domenica 13 agosto 2017

Alfredo Cosco in una intervista del 2015

Dialogo con Ippolita Luzzo
di Duncan il set.28, 2015, in Bellezza, Resistenza umana

Quante persone sono nate con una passione dentro? Quante persone hanno visto questa passione “svegliarsi” dopo anni di prove e forti esperienze?
Quanti hanno una vulcano dentro, e lo tirano fuori e vorrebbero farsi sentire e la loro è una lotta contro il silenzio intorno, contro l’incomprensione, contro mille piccoli invidie, mille piccole ostilità.. ?
Ho pensato a volte a queste persone che hanno tanto da dire e invece di incoraggiare la loro voce, l’ambiente intorno sembra volerli disincentivare. Sono persone che non hanno scaltrezza, che non sanno “vendersi” bene, che non amano compiacere, e non si affiliano a gruppi, cordate, piccoli clan letterari o di altro genere. Sono persone un po’ troppo fuori margine per chi è abituato a inquadrare tutto. O poco “istituzionali” come poco “istituzionale” è considerata l’amica Ippolita. Non fa parte di una associazione, non è in alcun gruppo che conta, non è collegata alla politica, non è “giornalista professionista”, non è in alcuna “cordata letteraria”, anche locale, di un certo rilievo. E per questo la si considera quasi ‘importuna’ da parte degli addetti ai lavori del mondo letterario e artistico. E’ di quelle persone che se partecipa ad una iniziativa pubblica, a qualunque titolo, alla fine difficilmente la si citerà.. perché.. è poco.. “istituzionale”, perché semplicemente non si pensa che lei possa portare “vantaggi” a chi la coinvolge, e l’opportunismo, come molti di voi sapranno, non ha confini, e dovunque ci saranno quelli che classificheranno gli altri in “utili” per i propri scopi e “non utili”.
Io invece credo (e sono in tanti a crederlo) che a volte sono proprio le persone “fuori dai giochi”, e senza “titoli”, “ruoli”, “appartenenze” particolari ad avere una bella voce, una voce di semplicità, umanità, sincera volontà di condivisione. La loro passione è ancora più meritevole, perché poco gratificata dal mondo circostante e nonostante tutto perseverante nella fedeltà a se stessa.
E così è Ippolita, che raccontava l’Eneide e altre storie ai malati che con lei facevano la chemioterapia, e faceva loro doni, e li faceva volare con la mente, alleggerendogli l’anima in quei giorni molto duri per tutti loro. Non è questa “arte di vivere”? E non è questa “letteratura al servizio dell’essere umano”. Ippolita che dopo una vita a tenere spesso dentro una buona parte del suo mondo e dopo gli anni della chemio e di altre sofferenze fisiche, trova la sua “magica ossessione”.. e scrive, scrive ovunque, su ogni pezzo di carta, in ogni luogo. E legge a tutti, perché sente che la scrittura tenuta solo per se stessi non ha valore, e vive negli altri, nell’ascolto degli altri, nelle emozioni che gli altri provano con essa. Ed Ippolita scrive anche degli altri.. fa continue recensioni su eventi, spettacoli, libri, poesie.. perché le piace valorizzare gli sforzi creativi di chi incontra.
Ippolita la conobbi un giorno alla Ubik di Catanzaro Lido quando, nell’ambito di un libo che quel giorno lì veniva presentato, parlò con voce commossa di quelle donne che, come sua madre, avrebbero voluto scrivere, insegnare, comunicare, ma, per i limiti del tempo, dovettero passare gran parte della loro vita tenendo dentro di se il proprio mondo.
Di seguito, un dialogo che ho avuto con lei.
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-Di dove sei Ippolita?
Sono di Lamezia, al tempo Nicastro, dove abito e non abito.
-Come è stata la tua infanzia?
