“MI
DEPRIME L’ITALIETTA DEL POSTO FISSO, DELLE FALSE CERTEZZE, DEI RITI COMPIUTI
PER NON PENSARE, PER NON METTERSI IN GIOCO, PER NON RISCHIARE NULLA”. DIALOGO
CON ANDREA DI CONSOLI
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Ottobre 11, 2019, 8:02
Ippolita
Luzzo intercetta Andrea Di Consoli sul treno Roma-Genova. Dalla Stazione
Termini con la canzone di Jannacci in testa Prendeva il treno “Prendeva il treno per non essere da
meno Prendeva il treno per sembrare un gran signor”. Viaggiando con Andrea, già
autore di libri importanti (per Rizzoli ha pubblicato, tra l’altro, La
curva della notte e La collera) ci smarriamo nel Diario dello smarrimento (Inshibboleth
Edizioni, 2019), ultima sua confessione intima, che ci riporta ad una stazione
come casa. Alla nostalgia di casa. Dice infatti Andrea di sentirsi a casa alla
Stazione Termini sin da quando arrivò a Roma nel 1996 e a lui ora chiedo quasi
fermandolo sui binari “Ma la casa vera dov’è? Cos’è la casa?”.
Andrea Di Consoli: “La casa è la pace. Ma cosa significa ‘sentirsi a casa’? Non
credo di saperlo, non credo di averci mai ragionato a fondo. Nella mia vita ho
cambiato tante case. Ma il concetto di ‘casa’ è legato esclusivamente al
manufatto che siamo soliti, appunto, chiamare casa? Tuttavia il manufatto è importante,
è cruciale, nessuno può negarlo. Per tanti la casa è rifugio,
sicurezza, pace. Per altri è prigione, costrizione gabbia. Non so esattamente
dove sia casa, per me. Anche perché non ce l’ho. Vivo da sempre in
affitto. E la casa in Basilicata, a Rotonda, non è mia, ma dei miei
genitori. In ogni caso, non mi sento a casa da nessuna parte. Anzi no, voglio
dirla meglio: a volte mi sento a casa a Roma, a volte a Rotonda, a volte a
Napoli, a casa della mia compagna. E questa pace ha a che fare con qualcosa di
interiore, di psicologico. Il tema è enorme, e non so metterlo bene a
fuoco. Forse l’unica certezza che ho sull’argomento è che vorrò essere
seppellito a Rotonda, quel giorno. Di questo sono davvero certo. Per il resto,
chissà se avrò mai una casa su questa terra dove, appunto, sentirmi in pace, al
sicuro. Sinora la pace e la sicurezza li ho vissuti per degli attimi,
ma mai interamente, e questo mi pesa, anche perché sento che le forze di un
tempo stanno venendo meno, e il nomadismo richiede una grande energia fisica”.
Ippolita Luzzo: Io mi
sono sentita molto a casa nel tuo libro, nei tuoi pensieri. Considerando la
casa il nostro corpo, la nostra mente, i nostri abiti e ciò che abbiamo nelle
tasche, noi siamo come le lumache e ci portiamo dietro chi abbiamo fatto entrare.
Leggendoti, mi sembra di conoscerti da sempre e di conoscere con te persone che
io non ho incontrato ma che fanno ormai da anni parte della mia casa. Tu
ricordi Rocco Carbone, da me conosciuto per un delizioso articolo di Romana
Petri, sua cara amica. Da allora Rocco quasi sta come presenza amicale qui da
me, con i suoi libri. Questa è la grande potenza della letteratura, riuscire a
dire e a dare oltre il tempo contingente. Riuscire a farci smarrire però
facendoci ritrovare, vero?
Andrea Di Consoli: “Questo vale
finché c’è la vita. Finché la vita è sopportabile, decifrabile. Poi vi sono dei
momenti in cui purtroppo il buio del dolore non fa più apprezzare niente, tanto
che le parole, in quelle circostanze, sono solo chiacchiere. La letteratura è
un luogo caldo, fraterno. Ma solo finché c’è la vita, cioè finché la vita è
sopportabile. Perdersi, ritrovarsi… A volte mi chiedo cosa ci abbia
condotto sin qui, sino a questa scellerata convinzione che possa esistere un
ordine, una sicurezza, una normalità. La gente è dilaniata da paure,
insicurezze, paranoie, violenze di tutti i tipi, eppure se ti guardi intorno
vedi tanta gente che si convince di un ordine assurdo, illusorio, certamente
umano, ma ipocrita. Quando mi chiedono perché amo la globalizzazione e
le grandi migrazioni io rispondo sempre perché mi deprime l’Italietta del posto
fisso, delle false certezze, delle piccole cose di pessimo gusto, dei riti
compiuti per non pensare, per non mettersi in gioco, per non rischiare nulla.
