sabato 14 settembre 2013

Le cose che non ho



Le cose che non ho- Così è la vita



Due libri, uno francese e l'altro italiano- Grégoire Delacourt e Concita De Gregorio

Giuro che non l’ho fatto apposta a mettere questi due autori, già nel nome, uno specchio dell’altro.

Mi è venuto senza accorgermene, naturalmente,  stavano poggiati insieme sul mio comodino stamattina, si abbracciavano e io, nel portarli al blog, solo scrivendo mi sono accorta che, anche nel nome, erano della stessa famiglia.

Grégoire Delacourt:

“Rileggo la lista dei miei bisogni e mi sembra che la ricchezza consista nel poter comprare in una volta sola tutto quello che sta scritto nelle liste- tornare a casa con tutte le cose che avevi annotato, distruggere la lista e dirsi, ecco, non ho più bisogno di niente. Ho solo desideri ormai. Solo desideri.

Ma non accade mai

Perché i nostri bisogni sono i nostri piccoli sogni quotidiani. Sono le nostre piccole cose da fare che ci proiettano verso il domani… a tenerci vivi-



La lista dei bisogni. Ho letto e riletto la lista che, ogni volta, la protagonista stila e la trovavo sciocca, bisogni futili, bisogni di cose che si possono comprare.

Sui bisogni feci un esame di filosofia, (feci) in due significati, i bisogni indotti, ci spiegava il nostro prof, l’espansione dei bisogni, i bisogni che non sono necessità.

Abbiamo necessità di acqua, cibo, calore, pulizia, salute, affetto. Punto. Abbiamo necessità di bellezza, di voglia di vivere. Fine. Tutto il resto, per tutto il resto c’è mastercard e non c’è niente.

-Voglio quello che ho perso- dice la protagonista del romanzo a pag130 ed io mi domando:-Cosa ha perso?-

Non si perde nulla perché nulla si ha

Ogni sei minuti il suo papà dimentica tutto, lei reinventa la vita di lui, sempre più bella e gliela racconta.

La vita è un racconto. Non si perde un racconto. Non si acquista un racconto. Si vive un racconto. Si immagina un racconto.

Posso fare una lista di immaginazione, di cosa mi racconterei sulla mia immaginifica vita? Non potrei mai comprare quello che immagino.

Così è la vita di Concita de Gregorio:

-Il nome delle cose-

Non c’è niente di cui abbiamo più bisogno. Ridare un nome alle cose. Daccapo, rinominarle come quando dopo un’epidemia, una perdita di memoria collettiva arriva un superstite con le etichette e le attacca alle cose: tavolo, sedia, lampada, penna…sapete cos’è, a cosa serve?-



E noi sappiamo di cosa parliamo?

Come possiamo raccontarci la vita, la nostra vita se non sappiamo di cosa parliamo? Se siamo estranei a noi stessi? Se non sappiamo di cosa abbiamo necessità non bisogno.

Così è la vita, una truffa, un imbroglio, però possiamo raccontarcela in mille modi e in nessun modo.

Finché sapremo raccontarcela saremo ricchissimi, felici, avremo sogni e desideri, quando non sapremo più cosa dirci  sarà la vergogna di esserci stati per avere così poco, di esserci venduti per nulla…, perché il possesso di cose, di milioni di cose, è sempre una cosa non nostra.

venerdì 13 settembre 2013

Auguri



Auguri a te


Quel che per molti è normale- banale-  per alcuni diventa avventura- emozione


Solo per alcuni di noi passione.


Le piccole cose quotidiane, i gesti ripetuti, una passeggiata, una conversazione,


acquistano colore e sapore diverso nel tempo.


Solo per alcuni di noi l’estate è sole, azzurro, luce, sapore di fichi neri, di anguria grande,  pesante e rossa.


L’estate per noi è suoni, letture- libri sparsi sul letto.


Altri mangiano, invitano, cucinano, spettegolano sotto l’ombrellone, vanno in barca, viaggiano, comprano, accudiscono con grande senso del dovere la famiglia,  la parentela.


Anche noi, sicuramente, anche noi siamo attenti ai nostri cari, alle loro emozioni, alle loro inquietudini, e vorremmo ridere insieme a loro.


Ma quel che per molti, più attrezzati, più pratici, sono fastidi quotidiani, necessità, incarichi,


-Che figura faccio a non farli?- è la domanda,


per alcuni di noi sono desideri, piaceri, volontà.