Sono nata in una famiglia patriarcale. Stavamo tutti in una grande casa nobiliare: nonna, nonno, i fratelli di mio padre, mia mamma, mio fratello, mia sorella. A tavola, a pranzo e cena, ogni giorno, eravamo in molti; circa 10-12. Fino al 1962-1963 è stato sempre così. Negli anni sessanta Nicastro non aveva ancora costituito, insieme a Sambiase e Sant’Eufemia, Lamezia. Molti anni fa era solo Nicastro. Ed era bellissima. E’ bella anche adesso, ma è molto peggiorata. Molti palazzi e strade sono irriconoscibili e anonimi. Io abitavo in una strada del centro storico. Ricordo come un incubo la sparizione del giardino di fronte casa mia che era parte di un palazzo nobiliare un po’ malandato, figurati che quando pioveva entrava l’acqua. Un palazzo scomodo, freddo. Mancavano i confort. Avevamo la televisione, ma, quando si ruppe, il nonno non la ricomprò più. Il telefono arrivò tardissimo. Io vivevo immersa in uno stile di vita che era più antico rispetto ai tempi. In confronto alle mie compagne del liceo, era come se vivessi in un’altra epoca. Noi, come famiglia, stavamo sostanzialmente per conto nostro; avevamo pochi scambi sociali. Incontravamo qualcuno quando venivano i parenti. Avevamo una grande cucina con il forno a legna e qui facevamo il pane, il maiale, i taralli per Pasqua. Avevamo la campagna, quindi c’era abbondanza di frutta, olio, vino. Di solito quello che ci avanzava lo regalavamo, piuttosto che venderlo. Ricordo ancora l’immagine di mio padre che arrivava con i fichi. Questo era il mondo da cui vengo io. Un mondo agricolo, di contadini, proprietari, senza essere imprenditori. Un mondo antico anche per quei tempi. Di carattere sono sempre stata timida, introversa. I pochi altri contesti in cui mi ritrovavo non mi aiutavano a socializzare. Quando frequentai il catechismo non mi fecero partecipare al coro, perché dicevano che ero stonata. La mia solitudine, comunque, nasceva a casa dove, nonostante la famiglia numerosa, avvertivo una grande estraneità. Questa sensazione di estraneità l’ho portata con me negli anni. Ma non ho mai amato l’idea di stare sola per conto mio. Ho sempre avuto un grande desiderio di partecipare alla vita sociale, mi piace molto stare insieme con gli altri. Non sono, quindi, una solitaria per scelta; sono una solitaria per destino. Quando sono entrata in un contesto collettivo, e sentivo che finalmente trovavo il mio posto in mezzo agli altri, trovavo qualcuno che mi cancellava. Questo succede anche oggi. Ho cercato di reagire a questa cancellazione, dicendomi frasi come “mi cancellano perché vorrebbero che io reagisca in modo più aggressivo”, mi cancellano “Perché li oscuro”. Ora invece faccio della cancellazione la mia forza. Anche fisicamente ero una ragazzina molto fragile, molto debole. Ricordo che non riuscivo a fare le scale di casa tanto ero debole ed ogni estate facevo le punture di record B12; che erano delle vitamine. Amavo la scuola, uno dei pochi contesti in cui mi trovavo bene. Sono andata a scuola un po’ prima, un anno prima. Ho sempre amato leggere.
-C’è qualche episodio in particolare della tua infanzia che ti è rimasto impresso?
Allora… Io ho impiegato tantissimo ad imparare a stare in bicicletta. Ora… immagina che una volta, per fare la salsa, si mettevano le bottiglie di salsa a bollire fuori. Dietro casa mia c’era uno slargo, e le donne che abitavano nel vicolo mettevano lì fuori a bollire le bottiglie. Accendevano il fuoco e in questi fusti grandi mettevano le bottiglie. Un giorno, con la bici, andai a sbattere proprio contro questi pentoloni! Ricordo che in quei vicoli passavano gli asini con le ceste. Io abitavo nel rione più antico di Nicastro; sotto casa mia c’erano tutte casette basse, e c’eranoi vicini che stavano seduti uno accanto all’altro perché si conoscevano tutti. La scuola media stava nel quartiere nuovo. Per arrivarci attraversavo la città. Mi accompagnava una compagna che, a differenza di me, era alta e più “in forze”. Mi portava i libri che io, debole, non reggevo. Durante “il tragitto”, di tanto in tanto dovevo fermarmi a riposare. Di carattere ero talmente timida che, quando, arrivata al quarto ginnasio trovai una classe mista, fu uno shock. Ero la più piccola della classe. La professoressa mi rimandò in latino in greco e, a settembre, agli esami di riparazione, mi bocciò. Quando le chiesi perché mi avesse bocciato, lei rispose che lo aveva fatto perché ero troppo piccola. Successivamente mi resi conto che in questo modo mi aveva agevolato. Ripetendo il quarto ginnasio, ero sempre la più piccola, ma almeno un po’ più coetanea con gli altri. Prendevo voti alti. Frequentai regolarmente il liceo, sempre un po’ fragile di salute. Per dirti come tutto per me fosse più complicato che per i miei coetanei, ti faccio l’esempio del telefono . In quegli anni era entrato in tutte le case ma mio padre diceva “il telefono no, perché poi parlate con gli uomini”. Dopo il liceo, mi iscrissi in filosofia a Messina. A Messina stavo in una sorta di convento, un pensionato gestito dalle suore. Anche se, la maggior parte dei tempo la trascorrevo a Nicastro. Mi sono laureata in filosofia, con un tesi su Stirner e il suo concetto dell’”Unico.” Io avrei voluto fare la tesi sulle donne, sul femminismo.
