sabato 20 aprile 2013

I comuni e i beni comuni con Rodotà



I comuni e i beni comuni- La rinascita dell’anno duemila

Nell'anno mille i comuni nacquero per governare il territorio senza l’ingerenza feudale, senza il potere religioso.
Una classe nobiliare e imprenditoriale cominciò a organizzarsi attorno all'uso dei beni comuni.
Non più sudditi ma cittadini.
Il potere venne affidato a magistrati che sarebbero rimasti in carica per un solo anno, secondo il modello romano, ed eletti dal popolo.
I comuni
Anche ora ci opponiamo al sistema feudale, anche ora siamo molto preoccupati dallo sciupio della nostra aria, del nostro mare, della nostra terra.
Guardiamo stupefatti un sistema feudale centralizzato e globalizzato governare per assiomi.
Spettatori scomposti e diseducati ci agitiamo senza possedere la regola, il diritto, la facoltà.
Lasciati liberi di non essere liberi urliamo.
Ritorniamo alla storia, ritorniamo a studiare passaggi, snodi, ribaltamenti.
Guardiamo al medioevo, al tempo dei comuni e crediamoci ancora.
Sotto questo cielo viviamo
Questa stessa aria respiriamo
In questo mare navighiamo
E sono questi i beni comuni da preservare, da curare, da amare
Prima che ci vengano sottratti del tutto.
La tutela dei beni comuni è all'attenzione di Stefano Rodotà, giurista
È alla nostra attenzione
Per non dimenticare
Per essere vigli e seri e cominciare a scappare nella  palingenesi del passato
Ippolita Luzzo 

domenica 14 aprile 2013

Nel medioevo prossimo venturo



Nell’anno mille e tredici in Italia
Nell’anno duemila e tredici in Europa
Il Sacro Romano Impero

Uguale uguale

Quando immaginiamo le albe degli anni mille e tredici, con i testi storici in mano,
Nulla di nuovo sotto il sole.
Franco Cardini, storico del medioevo, vi direbbe:-Facciamo una bella Crociata… alla rovescia-
Invertiamo e decrementiamo la popolazione.
Gli storici sanno che corsi e ricorsi avvengono nel tumultuoso mondo degli umani.
Una bella guerra, una bella pestilenza e  una scoperta meravigliosa di altri mondi faranno ripartire l’economia, l’entusiasmo, la fede.

Nel mille e tredici in Italia c’era l’emirato di Sicilia, l’impero bizantino, lo Stato Pontificio, il marchesato di Toscana, il regno di Lombardia
E in Europa Enrico II era a capo del Sacro Romano Impero e a Pavia cinse la corona di re d’Italia
Bene bene
La Germania detta legge, oggi come allora.
Oggi come allora, pellegrini assaltati in  strade insicure, turbe di popoli si muovono, vagano e premono ai confini, dal mare, dai monti…
Invadono l’occidente, si stanziano in fatiscenti cunicoli, catapecchie, casolari, castellotti in rovina
Occupano campagne, stendono tende, alimentano commerci, stringono alleanze, ci guardano

Noi abitanti indigeni di questa nazione, imbelli, incapaci, impotenti
Facciamo finta che siamo nel duemila e tredici

Facciamo finta che siamo noi ad avere in mano il volano della storia

E guidiamo felici per strade sconnesse, disselciate, fangose,
incuranti di buche, di trappole disseminate come allora
Siamo sempre agli albori di un nuovo millennio
Nel medioevo prossimo venturo


venerdì 12 aprile 2013

La Beirut di questi anni



La Beirut di questi anni

La mia città



Dopo il conflitto, dopo gli spari, dopo l’occupazione

La bellissima Beirut giaceva sventrata, stuprata.

Così la descriveva Oriana Fallaci- Insciallah





Ricordo perfettamente la mia città alla fine degli anni sessanta.

Bellissima.

