mercoledì 9 ottobre 2024

Intervista a Vito Di Battista Il buon uso della distanza


 Intervista a Vito di Battista da Ippolita Luzzo 18 gennaio 2024

Il buon uso della distanza


[Ippolita Luzzo] Ho conosciuto Vito di Battista penso nel 2018 poco dopo dell’uscita del suo libro “L’ultima diva dice addio”, un fascinoso racconto diventato il libro del mese del nostro gruppo lettura di allora. Vito è stato nostro ospite a Lamezia presso la libreria Mondadori e ne ricordo la gentilezza e la competenza. 

Ora sono presa moltissimo dalla lettura di questo suo secondo romanzo, “Il buon uso della distanza”. Quando di un libro io mi innamoro stranamente non so più parlarne perché perdo proprio la distanza. 

Ora però provo a dirvi le tante parole che vorrei. Intanto lo spunto iniziale del racconto è una storia vera. È esistito uno scrittore, a Parigi, Romain Gary, che ad un certo punto per avere di nuovo successo è dovuto ricorrere ad uno pseudonimo e con quello ritornare in cima al gradimento del pubblico. «Ho creato Émile Ajar per nostalgia della giovinezza, degli inizi, per riprovare l’emozione del primo libro», scrive,in una lettera all’editore, Romain Gary, autore del libro “La vita davanti a sé”. 

Su questo autore Vito di Battista aveva fatto la tesi di laurea per la triennale e si era innamorato di questa storia. La riprende immaginando un altro scrittore, nato a Firenze da padre francese misterioso e da madre fiorentina. Lui, Pierre Renard, decide dopo gli studi di lasciare Firenze per andare a Parigi e lì lo incontriamo in una casa editrice dove lavora. Qui entra in gioco un imponderabile destino che chiameremo Madame. Madame propone a Pierre un accordo: lo pagherà per continuare a scrivere romanzi a patto che lui li scriva in anonimato, scegliendo sempre nuovi pseudonimi, da sembrare sempre nuovi esordi, e nei romanzi dovranno esserci dei riferimenti in cui lei, Madame, si possa ritrovare perché sono scaturiti dalle sue lettere. Il protagonista è titubante ma poi accetta. Aggiungo un brevissimo passo del libro per immergerci nella storia e chiedere a Vito se lui avrebbe accettato il patto. 

«“Si scrive per colmare una lacuna” ha detto a un certo punto, evitando di incrociare il mio sguardo. “Per rimediare a una distanza, per compensare uno squilibrio naturale verso il mondo che non si lascia dire. Non si può fare altro che questo, allora: stare alla larga dalla verità, ma avvicinarsi quanto più ci è consentito. Non esiste altro modo di trattare il mondo. Un mondo che, come la verità è come tutti noi, è nato senza parole”». 

Dal libro di Vito di Battista “Il buon uso della distanza”.


[Vito di Battista] D’istinto ti direi che sì, avrei accettato quel patto, e proprio per i motivi per cui lo accetta Pierre: non per il successo (che resta sempre un’incognita), ma per l’abbaglio di una libertà paradossale, del poter tornare continuamente all’inizio, del non farsi toccare da giudizi e pre-giudizi. Togliendo se stessi dall’equazione, ci si può illudere di mettere al centro solo le parole: un atto all’apparenza privo di ego, poiché si rinuncia al riconoscimento diretto, ma che forse è una scelta profondamente egoriferita, e per tutti i motivi di cui sopra. Poi però mi pongo da solo un’altra domanda: quello che intesse Pierre per far sì che questo patto abbia delle conseguenze, che entri davvero in azione, era indispensabile? Era l’unico modo possibile? E a questa domanda non esiste altra risposta se non quella del romanzo, ovvero la traiettoria sempre più perversa e oppressiva in cui Pierre si ritrova coinvolto. Con questo orizzonte in mente, la mia risposta allora cambia e diventa: “No, non avrei accettato quel patto”. Facendo una media fra gli opposti, mi sembra allora che l’unica risposta sensata alla tua domanda iniziale sia: “Non lo so”.


[Ippolita Luzzo] Continuo chiedendo e ricordando a Vito ciò che scrivevo nel 2018 sul suo libro “L’ultima diva dice addio”. Credo che ci sia già in embrione qualcosa di presente e sviluppato nel “Il buon uso della distanza”, vero? «L'ultima diva, nel romanzo di Vito, è la memoria. Ciò che noi facciamo con la memoria, cosa raccontiamo e come quando vogliamo essere ricordati, cosa vogliamo ricordare e tutte le trasformazioni con cui rielaboriamo i fatti. La memoria ultima dea.

In Foscolo era la spes, la speranza, ultima dea, qui, nel libro di Vito è la memoria. Una memoria circolare che ritorna spesso su alcuni dettagli. Sono infatti i dettagli a dare le epifanie, le rivelazioni. Un affresco a pennellate ripetute, questo il libro di Vito, originale e inusuale, una spennellata sulla memoria dimenticata attraverso un pretesto immaginifico e cinematografico, la biografia di una diva del cinema ormai ritiratasi a vita privata.» 

Madame somiglia alla diva del libro precedente?


[Vito di Battista] Madame somiglia a quella diva, Molly Buck, in quanto personaggio che inventa Pierre. Così deve essere per via del loro patto. Perché in realtà – lì dove la “realtà” è il gioco meta-letterario che soggiace un po’ a tutto – anche “L’ultima diva dice addio” è uno dei romanzi di Pierre, solo che ne “Il buon uso della distanza” ha un altro titolo, che era il mio titolo di lavorazione al tempo. Pierre lo scrive in omaggio a Claire, uno dei personaggi di “Il buon uso della distanza”, dandole un altro nome e immaginando per lei un futuro da grande attrice ritiratasi a vita privata. Quindi Madame somiglia a Molly Buck, ma Claire è Molly Buck. Ed è come se, sempre dalla prospettiva di questo gioco, io fossi un altro degli pseudonimi di Pierre. Ho pubblicato due romanzi con il mio nome sopra, ma nel mondo della finzione letteraria entrambi questi romanzi sono opere sue, e questo è forse l’unico vero punto di contatto che esiste fra me in quanto persona e Pierre in quanto personaggio.