Dopo la laurea, per sette anni restai disoccupata. Trascorrevo in questa grande casa autarchica, una casa dove non c’era nessun divertimento, nessuno svago, nessuna relazione. In quei sette anni l’unica cosa che, praticamene, facevo era leggere, leggere, leggere. Finalmente nel il 1984 indissero il concorso a cattedra, lo vinsi iniziai a girare la Calabria. Il primo posto in cui mi inviarono era Umbriatico. Si tratta di un paesino, a circa 160 km da qui, che adesso si trova in provincia di Crotone. Lì sono piombata nel medioevo più assoluto. A Lamezia c’era pur sempre un cinema, un teatro, una vita sociale. Ad Umbriatico non c’era niente. Nessuna pompa di benzina, nessuna edicola, niente di niente. Solo un negozio per tutto. La gente era come quella di Anime Nere, il famoso film di Munzi e Criaco. I giovani non c’erano, erano emigrati, lasciando i figli piccoli ai nonni. La scuola era una stanza con la stalla, e in un altro palazzotto c’era la media. Questo è stato il mio ingresso nella vita lavorativa. Ingresso difficilissimo anche perché non sapevo insegnare. La scuola non ti insegna ad insegnare. Ti manda sostanzialmente allo sbaraglio. E io non sapevo da dove iniziare. Visto che conoscevo Dostoevskij, Tolstoj, tutta la letteratura francese, Bel Ami, Balzac… erano queste le cose che raccontavo agli alunni. Costantemente una voce interiore non mi dava pace. “Che gli devo dire?” . L’anno dopo fui inviata a Melissa. Ancora peggio. A Melissa ebbi la sensazione di vivere ancora più indietro nel tempo; gente cattiva, che ti spiava, che sentivi che ti stava con il fiato sul collo. il Preside era sporco, proprio fisicamente sporco, e gli alunni erano di una aggressività allucinante. Poi fu la volta di Mesoraca; e anche lì fu un inferno, sia come colleghi sia come alunni. Ho cominciato ad insegnare bene solo quando mi trasferirono a Monterosso, dieci anni dopo che erano iniziate le mie peregrinazioni con l’insegnamento. I ragazzi erano bravissimi; e forse anche io avevo imparato ad insegnare. Fu una esperienza bellissima. Quando, i n quanto soprannumeraria , fui mandata a Serra san Bruno, i genitori andarono al Provveditore per chiedere di farmi rimanere. E’ la cosa più bella per un insegnante; essere richiesta dai genitori. Finii poi Polia. Altro luogo bellissimo. E’ proprio vero.Esistono luoghi e luoghi. Gli alunni erano deliziosi e studiosi. Li penso tutti con grande affetto. Sono rimasti con me tre anni. Infine giunsi a Lamezia, nel 1998-1999. Inizialmente mi inviarono per due anni ad insegnare ad una scuola particolare del centro storico; una scuola di alunni con grande disagio. Ed in seguito alla Manzoni. E’ stato un bel periodo. Fino a quando ho dovuto smettere per motivi di salute. Intanto mi ero sposata nel 1988, e avevo avuto mio figlio nel 1999.
-Come era sorto il tuo problema di salute?