Palazzi barocchi, giardino prospiciente la Chiesa di Santa Maria Maggiore, corso ancora intatto,

con case basse, architettura semplice, elegante, negozi piccoli,

e sul corso librerie, edicole, queste per fortuna esistono ancora, scuole.



Ricordo perfettamente e proprio per questo la sofferenza è pungente.

Chiudo gli occhi, 
non voglio vedere  lo sventramento e la pavimentazione di Piazza d’Armi, non voglio vedere  le case buttate giù  e i palazzotti a sei piani di una edilizia lasciata senza regole in anni lontani, non voglio vedere i cassonetti stracolmi, il villaggio zingari ampliarsi a dismisura come una grande ameba.



Non voglio vedere il centro storico disabitato e sciupato, occupato da uomini soli, con bottiglie in mano, da donne sole, anch’esse con bottiglia in mano.

Sono uomini e donne di cui non abbiamo nemmeno percezione fin quando non avranno un passaporto, una regola, una cittadinanza.

Vagano…



Guidando schivo l’ennesima buca.

Un asfalto sbriciolato, cannoneggiato, trapanato

Sono passati le truppe compatte degli israeliani, hanno bombardato le case degli sciiti

E scontri continui tra sunniti e sciiti si avvicendano.



La mia città piange dolente un mare sciupato, sporcato, una pattumiera.

Una costa erosa, mangiata, devastata da blocchi dii cemento,

da lungomari improbabili

luoghi del nonsense



Smarrita mi chiedo come sia stato possibile,

smarrita e solitaria mi apparto in un libro

confidando solo nella smemoratezza che, allontanando dalla mia mente il ricordo della mia bella città, darà quiete al mio tormento.

Ippolita Luzzo 

giovedì 4 aprile 2013

C'è risata e risata

Vado alla presentazione del libro di Pingitore- Diario intimo di un cabaret-
Lo scrittore, un distinto signore, è cugino del mio amato pediatra.
Ed è in questo tono di affettuoso incontro familiare che si svolge la serata.
Un bel video con il collage di alcuni degli sketch più riusciti negli anni, l'indimenticabile Gabriella Ferri che ci canta ... anche tu così presente, anche tu diventerai come un vecchio ritornello che nessuno canta più... Oreste Lionello e il suo sosia Andreotti,  le donne immagine di una donna da cafè chantant, da Crazy- Horse, bellissime e levigate, perfette e pure, senza triplo fondo.
 Una serata nostalgia.
I due presentatori, beh, veramente uno solo, si limitano ad incensare, a chiamare l'autore dottore, Maestro, tanto da infastidire Pingitore stesso che precisa di non voler essere chiamato Maestro, e nemmeno dottore, ma l'altro, un valente avvocato, mi dicono, continua causando nel suo interlocutore una gastrite immediata.
Si parla spesso di satira, si dice quanto sia stato apprezzato e applaudito dal pubblico questo spettacolo nato in una cantina di Roma nel 1965 e  portato in tv nel 1973 con maggiore successo di audience.
Ora che l'esperienza televisiva si è conclusa nel 2011 è il tempo dei bilanci, dei ricordi.
Satira di destra... hanno detto.
La serata già finiva e  pochissimi  interventi, la prima domanda arrivava proprio ai commiati.
Avevano mai avuto denunce? avevano mai gli autori subito processi ?
Mai- è stata la risposta- perchè abbiamo sempre detto la verità con rispetto e leggerezza.
Non c'era il tempo per chiarire, per dire cosa fosse la satira, cosa distingue Plauto da Marziale, cosa fosse lo scherzo che veniva offerto ogni sera sul palcoscenico del bagaglino.
Un inno alla vis comica italica, al faceto, alla grassa risata plautina, come la chiamava il mio prof di latino, una risata che solleticava, che faceva sbellicare ma che non rende liberi.
Non satira, non sprezzo di costumi servili, non canto libero di un pastore errante, solo facezie, torte in faccia, barzellette, grande mestiere, professionalità, rispetto dei tempi, delle battute e tutto restava esattamente dove lo si rimestava.
Una grande tristezza.
A me faceva solo una grande tristezza vedere artisti molto bravi snocciolare barzellettine scemotte e vedere ridere il pubblico per il  solletico che con qualche volgaruccia volgarità veniva fatto loro con doppi sensi scontati
Così la serata che avrebbe potuto essere una occasione diversa è naufragata nella nostalgia canaglia di un tempo che può essere e sembrare migliore proprio perchè ha irrimediabilmente sporcato il tempo presente con la superficialità del risus abundat in ore stultorum
Ovviamente mi riferisco a tutta una produzione italiana, dalla barzelletta dei comici  alla barzelletta del nostro capo d governo di destrica memoria