[Ippolita Luzzo] Ed adesso entriamo nel mondo dell’editoria, nel mondo dove ogni sgambetto è lecito, nel mondo dove si decide chi pubblicare e chi osannare, chi recensire sulle pagine più importanti, sulle televisioni, e farne un caso editoriale. Qui il libro si articola e ci regala uno spaccato veritiero di come e quando si decide e perché si decide, di chi ricatta chi, di chi odia chi, magari senza motivo oppure con un motivo lontanissimo nel tempo. Nel mondo intellettuale gli odi e i rancori restano fermi al primo momento di lettura, di incontro. Un quadro che Pierre Renard ci regala con esattezza. Quanto è vicino vero ce lo dirà Vito, per me è proprio come lo leggerete nel libro.


[Vito di Battista] Pierre vede e vive un mondo come tanti, anzi come tutti, che è fatto di compromessi, di bassezze, ma anche di intenti positivi e di genuinità. Si cala però soprattutto nel male che c’è, e lo fa per i propri scopi o spinto dalle ramificazioni involontarie del progetto che vuole portare avanti. E il male chiama sempre il male, in editoria come ovunque. Tutto sta a cosa si decide di farne, di questo male; come scardinarlo o sfruttarlo, ignorarlo o alimentarlo. Fino a che punto farsi contagiare o cercare un equilibrio, più o meno a distanza di sicurezza. Riguardo quanto sia veritiero ciò che si legge nel romanzo, potrei dirti che lo è totalmente, che ogni dettaglio e ogni episodio sono ispirati da fatti reali o ne sono una fedele ricostruzione, oppure che al contrario è un’invenzione, una menzogna esagerata per fini puramente narrativi. Non credo importi molto quale sia la mia verità, in tal senso, e lo credo perché una risposta netta sarebbe comunque solo la mia prospettiva e darebbe un’altra chiave di lettura alla storia, ne sposterebbe le coordinate in un campo di analisi che è molto più complesso e va oltre la storia in sé, oltre lo spazio che ci è concesso qui o anche semplicemente la mia esperienza in merito. Credo invece che a importare sia quanto ciò che si legge nel romanzo risulti plausibile, e poi ognuno trarrà le proprie deduzioni da questa plausibilità. Il tuo ritenerlo aderente al vero mi fa piacere soprattutto per questo motivo: dalla tua prospettiva, la plausibilità che ho cercato di raccontare ha funzionato perché è parsa reale, a prescindere da quanto lo sia davvero.


[Ippolita Luzzo] “Il buon uso della distanza” ci invita ad usare bene la distanza, anche dall’ossessione della scrittura, anche dalle critiche feroci o dagli elogi entusiastici, e ci aiuterà poi a trovare il bandolo come farà Pierre Renard nella sua storia raccontata con uno stile originale e affabulante. Nelle sue lettere a Madame ho ritrovato una mia lontanissima corrispondenza con un autore che avrebbe voluto avere successo, e le nostre e-mail ormai chissà chi le leggerà. Resteranno le e-mail come le lettere di una volta nei cassetti e saranno ritrovate oppure scompariranno nel nulla di un ricordo estinto? Me lo domando e te lo domando essendo appunto il tuo un libro di lettere inviate, di lettere che compongono una storia umana che riguarda sempre due persone, chi scrive e chi legge, chi risponde e chi ne farà un romanzo. 


[Vito di Battista] In una qualche misura, forse meno affascinante ma solo per via di un gusto rétro, sì, resteranno, o comunque potrebbero farlo. Alla fine, ciò che ha una qualche ragione che vada oltre resta sempre, o quasi sempre, o scalpita per riuscirci. In potenza, tutto quello che ci riguarda può rimanere e, per un tempo più o meno limitato, dire ancora qualcosa. Il problema è che gran parte delle cose di cui ci circondiamo perde di senso nel momento in cui non c’è più una voce che le spieghi, che le racconti. Le parole, che siano in forma di lettera o di e-mail, per fortuna si raccontano da sole. Bastano a loro stesse. E uno dei grandi paradossi di Pierre sta forse proprio in questo: mette in piedi ricatti, sotterfugi, vendette, ma quello a cui mira è che le parole, un giorno, quando tutti i ricatti e i sotterfugi e le vendette saranno dimenticati poiché nessuno potrà più raccontarli, possano restare perché bastano a loro stesse. In un punto nel romanzo Colette, la maîtresse di un bordello illegale, dice a Pierre che «deve passare del tempo prima di raccattare cosa resta fra le macerie», che «il grano deve morire prima di diventare un tozzo di pane». Pierre (citando Gide) le chiede di rimando: «E se il grano non muore?». Colette risponde che allora ci si dovrà accontentare «degli avanzi della sera prima». Sta qui, forse, la risposta alla tua domanda. Il presente scivola presto via e si fa futuro per diventare passato. Ed è il passato che rimane, solo che non possiamo sapere in che misura accadrà, non a priori. Non possiamo saperlo quando è ancora presente ma non si è ancora fatto futuro. Decidono il tempo e la distanza, il caso e le circostanze. Noi, come Pierre e Madame, per il momento possiamo solo scrivere, e come Pierre possiamo cercare di fare un buon uso della distanza e delle opportunità. Lui forse ci è riuscito, forse no, sicuramente non del tutto, e la sua sorte in quanto personaggio racconta questo tentativo. Il tentativo di dare valore alle macerie del futuro e non alle ossessioni, alle critiche e ai giochi di potere del presente, per quanto siano indispensabili anche loro. Forse purtroppo.