Come hai potuto capire, non sono mai stata granché bene in tutta la mia vita. Il mio cancro, perché di un cancro si trattava, emerse già con uno stato di salute molto debilitato. Erano gli anni 1999-2000. Avevo avuto un segno rivelatore. Un polipetto all’ano. Anche se l’ho capito dopo, perché i medici non diedero ad esso l’importanza che meritava. Queste cose te le dico perché potrebbero servire ad altri. Quando ci si imbatte in un polipetto all’ano, si deve assolutamente fare la colonscopia. Scoprii dopo, il polipetto all’ano è la spia del cancro al colon. Invece io andai dal proctologo che era un imbecille e che, non mi fece fare nessuna colonscopia e che mi disse “ah sì, lei ha un polipetto all’ano, glielo bruciamo a Catania”. Dopo questo intervento di bruciatura, non sono stata bene, perché avevo dei dolori lancinanti. Andai da un dottore di Roma, primario all’Umberto I. Anche lui non mi fece fare la colonscopia, ma mi diede una sua crema. “Signora –mi disse- le passerà qualsiasi dolore, qualsiasi ragade” . Per lui si trattava di –ragadi rimaste durante l’intervento. Sia la crema che le visite costavano tantissimo. Ma non servirono a nulla. Io stavo sempre male, perdevo sangue. Nel 2002 e nel 2003 ero arrivata a stare così male che mi facevano le flebo di ferro. Più il tempo avanzava, più il mio malessere peggiorava. Un giorno di febbraio 2005 , proprio il giorno San Valentino, mentre mi trovavo a scuola a fare gli scrutini, sentii un fortissimo dolore, come se stessi per partorire. Tornai a casa e poco dopo dovetti essere operata. Con l’intervento emerse ciò che avevo: mi tolsero circa 20 cm di intestino; era un tumore abbastanza alto. Dopo l’intervento dovetti intraprendere la chemioterapia. Furono sei mesi di chemio, due volte al mese. Le feci a Catanzaro, presso l’Ospedale Pugliese, con il professore Mollica. Io non la volevo fare, e cercai di affrontarla a modo mio. Ad esempio, avevo comprato i braccialetti anti nausea e il professore mi diceva “e sì signora, e voi ora con i braccialetti avete risolto”. Oppure facevo l’agopuntura e lui diceva “questa è la signora dell’agopuntura”. Anche se Il dottor Mollica aveva un approccio molto quadrato, molto tradizionale, nel tempo nacque un bellissimo rapporto. Pensa che ci scambiavamo i libri. Ricordo uno di questi libri, “La fine è il mio inizio” di Tiziano Terzani. A lui piacevano i nostri “scambi”, e mi diceva “è così che dobbiamo fare”. Intendeva che così doveva essere l’empatia tra medico-paziente. E’ rimasto un bel rapporto tra noi. Recentemente, l’ho incontrato al cinema e mi ha detto..“lei signora scrive ancora?”
-Ritorna sul periodo della chemio…
La chemio la feci dal 2005 al 2006, a Catanzaro, come ti avevo detto. Dovevo stare là tutto il giorno, perché avevo il port. Il port consiste nell’aver sotto la pelle un impianto. Loro ti fanno una sorta di infusione, con delle flebo. Ricordo che stavo in una sala piccola, in cui c’erano altre cinque persone. Tutti e sei eravamo attaccati alla flebo. Il primo giorno in cui entrai per fare la chemio vidi queste persone tristi. Allora mi sono messa a parlare “Adesso vi racconto una storia”. E gli ho raccontato l’Eneide, gli ho parlato di Didone. Si sono tutti rianimati. Erano tutti felici. E così ho sempre fatto quando andavo là.
-E’ bellissimo quello che hai fatto..
Questo per dirti che io non sono una “vera” solitaria. Non sono quel tipo di “solitaria” che detesta stare con gli altri, che vuole sempre stare nella sua solitudine. Io quando andavo tra questi malati, parlavo, parlavo; parlavo tanto. E poi portavo i fiori. Devo dirti che nonostante la chemio sia qualcosa di durissimo e doloroso, quella fu per me una bella esperienza; perché fu una esperienza di umanità, di condivisione, di socialità. Fu una opportunità di stare con gli altri. Circa l’impatto della chemio, tutto sommato per diverso tempo ressi abbastanza bene. Ma alla fine mi sono sentita malissimo. Mi venne la candidosi. Proprio con la fine della chamio, cominciò l’inferno.