Ed è proprio quest’ultima, la volontà di essere uniche e di voler partecipare alla vita con la propria singola percezione delle cose che fa la differenza.


E le cose saranno tutte le stesse per noi e per tutti ma diverse all’assaggio, come il cibo, sempre lo stesso e mai con lo stesso sapore.


Alcuni di noi possono sfogliare così le pagine della propria vita e ogni volta scoprire una frase nuova.


Sfogliando leggeranno di piccolissimi avvenimenti che pensavano smarriti per sempre e potranno riassaggiarli perché hanno preservato le papille gustative dello stupore, dell’entusiasmo, della curiosità.


La leggerezza e la disponibilità, poi,  per noi, saranno la nostra ricchezza aggiunta che nessuna banca potrà mai richiederci o darci...


Alcuni di noi nuoteranno, cammineranno, respireranno leggeri nella vita, convinti che la mano di un’amica, la carezza di una mamma, lo sguardo d’intesa con i nostri figli saranno il nostro dono per noi, perché a nostra volta capaci ancora di donare.


E la vita peserà di più sulla bilancia i compleanni scelti uno per uno …  e ogni compleanno peserà sempre diverso,perché ogni anno non ha mai lo stesso sapore.

lunedì 9 settembre 2013

Non sono la Stazione Termini



Otto Marzo- Il silenzio che uccide

Dedicato a tutte le donne sposate,

diciamo così, con un eufemismo



Settembre 2009

La Stazione Termini

Una delle immagini ricorrenti usate da mio marito per dare corpo, credo, e materializzare la sua solitudine umana nella relazione con altri umani, è la Stazione Termini di Roma.

Non so se voi qualche volta vi siete fermati in quel luogo- lui racconta- e l’assenza è in quella alba, o pomeriggio, che dir si voglia, in quel continuo andare e venire di tanti, urtare, vociare, respirare, camminare, correre, chiamare, avvisi di partenza, di arrivi, occhi che non incrociano altri occhi, sorrisi che non raggiungono nessuno, barboni che dormono, odori sgradevoli, polvere, sporco, rumori, vento freddo, caldo, un fastidio, la valigia, i documenti stretti, il biglietto in mano, sala d’attesa, qualcuno addenta un panino, beve una birra, pulisce le unghie, legge un giornale, lo ripiega, qualcuno altro sbadiglia, guarda l’orologio.

È l’attesa, gli occhi girano sulle pareti, fissano un punto, un insetto, laggiù, vicino, lontano, poi lui si alza, si parte.

Ecco- dice-  si può essere soli anche così, gomito a gomito, con tanti, con molti. Soli, solissimi.- 

 È vero, ma poi fa una strana associazione, si sposta nel suo pensiero e usa queste immagini per il suo matrimonio.

Anche il suo matrimonio evidentemente gli dà questa sensazione di estrema solitudine.

Soprattutto se  gomito a gomito con il nulla, con il niente.

Allora? Allora preferisce altro.

Preferisce- dice lui-  la vicinanza solo mentale perché, è ovvio, se non c’è quella mentale, vicinanza, a che serve stare gomito a gomito?-

Sono d’accordo, ma anche gomito a gomito, almeno una volta all'anno, deve pur inverarsi la vicinanza nella realtà o è solo virtuale? Boh!

Sono laureata in filosofia, leggo, parlo, ho rapporti a volte idilliaci a volte burrascosi con i miei simili, rido , canto, ballo, piango, urlo.

No, non mi sembra di essere solo una Stazione Termini. O sì!?

I treni alla mia stazione forse non partono mai, solitari, vuoti, tristi, arrugginiti, aspettano un fischio da un capostazione sordo che è in pausa pranzo.

I miei passeggeri, rallentati, fermi, attendono. Rassegnati. Aspettando Godot.

Aspettando. 
Ma io non sono più la stazione Termini, non voglio più far partire il treno di un uomo che non sa dopo tanti anni nemmeno di cosa sorridere insieme.