Vito di Battista è nato nel 1986 in un paese d’Abruzzo a trecento gradini sul mare e vive a Bologna. Nel 2012 è stato selezionato per il Cantiere di Scritture Giovani del Festivaletteratura di Mantova. Agente letterario, editor e traduttore, ha scritto su “Futura”, la newsletter del “Corriere della Sera”, e su “Nuovi Argomenti”. Il suo primo romanzo, uscito nel 2018, è L’ultima diva dice addio. 


domenica 6 ottobre 2024

"Via del popolo" Il cronometro di zio Nicola di Saverio La Ruina



Lamezia Terme, 5 ottobre 2024, Teatro Comunale Grandinetti, nell'ambito della rassegna "Calabria Teatro" con la direzione artistica di Nico Morelli e Diego Ruiz stasera Saverio La Ruina vincitore di 5 Premi UBU, l'ultimo, nel 2023, per il "Miglior nuovo testo italiano" proprio con "Via del Popolo"

Saverio La Ruina ci ha raccontato l'infanzia e l'adolescenza, ci ha raccontato Castrovillari e Via del popolo negli anni settanta, ci ha raccontato suo padre e suo madre, il bar e il futuro, la storia di tutti, la guerra, l'emigrazione, il '68, le canzoni.

Cosa ne faremo noi degli anni, ci chiediamo guidando verso casa con in testa il cronometro di zio Nicola in dono a Saverio che stasera sul palco del Teatro Grandinetti ha bloccato e poi sbloccato ogni qual volta voleva giocare la partita, le tante partite con cui si affronta la vita. Noi e il tempo, il tempo è il nostro mutamento individuale mentre intorno a noi muta il nostro quartiere, la città, le ideologie, la musica, il cinema.

Il tempo è il mutamento, partono gli zii per Rio de Janeiro, ne restano solo due o tre a Castrovillari, la città dove si erano spostati i sette fratelli La Ruina dai monti verso la pianura. Siamo negli anni settanta Saverio ha tredici anni e mentre il padre avvia il bar e compra casa e mentre il mondo sembra un’avventura, non sarà un’avventura ma una cosa tremendamente seria, il mutamento sembra essere una effervescenza.

Ripercorriamo con Saverio La Ruina dai suoi quattro anni ad oggi, nella quasi vicinanza d’età, i momenti salienti del nostro vissuto, il Living Teathre, la musica i Procol Harum A Whiter Shade of Pale, i Creedence Clearwater Revival, e nel buio sento sussurrare ancora quel tempo che vive nei gesti di Saverio.

Gli anni settanta scompaiono con la morte di Aldo Moro, con il sacrificio di Aldo Moro, agnello sacrificale offerto agli dei per consentire un regime sempre più disonesto. Una sconfitta irrimediabile. Morì un po’ tutto con Aldo Moro. Morì la fiducia nel sentirci decisivi.

E nel mentre Saverio cresce, dà il primo bacio e i genitori imbiancano e il padre una sera non torna più a casa. La mamma chiama Saverio preoccupata, il papà di Saverio ha 84 anni. Lo cercano, lo cercano ripercorrendo Via del Popolo, la via che poi finisce su via Roma, la via dove sta il Bar Rio, il bar dei ciuati, così era soprannominato il bar del papà di Saverio.

Ripercorriamo ogni attività commerciale su via del popolo, quando la via pulsava di vita, ed ora tutto viene relegato agli orridi centri commerciali, luoghi di non sense, ripercorriamo con in mano il cronometro di Saverio e partecipiamo alla sua ricerca, alla ricerca del padre, alla angoscia della madre.

Ma ritorneremo presto alla prima scena e dove stava Saverio nella prima scena? Stava nel cimitero a far visita ai morti, davanti alla lapide di chi non gli permetteva di poter assaggiare una pastarella, e quelle pastarelle negate restano nel languore della felicità assaggiata poi nelle tante paste offerte nel bar del Rio, continua in un dialogo con il suo papà, un dialogo che ancora un ultima domanda ci sta. Finisce Saverio il tempo della recita, nel mentre gli applausi, nel mentre la commozione, nel mentre e nel mutamento di un tempo che è già passato.


Ma cosa ne faremo noi di questi anni, aspettando Saverio per abbracciarlo come negli anni passati, abbracciando il passato, il presente e il mutamento, abbracciando il teatro amato amatissimo, il teatro vero

Ippolita Luzzo

venerdì 4 ottobre 2024

Ti guardo e non ti conosco


4 ottobre 2010

Ti guardo e non ti conosco


Una estraneità familiare come un tessuto, una trama che la moda fa riporre in uno scaffale. 

Ben conservato, ripiegato, al riparo dalla polvere, così ti ho conservato bene nella mia memoria, dove proteggo ricordi e attimi, pochi, sfuggenti.

“Non recidere forbice quel volto” implora Montale alla memoria. Non allontanare Euridice, ma già lei si allontana e lui, in quel caso è un lui, con la lira in mano, vede lei sempre più diafana, sempre più confusa, nelle tenebre dell’Ade. 

Eppure la storia era iniziata piena di speranza. Sì, c’era stato un dramma, una separazione, Orfeo era il più famoso musicista e poeta mai esistito, la mamma era Calliope musa della poesia! Quando suonava la lira dono di Apollo, tutto si placava. Innamorato della sua Euridice, la sposa, ma lei muore per il morso velenoso di un serpente, mentre fugge da un uomo che la voleva per sé. Orfeo non si rassegnò e con la sua lira scese nell’Ade per riprenderla. Gli dei, impietositi, daranno a lui un’altra opportunità, egli potrà condurre Euridice con sé, ma nel cammino non si dovrà voltare. Mai. Pena la perdita dell’amata per sempre. 

Tante le versioni di questo momento. La più struggente vede Euridice chiamare Orfeo e chiedere a lui – Perché non mi guardi? Sono forse ora brutta? Guardami – E lui non resiste, si gira e lei viene sospinta nel vortice dall’aria fredda dell’oltre tomba e capisce di perderlo definitivamente. Ringrazia questo amore che ora perde e porge la mano a stringere quella di lui ormai lontana. Chissà perché il dio comandò ad Orfeo di non girarsi, chissà perché gli chiese questa prova!

“Non recidere, forbice, quel volto, solo nella memoria che si sfolla, (non far del suo grande suo viso in ascolto la mia nebbia di sempre) Montale.