-Racconta..
Nel 2006 cominciai a produrre schiuma. Schiumavo come una lumaca. Avevo proprio la lingua bianca. E come schiumavo in bocca, il dottore mi spiegava che schiumavo anche dall’interno… nella pancia, nello stomaco… una cosa pazzesca. A lungo trovai medici superficiali che non capivano quello che avevo. Che mi dicevano le solite banalità del tipo “sei depressa”. Finalmente trovai un medico di Roma che mi disse che avevo la candidosi. Questa problematica mi aveva ridotta ad essere uno zombie. In quei due anni non tornai a scuola. Molti colleghi dopo l’intervento e la chemio tornano a scuola. E anche io, mentre stavo facendo la chemio, dicevo ai colleghi “ora torno, ora torno”. E invece mi venne questa candidosi terribile. Per due anni non ho saputo come uscirne. Furono due anni di inferno. Credevo di morire. Ormai anche andare a fare le visite mediche era uno strazio. Non riuscivo più a camminare; barcollavo. Tutto questo fino a quando incontrai una persona che mi salvò. Era un ortopedico di Roma che mi diede una cura senza carne e che mi disse “Si prenda un limone spremuto ogni giorno”. Con la dieta e il limone mi passò la candidosi. Prima, come ti dicevo, avevo schiuma all’interno del corpo, mi sentivo sempre gonfia, ero sempre dolorante, sempre piegata in due. Tutto questo passò grazie alla dieta e al limone. Nanni Moretti in Caro Diario racconta le sue vicissitudini di salute, e dice “Ho imparato che ogni mattina si deve prendere un bicchiere d’acqua tiepida con un limone spremuto”. E’ molto importante, in questi casi, incontrare la persona giusta. Ci sono certe persone che ti danneggiano più che aiutarti, o comunque ti tolgono energia piuttosto che motivarti. Pensa che una psicologa un giorno mi disse “va beh, mio padre è morto, tutti dobbiamo morire”. Comunque la guarigione richiese mesi. Oltre a questa tremenda candidosi, successivamente ebbi un altro bestiale problema fisico. Tutto iniziò con un grande dolore alla gamba. Dopo l’intervento e la chemio, zoppicavo sempre. Non riuscivo comunque a capire come venirne a capo. Decisi di andare da quel medico di Roma che mi aveva fatto conoscere l’acqua col limone e mi disse “signora, lei non ha niente alla gamba, ha avuto uno spostamento del bacino e quindi ha sbilanciato e deve mettere un tacchetto più alto di una scarpa.”. Il trucchetto del tacchetto funziona… sulla gamba… a quel punto però.. non riuscivo più a masticare. Il tacco aveva innescato una sorta di mutamento a livello di mandibola. Prima andai da un dentista che per due volte mi da un byte, m io non riuscivo a stare con questo byte. Poi andai in un famoso centro dentistico che si trova a Crotone. Lì ho avuto a che fare con lo gnatologo, che è quello che si occupa dei byte. Mi applicò un byte e, dopo qualche mese, non vedevo più, non camminavo più. A un certo punto mi sono tolta di bocca questo byte; e mi successe di tutto. I denti cominciarono a sbattere l’uno contro l’altro. Ancora adesso ho tutti i denti rovinati. Per fortuna incontrai un osteopata, che si chiama Oreste Montepaone e lavora a Catanzaro. Lui riuscì a risistemarmi. Da allora, ogni settimana devo andare da Oreste che mi sistema la mascella, mi sistema la gamba e me la mette dritta e gran parte delle problematiche fisiche vengono meno.
-La scrittura è la tua passione, racconta come nacque tutto questo, cosa ti ha accesola scintilla.
