lunedì 9 settembre 2013

Non sono la Stazione Termini



Otto Marzo- Il silenzio che uccide

Dedicato a tutte le donne sposate,

diciamo così, con un eufemismo



Settembre 2009

La Stazione Termini

Una delle immagini ricorrenti usate da mio marito per dare corpo, credo, e materializzare la sua solitudine umana nella relazione con altri umani, è la Stazione Termini di Roma.

Non so se voi qualche volta vi siete fermati in quel luogo- lui racconta- e l’assenza è in quella alba, o pomeriggio, che dir si voglia, in quel continuo andare e venire di tanti, urtare, vociare, respirare, camminare, correre, chiamare, avvisi di partenza, di arrivi, occhi che non incrociano altri occhi, sorrisi che non raggiungono nessuno, barboni che dormono, odori sgradevoli, polvere, sporco, rumori, vento freddo, caldo, un fastidio, la valigia, i documenti stretti, il biglietto in mano, sala d’attesa, qualcuno addenta un panino, beve una birra, pulisce le unghie, legge un giornale, lo ripiega, qualcuno altro sbadiglia, guarda l’orologio.

È l’attesa, gli occhi girano sulle pareti, fissano un punto, un insetto, laggiù, vicino, lontano, poi lui si alza, si parte.

Ecco- dice-  si può essere soli anche così, gomito a gomito, con tanti, con molti. Soli, solissimi.- 

 È vero, ma poi fa una strana associazione, si sposta nel suo pensiero e usa queste immagini per il suo matrimonio.

Anche il suo matrimonio evidentemente gli dà questa sensazione di estrema solitudine.

Soprattutto se  gomito a gomito con il nulla, con il niente.

Allora? Allora preferisce altro.

Preferisce- dice lui-  la vicinanza solo mentale perché, è ovvio, se non c’è quella mentale, vicinanza, a che serve stare gomito a gomito?-

Sono d’accordo, ma anche gomito a gomito, almeno una volta all'anno, deve pur inverarsi la vicinanza nella realtà o è solo virtuale? Boh!

Sono laureata in filosofia, leggo, parlo, ho rapporti a volte idilliaci a volte burrascosi con i miei simili, rido , canto, ballo, piango, urlo.

No, non mi sembra di essere solo una Stazione Termini. O sì!?

I treni alla mia stazione forse non partono mai, solitari, vuoti, tristi, arrugginiti, aspettano un fischio da un capostazione sordo che è in pausa pranzo.

I miei passeggeri, rallentati, fermi, attendono. Rassegnati. Aspettando Godot.

Aspettando. 
Ma io non sono più la stazione Termini, non voglio più far partire il treno di un uomo che non sa dopo tanti anni nemmeno di cosa sorridere insieme.



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