Montale, Orfeo e Euridice, per indugiare su un momento, su un tempo nuovo, nuovissimo, permeato da ricordi passati immaginati ma non vissuti. Un immaginario tanto forte da crearmi questa dolorosa sensazione di perdita. La forbice nella poesia è il tempo, nella realtà tutti noi agitiamo forbici più o meno taglienti, per recidere volti che un tempo erano a noi più cari della nostra stessa persona. Cari che hanno scelto altro, lontane dalle nostre cure, hanno preferito altre cure, hanno seguito un sentiero che a noi non è mai stato chiesto di percorrere.

Ippolita Luzzo 


ps foto di settembre 2024 a Sciabaca con Giovanna Villella 



 

Una bellissima mattina di sole


Una bellissima mattina di sole   3-12-2014 

Estate qui con foglie secche ingiallite da sole che lasciano stanche il ramo, oramai.

Estate qui con fiore rosso, ibisco del mio terrazzo, che in agosto non fiorì, essendo stato piovoso e inutile come ogni agosto che vivo, oramai.

Estate qui con i suoi sommari, con calendari scaduti di un anno che va incontro alla fine scaldando i rifiuti dei giorni finiti, oramai.

Estate forever senza averla vissuta, mancante di tanto eppure con bilancio positivo, esperienze e delusioni, ho perso ancora ma, oramai.

Estate che non finisce in un anno senza estate, piovve a luglio, il mare sporco, nemmeno profuma questo sole, oramai.

E state bravi tutti che poi se arriva inverno non ci lascia scampo, ora possiamo uscire e andare a spasso, non in centro occupato dagli intelligenti, solo in periferia, oramai

Anno nuovo

Un appuntamento da procrastinare ai primi botti dell’anno che non verrà

Estate per noi senza bagagli, senza partenze e senza arrivi, senza grigliate e senza cori, senza la noia della compagnia, oramai

Oggi e sempre resistenza, oramai 

Basta che ci sia il sole e tutto scalda anche i microfoni, le pinzillacchere, il mio libraio, i gruppi e le generazioni, oramai

Scaldati al sole tutti, care generazioni, come scaldatelli al finocchietto, oramai

Ippolita Luzzo

 

ps nella tenerezza verso ciò che si è scritto un tempo ci sta la rilettura a dieci anni da quel dì

Foto recentissima di domenica 29 ottobre 2014 al Palazzo Arnone in visita alla mostra Natura di Antonio Pujia Veneziano. Foto di Alberto Badolato.


venerdì 27 settembre 2024

La Benevolenza

 Mer, 24/07/2013 - 17:32 

Prima telefonata:- Scusami, potresti passare a prendermi per andare a mare?

I tuoi orari? Allora passi, vero?-

Io rispondo che per andare da lei dovrò risalire la città, lei invece non può scendere da me perché non sa far uscire la sua auto dal garage, io prometto che andrò e per due giorni risalgo e trascorro, a dir la verità,  due ore piacevoli con questa prof di italiano e latino, ormai in pensione e presidente di una associazione di cui faccio parte.

Seconda telefonata da un'altra referente di una associazione culturale:- A M. domani sera relazionerà Tizio, ti andrebbe sentirlo?- e dopo il mio assenso- allora puoi passare a prendermi domani sera?-

Qui io rispondo la verità, e cioè che di sera non so guidare e che certo mi piacerebbe, potrei portare la mia auto e lei guidare.

Risposta negativa, lei cercherà un passaggio altrove e di me non sa più che farsene.

Terza telefonata uguale.

Stessa richiesta stessa risposta  e ora che avranno trovato chi le porterà nessuno più mi chiederà se, nel caso ci sia un posto, io voglia andare.

 Mah!

Mi sforzo di non pensare a niente

l'unica volta che io chiesi un passaggio ad un'amica di mia sorella per una serata musicale lei, elegantemente, 

mi rispose:- Certo, sarò felice che tu venga, vieni, vieni, non hai una tua amica con cui venire?- ed io incassai e trovai un'amica che andai a prendere, allora guidacchiavo di sera, con molta paura.

La benevolenza sociale mi impedisce di pensar male ma io, giuro, non ho il brevetto di Autista, allora perché, ditemi perché, si ricordano di chiamare da me, ultimamente, stranamente, solo per non chiamare un taxi?

 

Ed ora scrivo e scrivo sì, autista no.

Non so guidare!


mercoledì 18 settembre 2024

Daniele Semeraro

"Daniele Semeraro nasce a Locorotondo nel Maggio del 1977. Vive a Martina Franca fino al 2012, quando si trasferisce a Firenze dove oggi risiede. 

Chitarrista autodidatta, grande appassionato di musica e letteratura, si affaccia al mondo della scrittura da cantautore. Compone brani musicali per sé e per altri e nel 2008 si avvicina alla scrittura in prosa." dalla sua biografia prendo le prime note. 


"Scrivere polvere", pubblicato nel 2011 dall'editore salentino Lupo,  il suo romanzo d'esordio. Accolto dalla critica come uno dei migliori esordi dell'anno, Scrivere polvere appare tra le nomination del Premio PubliaLibre come miglior romanzo di autore pugliese uscito in Italia nello stesso anno. 


A fine 2014 pubblica ancora con Lupo editore il romanzo Nel segno di caballero che si avvale di una nota di presentazione a cura di Shel Shapiro, storico leader del complesso dei Rokes.


Intanto, sempre nel 2014, partecipa alla terza edizione del Premio letterario La Giara indetto da Rai Eri.


L'inedito, "Nà jé m'/Non è adesso, si aggiudica la Giara di bronzo. La premiazione condotta da Giancarlo Magalli viene trasmessa a Luglio in diretta su Rai Due ed il romanzo, con cui torna a narrare la sua Puglia, va in stampa con Rai Eri nell'aprile 2015.

Seguiranno Ana Macarena edito Castelvecchi Premio Presidi del libro "Alessandro Leogrande"  e L'ultima perla del filo

La perfezione della solitudine è il sesto romanzo di Daniele e tratta del periodo storico dalla costruzione del muro alla caduta del muro di Berlino, dalla pandemia al 2029 in salti temporali dal passato al futuro prossimo. 

Nei miei precedenti pezzi su Daniele, presenti in questo blog, scrivevo 

"Un inizio non più nella polvere ma nel foglio, nel libro che apparterrà ai lettori, che leggeranno tutto quello che una sbadata scopa portò via da sotto il tavolo di tutti noi.  