Perdersi non è la malattia: la malattia è clinicizzare tutto. Considerare matto
chi sta nella verità dello smarrimento, del fuoco, della paura, della Wanderung“.
Ippolita Luzzo: “Nella
verità dello smarrimento” troviamo momenti individuali, l’individuo solo senza
connessioni, l’individuo alle prese con i figli da crescere, con il lavoro
precario e con un tessuto sociale sempre più sfilacciato. E l’individuo nella
storia dei cambiamenti sociali ed epocali. Tu hai scritto diversi saggi sulle
condizioni nel Mezzogiorno. Condizioni di potere uguali dappertutto. Se
pensiamo che nel 1500 durante la signoria dei Medici si tenevano banchetti
pubblici. I nobili mangiavano e il popolo assisteva allo spettacolo. Restava
per il popolo lo spettacolo rutilante delle portate e i profumi di esotiche
vivande e fra loro, fra i poveri, si litigava per i resti, per cosa cadeva dal
tavolo. In uno dei tuoi frammenti ci porti a Rotonda dove comandavano quattro
famiglie. Bisognava portare doni e riverire. Tu ci dici che si bussava alle
porte dei potenti coi piedi perché le mani erano ricolme di doni. La
sottomissione di chi aveva bisogno era umiliante. Poi è sembrato per un periodo
che ci fosse la possibilità di sconfiggere per sempre l’umiliazione imposta dal
forte sul debole con la scuola, con la Costituzione. Vorremmo ancora crederci,
anzi invitiamo i nostri figli a crederci quasi come un mantra. Ed è questa una
delle altre case che ci appartiene, vero? La scuola, il sapere…
Andrea Di Consoli: “Sì, ma la cosa più umiliante per noi è constatare che la
contestazione delle classi subalterne avviene proprio sul terreno del sapere,
considerato come luogo del privilegio, delle élite. Trovo assurdo
disprezzare il sapere solo perché le classi dominanti, giustamente, amano
sapere, sanno. Mi sembra un autolesionismo assurdo, incredibile. Ma il
sapere non è solo uno strumento socio-economico di emancipazione, bensì un
allargamento spirituale, che rende più vita la vita, più reale la realtà, più
complesse le cose che, troppo spesso, ci sembrano facili per ignoranza,
superficialità. Tuttavia, qualcosa della mentalità piccolo-borghese
rispetto al sapere va scardinata. Quell’idea della laurea, del concorso
pubblico, del posto fisso, la casa al mare, ecc. Quell’idea così angusta e
svilita del sapere che ha reso il Sud Italia un deserto abitato da ex
aristocratici, da impiegati pubblici e da un lumpenproletariat 2.0. Il
sapere emancipa non soltanto da difficili condizioni socio-economiche, ma anche
dalla grettezza di chi difende il proprio orto senza pensare al mondo, senza
pensare all’infinito”.
Ippolita Luzzo: C’è stato un
vero attacco, hai ragione, a chi ha studiato, a chi possiede una laurea, ed è
pur vero che si dovrà ricominciare a ripensare al valore dello studio come
forza e non come potenza. E ritornando alle case ideali dove noi abitiamo
risento quel tuo “messaggio in bottiglia” che poi tu dici di essere la più
atroce delle storie letterarie, da lì io vorrei riprendere idealmente il treno
di quel personaggio di Jannacci, il treno di “Prendeva il treno” e con un tuo
pezzo ritornare all’amore “La vastità desertica del terreno amoroso, la
complessità dei legami tra due individui, che sono come due galassie solitarie
destinate a incontrarsi e condannate a collidere. Con la più grande illusione
che è la facilità dell’aggancio sensoriale. Quando due persone adulte si
incontrano sono sempre diversi i motivi per cui due persone si ritrovano in
quel territorio in apparenza stretto, in realtà larghissimo, che è l’amore”. Una
delle case più care a tutti noi è la casa dell’amore. Nel Regno Della Litweb
indubbiamente noi stiamo tutti con te, Andrea. Con te e con Jannacci “E
prende il treno per non essere da meno, E piange e ride per quel grande,
assurdo amor!”. Messaggi in bottiglia dal “Diario dello smarrimento”.
Ippolita
Luzzo
http://www.pangea.news/andrea-di-consoli-intervista-ippolita-luzzo
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