro “creativo” affianco all’intuizione l’approccio speculativo.
Ippolita: Andrea Carraro del tuo libro scrive: ”riconoscere il genere letterario cui più si avvicina (romanzo-conversazione di ispirazione postmoderna, fra Arbasino e Foster Wallace, racconto ironico-filosofico alla Diderot, vedi Il nipote di Rameau?…) – si può leggere i 4 racconti – intitolati Liquor, Il mio amico, Il lavoro rende liberi, Cronaca di una sparizione – al buio, crediamo, lasciandosi semplicemente trasportare dalla lingua ricca, avvolgente, sottilmente ironica, della scrittrice e poetessa romana, abbandonandosi al libero flusso di idee che disegnano con il loro dialogo ininterrotto i due protagonisti, Cesare e Mauro, che sono uno lo zio dell’altro, entrambi medici, uno dei quali anestesista. quasi senza soluzione di continuità, proprio perché entrambi naturalmente divaganti, digressivi, ciarlieri.” Ed io trovo perfetto questo ritratto del libro
Daniela: Sì certo. Indubbiamente aver fatto un bel po’ di strada poi si avverte nella stratificazione della scrittura. Però ho la pretesa di aver sempre avuto questo sguardo biunivoco in fatto di scrittura, fin dall’inizio. Il vantaggio dopo così tanto tempo è aver sbrogliato gli ingolfamenti, aver spianato le asperità.
Il gesto è più pulito, ora. E puntato con mira più precisa sui suoi bersagli. Forse.
Sì anch’io ho apprezzato quanto ha scritto Andrea Carraro. Penso abbia colto bene soprattutto il carattere “associativo” che regola l’incontro di piani e personaggi diversi
Ippolita: Mi ha incuriosito la malattia vista dal malato medico. In Liquor insieme a Mauro guardiamo i monitor e la diagnosi. Lui può farsi diagnosi e cura nella duplice veste di anestesista e paziente. Se posso confessarti quanta fiducia io abbia nella medicina è che credevo i medici immuni alle malattie e invece dover vederli come noi ammalarsi ci porta sullo stesso reparto. Interessante il dialogo fatto di tutte le loro conoscenze fra i due medici e poi quel supporre che forse nulla è da imputare al corpo ma alla mente. Il tuo amico chiede aiuto alla mente, alla conoscenza, alla coscienza?
Daniela: Il mio amico chiede aiuto alla mente di continuo, è un razionalista di gran cuore, un samaritano senza sentimentalismi. È la conoscenza ad accendere la sua infinita comprensione per il mondo vivente in cui si ritrova (a dispetto di sé) ricompreso. Pensa di essere odioso e rompiscatole eppure tutti lo cercano o meglio quando lo trovano non vogliono più lasciarlo andare, vogliono addirittura riservarselo per sé togliendolo se possibile a tutti gli altri. La materia che gli sfugge di più è se stesso ma dopotutto è proprio quel se stesso che gli sfugge a spingerlo a cercare attorno e altrove, vicino e lontano da sé.
Ippolita: Bellissimo e tu poi dici nella nota che Il tuo amico ha una sua forma di resistenza: coltiva l’ordinarietà unica, l’anonimità irripetibile. È un vero romantico. E vorrei consegnare ai lettori questo personaggio che si muove a favore della libertà per liberare le persone dal dolore con una tua immagine, con ciò che a te sta più caro. A te la sua mirabile litote esistenziale
Daniela: Bè, Mauro è un vero difensore di un diritto che lui stesso considera sacro e inviolabile: il diritto di chi è malato a non soffrire. Fino a poco tempo fa la medicina e ancor più la chirurgia reputavano inscindibile il binomio tra la cura e il dolore. In una sorta di mentalità arcaica, per la verità ancora recente, il dolore era considerato un pedaggio obbligato da pagare alla malattia e alla sua cura. Mauro è un ponte in fondo tra quella vecchia scuola e la nuova, che contempla non solo la cura ma il prendersi cura, cioè il provvedere a un benessere di massima il più possibile accettabile, questione che rientra nelle sue mansioni di medico che si occupa di terapia del dolore. Gli sta talmente a cuore questa faccenda e considera talmente importante l’aver preso parte oltre che l’aver assistito al passaggio dalla vecchia alla nuova mentalità clinica, che va fino a New York a cercare il medico che già tra gli anni 60 e 70 aveva inventato l’elastomero, la pompa antalgica caricata a cocktail di antidolorifici con cui il paziente può regolarne l’erogazione nel postoperatorio e non solo. Per lui la terapia del dolore è una questione di diritti umani. Tuttavia la sua azione è anche informata a una sorta di delicatezza per cui, con la stessa rapidità con cui la sua figura di medico entra nella vita quotidiana dei pazienti cadenzandola con le sue prestazioni, altrettanto velocemente, quando la natura prende il sopravvento, è pronto a uscire di scena. La sua è un’azione ragionata costante e discreta. E lui dopotutto è così.
Ippolita Luzzo