"Una lunga strada di racconti davanti a lui"

Leggendo La perfezione della solitudine:

"Il colore rosa, l'azzurro, il blu elettrico e il giallo acceso delle copertine degli album glam del Duca Bianco e dei T-Rex sembrano tonalità provenienti da un altro pianeta."

C'è tanta musica in questo libro, ci sono le band del 1974, la storia dei Klaus Renft Combo e dopo essersi sciolti Klaus sarebbe scappato a Ovest mentre gli altri sarebbero rimasti nella Germania dell'Est. La Rock band più ribelle della Germania. 

La musica apre mente e conoscenza, scrive Daniele Semeraro, ricordando questo gruppo che lavorava sugli spezzoni di registrazioni fortuite, ciò che riusciva a captare dalle radio dell'Ovest, testi dei Pink Floyd, degli Stones, testi che poi assemblava e dava vita ad altri pezzi, di ribellione, di derisione al potere.  E poi in quegli anni in Inghilterra un musicista poliomielitico Ian Dury guariva dalla solitudine e dall'invalidità attraverso la musica. 

I Klaus Renft Combo furono costretti a sciogliersi ma rimasero una leggenda, e stiamo qui insieme a Daniele ad accarezzare loro e insieme le copertine degli album dei Ramones, dei Who, dei Sex Pistols, dei Led Zeppelin. 

Pur nella ricostruzione precisa di momenti storici terribili lo scrittore trova il varco della musica per dare un senso ad avvenimenti ingiusti, a torture e a carcere, a privazione della libertà da parte di un potere bieco. Ad un certo punto troviamo il canto di Neil Young After Berlin e con lui vi rimando alla lettura del libro di Daniele Semeraro

"Proprio come un ragazzino che corre per strada

Canto la stessa vecchia canzone

Non posso tornare da dove sono partito

La strada va sempre avanti
Mi aiuterai, mi aiuterai, mi aiuterai, mi aiuterai
Mi aiuterai, mi aiuterai, mi aiuterai, mi aiuterai
A tornare verso casa?
Aiutami a tornare verso casa
Dopo Berlino 

Ippolita Luzzo 

sabato 14 settembre 2024

I fuochi Saverio Fontana

 

I fuochi, racconto di Saverio Fontana, è ambientato in un quartiere della periferia di Catanzaro.  Un quartiere di difficile abitabilità e pur nella diversità lo sento vicino ad alcuni quartieri di moltissime città italiane, dove il degrado impera,. Conosco Saverio Fontana e so con quanta serietà e con quanta preparazione lui  affronti ogni argomento e situazione.  Un quartiere di difficile abitabilità e pur nella diversità lo sento vicino ad alcuni quartieri di moltissime città italiane, dove il degrado impera.  Saverio Fontana, pur nella reale e difficile analisi del luogo e della sofferenza, lascia sempre spazio alla speranza credendoci in prima persona. Qui la storia ruota intorno a un gruppo di ragazzi che vorrebbero rendere redimibile il vivere e vorrebbero portare a termine un progetto con l'aiuto di Don Nino, il prete del quartiere. Saverio Fontana, pur nella reale e difficile analisi del luogo e della sofferenza, lascia sempre spazio alla speranza credendoci in prima persona. 

Un libro come possibilità di riscatto, come luce che si accende su tanti, troppi quartieri dormitorio, periferici e abbandonati, un libro come anche un film , ricordo le belle iniziative di portare in questi luoghi maxischermi e fare rassegne cinematografiche, iniziative che servono come denuncia all'aberrazione creata da politiche terribilmente miopi che negli anni lasciato sedimentare il male di vivere. I fuochi che si accendono ne sono la visibile realtà, d'altronde io abito vicino il più grande Campo Rom del meridione e di fuochi e diossina sono impregnati i nostri bronchi essendo esposti al continuo bruciare come smaltimento delle gomme delle auto. 

Un plauso dunque a Saverio per la sua sensibilità e attenzione da tutta la Litweb 

Ippolita Luzzo 

mercoledì 4 settembre 2024

Il carcere chiamato matrimonio




Il carcere e la cuccia, pezzo del 2011

Quelle unioni chiamate matrimonio

La bugia come finzione in due

La vedo palpabile sul viso di una lei, che ingurgitando corna su corna manifeste, coram populo, diventa malvagità e malizia nei confronti di altra donna, solitaria e sorridente.

Ucciderebbe l’altra, la sporcherebbe, per il solo motivo che l’altra le ricorda quello che lei non saprebbe mai essere. Libera.

Carcere e cuccia i matrimoni di molti, per esseri infelici e teatranti, un tirare a campare con obblighi e appuntamenti.  I vostri raduni ai matrimoni altrui, della zia, della cugina, del vostro mondo mondano. I battesimi e le comunioni, le feste di laurea, i compleanni, poi la sfilata forse ci sta. 

Al braccio portate un vostro ninnolo, marito o moglie, per l’occasione, lui intanto sacramenta oppure occhieggia, l’altra vorrebbe essere lontana da lì.

Chissà perché poi si chiami tutto questo-Stare insieme- 

Vite tagliate- scrive Maria Gabriella De Santis, vite bugiarde, che tradiscono certo perché è umano tradire, nessuno può stare per sempre immobile  su un sentimento che è movimento, su un desiderio che padroni non ha.

Vite tagliate con un coltello che mozzi la testa e il pensiero, che scolleghi per sempre il vero dal falso, che uccida quella fiducia che in noi sta.

Carcere e cuccia diventa una casa, dovere e peso sono i figli, da coccolare e da torturare, per fare scontare proprio ai più piccoli di esser la causa della prigionia.

Vite tagliate vissute osservando con  vera malvagità chi si ritaglia in solitudine un vero momento di libertà. Quella verità che il tradimento mai vi darà.

Ippolita luzzo

Pezzi dal passato 


 

sabato 31 agosto 2024

La beffa dei funerali

 


Ai funerali di mia madre tutta la Chiesa del Convento di Sant'Sant'Antonio era affollata di gente accorsa per essere presente alle esequie. Parenti delle più lontane contrade, vicini di casa e lontani vicini di casa, conoscenti e amici nuovi o non più nuovi, storici, insomma moltissime persone beneducate vennero, ci salutarono sulla porta della chiesa prima e dopo la funzione e poi sparirono. 