mercoledì 27 marzo 2013

Casa Alzal



Casa Alzal- Me ne sono andata

Casa Alzal: Una casa accoglienza per ammalati di demenza senile.

Sono in anticipo, aspetto il mio papà, stiamo facendo varie prove affinché lui si abitui a venire qui, da quando lo abbiamo disperso nella nebulosa degli atti di riconoscere, di orientarsi. Certo è ancora autonomo, si fa per dire, è autonomo fin quanto regge una solida rete familiare, un sostegno di accudimento, di pazienza, di rinunce.



Seduta sulla cassapanca li guardo mangiare, un grande tavolo, molti anziani.

Accanto a loro  tavolo gli operatori, giovani, entusiasti, partecipativi.

Un uomo dall’età del mio papà mi saluta, un uomo elegante.

Vestito blu a righe sottili, cravatta, gilè, camicia.

Molto ben vestito, curato, un uomo gentilissimo.

Mi parla con distinzione, io lo interrompo, non capisco, poi cerco di orientarmi anche io.

Guardo l’operatrice, ascolto lei, mi distraggo, faccio le foto, sfocate, ai ragazzi, ritorno a sedermi accanto a lui, a Gerardo, il suo nome.



Mentre ascolto, mentre guardo i visi di uomini, di donne smemorate, una grande tristezza, una infinita malinconia, e la voglia di urlare, di piangere, è forte.

Lui continua a parlarmi, io ne sono rapita.

Accanto a me un libro di poesie.

Lo ha portato lui, è il libro del maestro Francesco Sisca.

Lo sfoglio, lo leggo.

Poesie delicate e dedicate alla sua terra. Una sezione è  di narrativa, con  il ricordo di chi non c’è più, per fissare la loro vita sul foglio.
Alunni scomparsi troppo presto, amici, conoscenti, alcuni, noti a tutti in città, li ricordo anche io

Leggendo non mi accorgo che  hanno finito di mangiare, che tutti ci siamo persi, noi, loro, che anche la mia città ha assunto i tratti di una demenza svaporante e ormai da troppo tempo vaga nelle nebbie brumose di un inverno di sentimenti.

Leggo e rileggo poi alzo gli occhi e rivedo gli occhi belli e fiduciosi di Gerardo, sento il suo saluto, ne sono felice, mi sento vicinissima ora a lui, a loro, alla mia città



Prendo in macchina un libro, appena comprato, Seneca, La vita beata, lo regalo a lui, e prometto che mi siederò e racconterò anche io di loro, di noi, affinché il foglio viva per noi,

affinché il foglio fissi su carta, su web, sul blog, la grande avventura di ogni vita, la grande illusione di essere almeno presenti, almeno un momento, nell’affetto di un altro.