Nel 2009 avvenne un evento che fu uno spartiacque per me. C’era una signora che aveva organizzato un evento con un pulmino, ma gli era venuta meno uno dei partecipanti, lei mi chiese di prendere io il posto di quella persona e lo feci. Si trattava di andare ad Ischia dove lei doveva ritirare un premio di poesie. Le sue poesie mi piacquero e scrissi un pezzo. Tempo dopo, nell’ambito di un evento organizzato a Lamezia, mi venne chiesto di leggere quel brano. Provai una emozione particolare nel farlo. E questo fu uno stimolo a continuare a scrivere. Una delle motivazioni interioro era che mio figlio mi leggesse. All’inizio mi dicevo “scrivo perché mio figlio mi legga”… “scrivo, glielo faccio leggere, lui lo leggerà, e io parlo con lui”. Poi mi sono resa conto che molte volte non mi leggeva. E allora ho cominciato a dirmi “adesso dice che non mi legge… però poi… mi leggerà.” Posso però dirti che un momento decisivo dal punto di vista “tecnico” fu l’avere imparato il PC. Prima ho sempre scritto su fogli di carta, e mi trovavo piena di fogli che smarrivo continuamente. Anche perché scrivevo dappertutto. Sull’agenda, sugli assegni, sulle note della spesa. Nel 2007 tutti quei foglietti li bruciai. Per imparare il PC ho fatto venire un ragazzo a casa per insegnarmelo. Era il 2010. Poco dopo, dovendo scrivere una presentazione per il libro di un amico , scoprii l’esistenza dei siti letterari. Per me fu una rivelazione. Ora quell’ubriacatura mi sembra una cosa lontana. Ma in quel momento per me era come trovarmi nel “paese dei balocchi”. Tutti questi siti letterari, dove si poteva scrivere in continuazione e confrontarsi con gli altri, commentare, vedere i loro commenti. Appena entrai in questi siti, mi sembrava di essere in uno dei collettivi degli anni ’70. Io ero un po’ troppo impetuosa nel pormi, e anche molto schietta. Questo comportava che venissi bannata da quei siti o che me ne andassi io. Nel 2012, un professore che avevo conosciuto proprio su uno di quei siti, e che aveva apprezzato il mio stile, mi aprì un blog. E si può dire che dal 2012 ad oggi io scrivo in continuazione.
-Se dovessi chiederti perché scrivi, come risponderesti?
A me piace comunicare. Per comunicare io non ho trovato altro sistema che non sia quello del foglio. Per comunicare posso usare solo la scrittura. Lo posso fare dicendo ad un’altra persona quello che io penso di lui, di quello che scrive. E’ un modo per conoscersi. Ed è un modo per fare un dono. “Ti do questa parte di me”.
-Quindi non sei molto d’accordo con chi dice di scrivere solo per se stesso e che non gli interessa se altri leggono o meno?
Assolutamente no. Per me sono dei pazzi. Per me la scrittura è imprescindibile da chi ti legge. Voglio anche dirti che dalla scrittura si capisce se ciò che uno dice è vero o falso, e se chi scrive è una persona “vera” o “falsa”.
-Di cosa scrivi maggiormente?
Sai che non potrei dirti un argomento particolare sul quale scrivo.. si può dire che scrivo di qualsiasi cosa.
-Questi anni ultimi anni come sono stati?
Per certi aspetti è stato un periodo in cui è stato possibile che le mie idee cominciassero a trasformarsi in realtà. Per altri versi è stato un periodo di cancellazione. Da sempre in un certo senso io sono cancellata. Ma negli ultimi tempi è avvenuto con particolare intensità.. Un mio amico giornalista dice che vengo oscurata perché non sono “istituzionale”. Anche in un’altra iniziativa a cui avrei dovuto partecipare, seppi che alla fine non ero stata invitata perché non ero… “istituzionale”. Io non sono presidente di una Associazione, non faccio parte di un partito, non sono una giornalista, non ho potere economico. Non sono nessuno, quindi… hahaha.
-Detta così è quasi un complimento, perché istituzionale vuol dire che sei nel sistema. Le parole che noi usiamo ci qualificano. Qualificare una persona come “non istituzionale”, vuol dire porsi nei confronti di quella persona in una posizione di spocchia, di giudizio.
Ma il mondo letterario e culturale è un mondo di spocchia e di giudizio… e di cordate…
-Cosa intendi per cordata?
Le persone che operano nel mondo della cultura si aggregano in gruppi di mutuo sostegno reciproco. Anche quelli che sono bravi si devono appoggiare a qualcuno, altrimenti non trovano spazio.