Mai visti durante tutti gli anni in cui mia madre non poteva uscire più, mai visti nonostante mamma ne desiderasse la presenza, mai visti dopo, quando il vuoto dell'assenza di mia madre avrebbe in un certo qual modo suggerito loro un minimo di afflato umano. 

Mi chiedo spesso il perché siano venuti al funerale, mi chiedo spesso a cosa serva questa recita a soggetto, un rito privo di ogni fratellanza, uno stringere le mani e dirsi condoglianze

Condoglianze di che? con chi si sono condogliati costoro e per quanto tempo, per il tempo che durò la messa. 

Sono sempre più lontana da queste pantomime che mi sembrano anche offensive, residui ormai di tempi trascorsi quando il lutto si protraeva in qualche chiacchierata in casa del defunto, quando ancora esistevano le visite ai parenti. 

Nella dissoluzione di ogni arcaico simbolo del passato anche il funerale divenne una beffa, e recentemente un funerale di un giovane uomo fu celebrato con palloncini lanciati in cielo, con una coreografia ormai simile in battesimi matrimoni e compleanni. 

Sono rimasti i palloncini bianchi blu a librarsi in cielo, in volo su e più su, un palloncino e via, poi questi scoppieranno e ricadranno giù come una pezza slabbrata, sporcando inevitabilmente il tutto 

Ippolita Luzzo     

venerdì 23 agosto 2024

Quel lunghissimo gambo di rosa di Franco Costabile


Oggi entriamo ufficialmente sotto il segno della Vergine, il segno zodiacale mio e di Franco Costabile, essendo lui nato il 27 agosto del 1924 ed io il 13 settembre del '54.
Ricorre questo anno il centenario della nascita di un poeta morto a Roma per suo volere il 14 aprile del 1965, ricorre il centenario e pertanto nella sua città di nascita si è costituito un comitato affinché si organizzino eventi in suo ricordo.

La casa editrice Rubbettino ha pubblicato questo anno il volume La rosa nel bicchiere, tutte le poesie di Franco Costabile con prefazione di Aldo Nove e poesie disperse e nota biografica a cura di Giovanni Mazzei

Dice Aldo Nove nella sua prefazione «…la perdita di un mondo che progressivamente Costabile ci racconta ha certo la Calabria come punto di vista, come indissolubile legame natale, ma che si sposta lungo l’asse di un intero continente ed oltre, fino a raccogliere nel proprio respiro preciso e affannoso l’intero mondo e i suoi prometeici errori di prospettiva»

 Durante questo anno molti studiosi o anche semplici lettori si sono applicati con esiti più o meno accettabili a produrre opere che fossero attestati di stima nei riguardi del poeta e alcuni con esiti esilaranti altri con esiti quasi offensivi verso il poeta stesso, rimpicciolito e ricondotto a poeta locale, quando lui dal suo paese ne conservava solo l'eco dell'ingiustizia, della povertà, delle offese. 

Aveva il poeta altri grandi amici poeti che lo stimavano, da Felice Mastroianni a Pina Majone Mauro, ed io ho avuto il piacere di sentire sia da Pina che da Serenella Mastroianni, nipote di Felice, testimonianze dirette sulla vita di un poeta che abitava a Roma, insegnava a Roma, aveva le sue amicizie a Roma e scriveva su importanti riviste letterarie romane e nazionali. 

Ritrovo dal 2015 ma risale ancora prima un mio appunto su una conversazione con Serenella Mastroianni. Lei mi raccontava che Costabile rideva spesso quando insieme allo zio passeggiavano. Era una risata sopra le righe, a volta sciocca, una risata di commento, a volte stridula. "Come la tua" aggiungeva la mia amica Serenella. Ed io capivo perfettamente cosa lei volesse dire, cosa Costabile volesse esprimere con questa risata nella quale è racchiuso tutto lo sconcerto di alcune situazioni, di alcuni rapporti, di un vivere che acchiapparlo non puoi perché fugge da tutte le parti, di esseri umani pavidi e aggressivi che alzano la voce per imporre scemenze abissali contro i quali, contro le quali, solo ridere noi possiamo. 

Oggi lui, proprio per questa comunanza di amorosi sensi, come direbbe Foscolo, e forte di questa comunanza di risata, mi consegna una rosa dal gambo lungo, lunghissimo, pieno di spine, un gambo con cui fustigare tutti coloro che in occasione del centenario vorrebbero ridurre il poeta ad un pupazzo, ad un raccoglitore di rose e garofani, ad un poeta ad uso e consumo locale di vino, di pasta, di affettati e mettiamo pure qualche rutto via. 

Lui mi consegna il gambo e mi dice di essere decisa e di continuare a fustigare fino al silenzio fino al modo di essere lui libero da ogni ricordo https://fb.watch/u86IknfWrP/

Ippolita Luzzo


Quadro di Amedeo de Benedictis nel Regno della Litweb   

 

martedì 13 agosto 2024

Aveva le mani d'oro L'omaggio a Peppino Leo


 Sono qui con accanto un gioiello, un omaggio in oro purissimo, già la copertina è realizzata a mano con un allestimento bodoniano, un metodo di rilegatura antico e la carta crespa riveste il dorso. Infatti  oro è la carta Fedrigoni Sirio Perla Aurum 300gr che conferisce al tutto un effetto dorato e luminoso, proprio dell’oggetto prezioso. 

É un libro donatomi da Emilio Leo, dopo una serata ospiti del Lanificio Leo a parlare di un altro libro altrettanto unico e inusuale: Della morte non puoi parlarne, o della gioia di Alessandro Chidichimo.

 Aveva le mani d’oro, il libro nasce dall'amicizia fra Emilio Leo e Prashanth Cattaneo che ne ha curato la pubblicazione, con interviste, storia e le biografie dei protagonisti, edita da Rubbettino editore e stampata in Rubbettino print, nel 2022, nel centenario della nascita di Peppino Leo. Un libro 10,5×14,8, un formato che si tiene in una mano come un piccolo oggetto prezioso, un gioiello.