Il pusillanime e la pazza



Il pusillanime e la pazza
-Distruggi il file- soffia fra i denti l’omino, a capo di una associazione culturale, alla vaga stella del blog, inopinatamente cooptata in una collaborazione scrittoria.
E così lei viene privata dall’esaltante gusto di partecipare ad un romanzo che sarà presentato con rullo di tamburi e tavole adorne di giornalisti plaudenti e stipendiati da Santa Madre Regione, romanzo che sarà consumato in tavolate di bocca buona e pancia morbida, e che aggiungerà moltissimo sul tema che tratta fatti e misfatti, carinissimi, del luogo in cui vivemmo.
Il file in questione riguardava una storia d’amore come tante, una storia conosciuta in paese e nata nel cittadino nosocomio, ma avrebbe potuto nascere dappertutto.
La storia fra un pusillanime e una pazza dal titolo

“ Una Storia come tante di non amore”

-Carlon e Marion vivevano ognuno a loro modo in una brutta città brutta.
Allora, in quel tempo, la città non era brutta come lo è diventata nei giorni e nel tempo a venire, era semplicemente un paesotto  dove la gente passava il tempo ad impicciarsi e a scandalizzarsi della pagliuzza nell’occhio di un altro e del pelo nell’uovo.
Carlon lavorava, eufemismo per dire che era impiegato in una struttura, in un luogo adibito a ricovero ammalati e tentativi di non fare la pelle ai temerari che vi si affidavano.
Lui lavorava negli uffici polverosi e scomodi di un luogo inventato che, nella storia passata, altre presenze in lunghi sai e piedi scalzi avevano attraversato.
Tranquillo era assorto nel suo cruciverba quella mattina, come sempre pacifico e pacificato di un pranzetto sicuro e di camicie stirate da mamma, sorella e cugine.
Il chirurgo, quella mattina, arrivò fin da lui e scherzosamente affettuosamente, come solo i maschi sanno fare, gli disse – Vieni, vieni a vedere chi è appena arrivata. Sta nel letto numero nove, puoi farne un sessantanove, è nuda, si agita, accusa dolori addominali, è una … io non so i termini … insomma è bella, è bona un buon boccone, non avrà niente, sarà in calore.-
Carlon si incuriosì,  restò al suo posto, aveva fama e lui faceva vanto di conquiste effimere di prede facili, di essere un uomo che non ne perdeva una, di essere sempre sfuggito a donne fameliche con abilità ed era anche scapolo.
Il suo amico lo incalzava, lui si alzò di malavoglia e lo seguì.
Nel padiglione Marion scomposta  si dimenava, si contorceva, era nubile, adulta e affamata, aveva schifo e orrore di uno zitellaggio che sentiva imminente sulla sua età.
Nuda e dolente cominciava a star meglio, il buscopan aveva fatto il suo effetto e ora, sempre scoperta, aspettava paziente i signori dottori.
 Era di una famiglia con storia antica, con feudi ormai svenduti, una famiglia con vari  fratelli dove la donna non va a lavorare.
La donna, in quel tempo,  aspettava a casa un marito da accudire e tanti figli da pulire e tante stoviglie da rigovernare sparlando sparlando con la vicina.
Nelle famiglie onorevoli e onorate il mondo andava e girava così.
Lei si girò, aveva sentito i passi, la porta si aprì e i loro occhi si incontrarono in punti diversi.
Dicono poi che lui si offrì di accompagnarla, dicono che lui pensò di fare un antipasto e non consumare, dicono che lei capì subito di avere per le mani un celibe e dicono anche che il pasto fu divorato velocemente da entrambi, senza conseguenze, si augurava lui, con confetti nuziali, progettava lei.
A quel tempo le cose si prestavano ad equivoci vari.
Mai e poi mai lui, mentre sistemava i pantaloni ancora arrotolati ai suoi polpacci, mai e poi mai pensava al futuro, forse soltanto alla piega malfatta da dover giustificare a sua mamma quel dì, al ritorno a casa.
Mai e poi mai lei pensava che non avesse futuro quell’incontro fuggevole, per lei era un patto fatto col sangue, un patto eterno di mutuo soccorso.
Lei sarebbe stata sua moglie e lui suo marito per l’eternità.-
…..

Ditemi voi non è un bellissimo incipit?
Non è travolgente, rapinosamente in fieri di svolgimento?
Eppure lo scrittore volle che io distruggessi il file, non mi contattò più ed io mi preclusi per sempre la fama eterna di aver collaborato al suo Guerra e pace.
Si spaventò, voi mi dite?
Un pusillanime lui ed io una pazza?
Può darsi. Oppure lui sì che sa scrivere ed io non congiungo parole? Ai posteri l’ardua sentenza