-Insomma sinergie di pura convenienza?
Si… come si forma una cordata? Immagina uno scrittore locale che ha raggiunto un successo di portata nazionale, meglio morto. La cordata si manifesta nel parlare di lui, nello stare vicino a questo scrittore, nel fare iniziative su di lui, morto.. Anche perché, tramite la sua luce, di riflesso, si cerca di avere visibilità. E poi ci sono tanti modi per cercare visibilità. Adesso vanno di moda gli incontri con dieci persone, perché dieci persone sono una garanzia per la riuscita della serata. Una cosa che mi indigna profondamente è poi tutto quel mondo di coloro che si vogliono creare una posizione attraverso l’esibire il loro essere antimafia. Io ho messo un disegno sul mio profilo dove alcune vittime di mafia dicevano “per favore dimenticateci, perché voi non potete fare le vostre carriere sulle nostre morti”. Opportunisti dell’antimafia per fare la loro carriera. Altra cosa che ho notato nel corso degli anni è che pochi, davvero pochissimi, hanno una vera opinione indipendente. Moltissimi non si accorgono, in modo indipendente, se una persona è brava o meno. Se io mi accorgo che una persona è brava, senza che me l’ha detto nessuno, mi dicono “a te chi te l’ha detto?”. Il plauso della gente comune viene solo dopo che qualcuno di importante e di autorevole ha dato la sua approvazione. Prima non ti considera nessuno. E comunque sono arrivata anche alla conclusione che gli altri, con le dovute eccezioni, se ti incontrano la prima volta.. le prime cose che notano sono come ti vesti, quanti soldi hai e se puoi essere loro utile, se puoi servire in qualcosa.
-La tua via può essere intesa alla luce dell’amore per la scrittura e la condivisione…
Guarda.. nel 2009 ho cominciato a girare con questi fogli in borsa. E lì leggevo dove mi trovavo. Una volta leggevo ad una persona su una panchina, stavo leggendo quella che era “la mia pasquetta” e una donna che si trovò a sentire mi disse “signora, questa è la pasquetta mia”. Avevo il desiderio di leggere in continuazione quello che scrivevo. Ad esempio alle otto di mattina chiamavo e dicevo “Buon giorno, ho scritto questo”. E leggevo quello che avevo scritto. E ho cominciato a scrivere. E poi ho cominciato a leggere in pubblico.
-Ricordo un tuo appassionato discorso alla Ubik di Catanzaro Lido…
Io esprimevo alla Ubik la bellezza e la difficoltà delle donne che potevano scrivere. Mia madre ha sempre voluto fare la maestra, ma le era sempre stato negato, e ha fatto una vita difficile, portandosi dentro questa mancanza. Ancora. adesso che ha 90 anni , vive con questo senso di mancanza. Quella sera dissi che sono contenta di essere andata a scuola… posso scrivere, posso insegnare, posso parlare. Grazie sempre a Nunzio Belcaro, alla sua sensibilità, a Gianluca Pitari. La libreria Ubik ama la scrittura. Per me scrivere è relazione..
-Voglio concludere con qualche tuo brano. Leggine due..
Questo brano si chiama “Dove ritorniamo”..