 Aveva le mani d'oro nasce come progetto di arte e design dall’incontro tra l’artista Pino Deodato e la storia di Giuseppe Leo detto Peppino, nato nel 1922, imprenditore che ha dedicato la sua vita al lanificio di famiglia 

Pino Deodato ha dipinto un’opera che raffigura Giuseppe Leo nella gestualità rituale del filare e del tessere che ha ricordato fino agli ultimi giorni della sua vita quasi centenaria. 

L’opera è stata poi riprodotta dal figlio di Peppino, Emilio Salvatore Leo – attuale proprietario e direttore creativo del Lanificio Leo – su un copricuscino per l’area living della casa usando una tecnica di maglieria jacquard. La Galleria Melesi di Lecco ne ha creato un’esposizione

Ma ritorniamo al libro, all'interno  in carta smooth, tutto sembra carezzevole e già si vuol bene a ciò che leggeremo, a ciò che vedremo, fotografie delle opere create da Pino Deodato, fotografie di Peppino Leo accanto ai suoi telai, le mani di Peppino ed Emilio fra innovazione e conservazione. 

La storia del Lanificio Leo, fondata nel 1873 a Carlopoli da Antonio Leo e nel 1935 trasferita a Soveria Mannelli da Emilio Leo, il nonno dell'attuale proprietario. Il luogo è diventato un museo dinamico, e nel 1997 fino al 2007 ha ospitato Dinamismi Museali. Festival di Pensiero Contemporaneo. Il festival  è giunto alla finale del Premio Guggengheim ed ha vinto il premio Cultura di Gestione di Federculture.

 Nel 2008 Emilio Leo e i suoi collaboratori riattivano con macchinari di nuova generazione il parco macchine storico rinnovando la tradizione dell'azienda con il design.

Nel libro vi è l'intervista ad Emilio Leo, che vi invito a cercare, a leggere e che si conclude con l'augurio per tutti di "costruire delle cose" essere felici di ciò che si può fare. Un po'  il concetto di Epitteto, lo stoico citato durante il nostro incontro, su ciò che possiamo con la nostra volontà e su ciò che non riguarda la nostra volontà. 

Vorrei anch'io finire questo mio pezzo riassuntivo con il pensiero di Ettore Sottsass, riportato da Prashanth Cattaneo nell'introduzione, che coincide con il modo di pensare di Peppino Leo, la vita coincide con il mestiere che si svolge, unito alle persone che si amano e all'essere contenti. 

"Io sono rimasto con questa idea: l'idea che si può identificare l'esistenza passando il tempo a immaginare un ambiente artificiale, immaginarlo con tutto quello che può aiutare me e gli altri a vivere, a ritrovarsi, a disegnarsi, a mostrarsi al mondo e poi, più o meno, per quanto si può, a essere contenti"

E dal regno immaginario della Litweb, un'astrazione mentale che ha reso possibile creazione e incontri, non si può che essere d'accordo con Peppino, con Emilio, con Ettore Sottsass e con Epitteto.

Ippolita Luzzo 

 


 


.

sabato 3 agosto 2024

Non muoio neanche se mi ammazzano di Letizia Cuzzola

 


Letizia Cuzzola in “Non muoio neanche se mi ammazzano” riprende il titolo della biografia di Giovannino Guareschi  e ricostruisce la storia del nonno Vittorio e di 650 mila uomini prigionieri nei campi di concentramento in Germania. Il libro nato da una documentata ricerca, restituisce un pezzo di storia italiana rimossa: quella degli IMI (Militari Italiani Internati) che dopo la firma dell'Armistizio furono fatti prigionieri dai nazisti e internati nei campi di prigionia. Uno di questi soldati era Vittorio Cuppari, nonno di Letizia

 Nelle diverse interviste rilasciate  Letizia racconta: “Stavo scrivendo un altro libro e per caso ho ritrovato l’Arbeitsbucher di mio nonno, Vittorio Cuppari. In famiglia sapevamo che era stato prigioniero durante la Seconda guerra mondiale ma ne ignoravamo i dettagli. Ho iniziato ad approfondire più per curiosità che per altro. Poi ho trovato il libretto di lavoro del nonno in Germania e episodi mai   menzionati dalla Storia ufficiale mi hanno portato a chiedere informazioni in decine di Archivi di Stato, a partire da quello di Reggio Calabria a finire al Museo dell’Olocausto di Los Angeles, passando per il Bundesarchiv di Berlino e le Nazioni Unite a New York. Man mano documento dopo documento si raccontava una storia diversa da quella studiata a scuola. C’erano 650mila uomini che, quando Badoglio annunciò l’Armistizio, erano schierati sui confini esteri e vennero catturati dai Nazisti restando prigionieri per due anni nei campi di concentramento in Germania, ma che sfuggivano agli elenchi ufficiali per un accordo fra Hitler e Mussolini, e mio nonno era uno di questi. Con quell’accordo erano stati classificati non come prigionieri di guerra – quindi “tutelati” dalla Convenzione di Ginevra del 1929 –, ma come Internati Militari Italiani. Erano sospesi in questa condizione e spesso venivano chiamati a rispondere all’offerta di passare fra le fila dell’esercito tedesco o della Repubblica di Salò, ma per due anni risposero un no netto, senza ripensamenti, pur sapendo che avrebbe significato restare in campo di concentramento con tutte le conseguenze del caso. Subirono l’isolamento, le torture, i lavori forzati pur di restare fedeli alla divisa che indossavano». 

A Letizia il nonno le ha suggerito cosa e come scrivere, dove trovare i documenti, dove le testimonianze, così com’è successo a Raffaele Mangano col suo amico Leone nel libro La riga sulla emme, così come è successo ad Emanuele Trevi con Due vite, la vita di Rocco Carbone, di Pia Peri. Succede qualche volta che la scrittura diventi quello strumento per aprire la porta fra i viventi e chi non c’è più. La scrittura come opportunità per continuare a vivere qui, conoscendo la vicenda umana universale del nonno di Letizia Cuzzola.     