Per non dimenticare, per non essere dimenticati, per non dimenticarsene.



giovedì 21 marzo 2013

Ad un anno dalla morte di Tabucchi- 25-03-2012

Mi ritrovo a portare  dappertutto Il libro dell'inquietudine di Pessoa
Parlo e parlo di Soares e dell'eteronimo che non era, del baule lasciato pieno di fogli,  ritrovato e  pubblicato interamente, ma non del tutto, solo negli anni ottanta.
Mi porto a spasso Soares e insieme Pessoa, immaginando con quanta passione Tabucchi potè amare questo scrittore da dedicargli Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa e di voler essere seppellito nel cimitero di Dos Pazeres dove ha  riposato  Pessoa, prima di essere spostato nel Pantheon della patria, ai cinquantanni della sua morte,
Si sta facendo sempre più tardi... scriveva Tabucchi nel 2001, un romanzo epistolare ad un destinatario sconosciuto, esattamente un romanzo epistolario sulla parola che incanta e trascina e conosce anche chi non conoscerai mai... sembra il romanzo che io tengo fermo nei miei cassetti sul web, da qualche anno a questa parte.
Crediamo in tanti al valore, al significato, al potere di parole che portino verità e conoscenza e possano alleviare e confortare esistenze che... forse non esisterebbero mai, senza una parola.
Ognuno di noi sente una inquietudine che lo porta dove nemmeno lui sa
Ognuno di noi sente la missione del dubbio
e scrive scrive ininterrottamente lasciando i fogli in balia di altre mani.
Tabucchi spinse il suo amore per Pessoa fino ad imparare la lingua portoghese, a vivere in Portogallo, a scrivere Sostiene Pereira, ambientato a Lisbona, su un uomo vissuto a Lisbona negli ambienti di un giornale che avrebbe potuto essere un giornale di Pessoa .
 Egli aveva già scritto in portoghese Requiem, sempre sul suo amore, sempre affascinato dai tanti, dai molti eteronimi, dall'impossibilità di incasellare una esistenza, un poeta come Pessoa.
Si intrecciano i destini, si intrecciano senza che le banalità di un quotidiano possano poi farli morire davvero,
ed è questa la vera magia che ci prende verso i messaggi in bottiglia, verso testi pubblicati e non,
la magia che un domani, non ora, qualcuno possa aprire i nostri bauli ed amare i nostri fogli come Tabucchi amò i fogli di Pessoa.
 Storia infinita di esistenze diverse


mercoledì 20 marzo 2013

Un pugno di fumo negli occhi?

Folle plaudenti, osannanti, nessun silenzio, nessuna riflessione.
Una biografia rivoltata e rimestata, senza vergogna, poi offerta alla plebe festante.
Ogni gesto enfatizzato, ogni parola ingigantita... La società eccitata- Filosofia della sensazione di Christoph Turcke.
Eccitatissima- affinchè sia cieca.
Deve restare cieca per poter essere facilmente abbindolata, accontentata, privata dal diritto più semplice: il diritto di avere il tempo di farsi una propria opinione.
Sarà un Papa interessante, un Papa attento ai suoi fedeli?
Sarò un Papa giusto, un Papa aperto al sacro fra noi?
Noi questo non possiamo saperlo dai pochi gesti di buona maniera. dai pochi gesti suoi personali che attirano certo una simpatia.
Non sono questi i gesti importanti, non sono questi che decideranno dove la Chiesa si posizionerà.
Se avremo chiusure, se avremo ritorni al fedualesimo, se guarderemo di nuovo turbe di straccioni a cui fare elemosina, in cambio di una assoluzione, se ancora la Chiesa non considererà la dignità di ciascun popolo una sua scelta, una libertà.
Fra fede e potere, fra sacro e profano, è molto difficile trovare un accordo per far funzionare un ingranaggio che poi darà la felicità.
 Felicità Eterna
Turcke chiama questo nostro momento storico - l'epifania del sacro-
Lo sconvolgente, il sensazionalismo che droga il nostro essere.
Un ritorno all'indietro, al feudalesimo, alle masse ignoranti, impaurite e usate,
nei secoli che noi pensiamo passati.
Un pugno di fumo  per non accorgerci di essere ancora con i ceppi ai piedi
e con le mani sporche ... da Sartre
ogni individuo dovrebbe poter essere libero di sapersi districare nelle trappole svariate delle situazioni che ci chiedono una adesione veloce, diretta, senza dubbi.
Trappole, appunto, da cui fuggire se solo non avessimo negli occhi fumo.