“Nella nostra vita ritorniamo sempre all’infanzia, all’adolescenza. Tutto quello che succede dopo è una schermata, e poi l’infanzia ci insegue e ci riporta indietro. A lei ritorniamo più o meno consapevoli, più o meno felici, più o meno soddisfatti. Le rondini di maggio, i loro voli circolari rasenti il mio balcone e di fronte la chiesa barocca, il suo bellissimo giardino che nessuno ricorda più. La nonna che fumava qualche sigaretta di nascosto come una ladra, dietro una finestra. Lo zio lento, maldestro, che sicuramente avrebbe rotto qualche tazza, avrebbe versato il latte per le scale. La mia mamma che lavorava con i capelli corti, un foulard in testa. Scendeva in una botola, prendeva la carbonella, preparava un braciere, per una serie di maschi per i quali era d’uopo riscaldarsi. Le donne di casa preparavano grandi ceste con cenere fumante e le lenzuola bianche sotto la cenere profumavano di buono e di famiglia. Ugo mi accompagnava a scuola. Palma veniva nella nostra campagna, dormiva da noi il sabato. Poi ritornava alle sue galline, ai suoi cani, ai suoi gatti. La cucina in muratura, il forno a legna per fare il pane, i taralli per pasqua con l’anice nero, e il baccalà con le patate del venerdì. Ero convinta mi volessero avvelenare, bambina, chissà perché. Leggevo troppe favole nere. Ero convinta di essere di troppo in quella famiglia numerosa, articolata, complessa. Ero sicuramente non capita. Non c’era il tempo. Mangiavo quindi poco. Ero magra, magrissima. Debole, debolissima. Quanti record b-12 ho bevuto nelle primavere della mia infanzia e della mia adolescenza. Pensavo, leggevo e pensavo. Studiavo, amavo la scuola, non conoscevo altro. Amavo i diari scolastici, i quaderni, le penne, il banco, dove io trovavo il mio posto. Non c’era posto per me in parrocchia. Ero timida, poco intonata, nemmeno un coro. Riuscii ad andare in bicicletta dopo e ricordo un grande pentolone di salsa contro cui andai a sbattere nel vico chiuso dietro casa. Non imparai nemmeno l’alligalli malgrado gli sforzi di mia cugina non avevo ritmo, non parlavo.
Con chi avrei potuto parlare di personaggi letterari, leggere poesie che scrivevo e sceneggiature mai recitate. Avevo sempre il muso. Il mio papà sempre molto carino, mi chiamava Cassandra, capra maltese cioè testarda. La zia Giuditta mi chiamava Sandrina, le ricordavo Sandra Mondaini. Per tutti ero studiosa, capace, ma poi finiva lì, come se fossi ancora in quella casa dove per altro non vivo più da tanti anni. Ma non sono vissuta da nessun’altra parte. Non ho ricordo delle altre case dove ho abitato. Non ho ricordi di questa dove abito da più di 15 anni. Tutti noi non andiamo da nessuna parte, ma è bello andare. Quello che non ho fatto allora lo faccio ora. So ballare l’alli galli, so parlare in pubblico, sono elegante e sono carina. Saprei fare molte altre cose se sarà il mio destino farle. Il tempo è circolare. Nulla si perde e tutto è per sempre, ma la selezione annulla il superfluo. Il banale, il quotidiano, annulla lo squallore di una vita falsa e ci ridona le immagini essenziali a dirci chi siamo.”
Quest’alro brano è dedicato ad Amy Winehouse ed ora anche a Whitney Huston..
“Nel dissolvimento del mio mondo ho pensato che vivere la mia sofferenza, mi avrebbe permesso di essere capita dai miei cari. Così, nelle televisioni private, in qualche associazione, elegiacamente ho intonato il canto dell’amore perduto, commentando poesie di altri poeti, parlando di Emily Dickinson, parlando convinta che i miei cari avrebbero capito le mie ragioni. Sono venuti anche a sentirmi. Hanno visto i giornalisti locali che mi intervistavano, le persone che mi porgevano i fiori, che si congratulavano, si erano commossi gli spettatori, e loro, i miei cari “adesso ti sei specializzata, adesso puoi fare solo questo”. E io che parlavo per loro! Adesso ho iniziato a parlare per me. Ed è successo di tutto. L’invidia profonda di chi si sentiva scavalcata. Le persone semplici che mi dicevano di avermi visto in televisione e che mi domandavano quando avrei fatto un libro. Ma io non voglio scrivere nessun libro. La mia casa è invasa da libri, da fogli, da agende. Scrivo dappertutto. Esco e penso a quello che scriverò a casa. Ti credo perché penso che ti sia successa la stessa cosa. E’ la frase creativa. Mia sorella quando mi vede con un foglio in mano, scappa. Ho smesso di leggere alle amiche. Non possono capire il turbinio che abbiamo in testa. Le voci, i personaggi, le storie che vogliono essere scritte. A volte scrivo come se fossi in trance. Non so neanche io cosa racconterò. Poi ovviamente ci diamo una regolata. Qui pubblicano tutti. A che pro. Una volta lessi un libricino piccolo piccolo. Della Sperling forse. La storia di una donna di una piccola città che faceva conferenze, veniva premiata con qualche premio letterario. Pensai “che squallore una vita così”.

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