 Anche lo scrittore Guareschi fu uno di questi soldati italiani e lui poi raccontò che era stato fatto prigioniero dai tedeschi dopo l'otto settembre e marciava incolonnato, affamato e straccione in un' oscura landa polacca. Ai bordi della strada c'era una mamma con un bambino piccolo che stava mangiando una mela. Incoraggiato dalla madre il bimbo si diresse verso questi poveracci ed offrì la mela proprio a Guareschi che prendendola in mano vide i segni dei dentini sul frutto e gli venne in mente suo figlio, anche lui piccolissimo e, scacciando i pensieri di morte che attanagliavano ognuno di questi disgraziati, disse "non muoio neanche se mi ammazzano". 

Questa è la paternità.

Accurata ricostruzione storica, come se il nonno vivo accanto a lei le raccontasse, e anche l'autrice conferma di aver avuto la sensazione di essere un tramite. 

Un libro da amare

Ippolita Luzzo 



venerdì 2 agosto 2024

Nella libertà di lettura

 




Biografia 2024 Nella libertà di lettura.

Ippolita Luzzo, laureata in filosofia con tesi su Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà. 

Da giugno 2012 scrive sul blog “Il Regno della Litweb di Ippolita Luzzo” quasi un giornale di cui lei è editorialista, direttrice e cronista. Col suo blog indaga e legge ogni momento letterario ed artistico per lei autentico interpretando in modo originale il senso del testo.
Ha vinto il premio Parole Erranti il 5 agosto 2013 a Cropani, nell’ambito dei Poeti a duello, X Festivaletteratura della Calabria.

Nel 2016 ha vinto il concorso “Blog e Circoli letterari” indetto da Radio Libri nell’ambito di Più Libri più liberi al Palazzo dei Congressi a Roma.
Nel  2017  e 2018 fa parte della giuria del Premio Brancati.
Il 6 ottobre 2018 vince il Premio Comisso #15righe, dedicato alle migliori recensioni dei libri finalisti.
Sempre ad ottobre 2018 il suo blog è stato inserito dal sito Correzione di Bozze fra i Lit-blog e le riviste online nazionali che si occupano di letteratura.
Fa parte, fin dal primo momento, della giuria scelta per la Classifica di Qualità dalla rivista L’Indiscreto.
Dal 2019 fino al 2023  Il Regno della Litweb collabora con Il Premio Comisso 15 Righe nella giuria di valutazione delle recensioni sui libri in concorso.

Nel 2021 è Presidente di giuria del concorso Sperimentare il Sud 

Dal  2022 è in giuria nel Premio Malerba

Collabora come giurata al Premio Muricello e al Premio Nautilus

 Nel 2023 riceve il premio alla cultura per la divulgazione letteraria nella  prima edizione del premio nazionale di poesia “Calabria – Veneto” a Civita CS



Ha pubblicato con la Casa Editrice Città del Sole Pezzi dal regno della Litweb nel 2018, la Dareide nel 2020, Il primo pezzo non si scorda mai nel 2022
Scrive su giornali e riviste on line e cartacei.
Molti suoi pezzi stanno nelle cartellette degli autori che, fidandosi, le mandano i loro scritti.
Nella libertà di lettura.

Ippolita Luzzo 

sabato 20 luglio 2024

La storia dei Ferrise e della gassosa al caffè

18 marzo 2011


La storia dei Ferrise e della loro fabbrica

Una saga, un romanzo che risale alla fine del 1800.

Una famiglia numerosa, due maschi  Bruno e Vincenzo, tre femmine.

Bruno nato nel 1870 e Giovanna Provenzano nata nel 1893 si sposano nel 1912.

Vincenzo, il fratello piccolo è andato a lavorare fuori, a Portici, vicino Napoli e da lì era ritornato a  Nicastro.

Vincenzo porta con sé una nuova bevanda al caffè, gassata, contenuta in una bottiglia con la pallina. Con questa nuova idea mette su nel 1904 una piccola fabbrica nel Largo Angotti. Lavoravano tutti lì, la fabbrica è a conduzione familiare, Bruno Ferrise e Giovanni Torchia, marito di una sorella di Bruno, ed il piccolo Pietro De Sarro, figlio di un’altra sorella il cui marito era emigrato in America.

Bruno Ferrise morirà giovane nel 1919, per un tumore in bocca, dopo essere stato più volte operato a Napoli dal chirurgo Dattilo, di origini lamettine e parente quindi del nostro Don Vittorio Dattilo.

Bruno lascia la moglie Giovanna di appena venticinque anni con due figli piccoli e uno ancora in grembo. Bruno o Ninnuzzo, come familiarmente verrà chiamato poi, nascerà quaranta giorni dopo la morte del papà .Le famiglie vivevano allora tutti insieme. Tutti sotto lo stesso tetto. Tutti in pochi spazi. Sembrerebbe assurdo oggi che case ampie e comode non bastano a pochi e scontrosi abitanti.

Nel 1936 la fabbrica si trasferisce nei magazzini comprati da Vincenzo Ferrise dal barone Stocco, siti nell’omonima piazza Stocco ora Via San Giovanni. 

Avevano un casale a tre piani con un giardino sul fiume .La casa risuonava nella sua infanzia del suono del pianoforte comprato dal papà a Napoli per far studiare musica ai ragazzi. Un papà che amava leggere e ascoltare musica.

Vincenzo, rimasto vedovo nel 1927 di Consolatina Fedele ed avendo perso anche il figlio morto appena nato, abitava con una signora che badava alla casa. Da lei ebbe tre figli che poi ebbero tutti il suo cognome 

 Nel 1942 sposa la vedova del fratello la signora Giovanna Provenzano. Una donna energica, una donna capace di affrontare e risolvere le tante traversie della vita inventandosi di volta in volta un lavoro per tenere con dignità e coraggio la sua famiglia. Il telaio le aveva permesso prima di essere autonoma ora lavorerà nei locali della fabbrica Ferrise e gestirà una trattoria adiacente e di loro proprietà. Sempre  lei sarà vista come il punto di riferimento per parenti e nipoti. 

Eredi della fabbrica alla morte di Vincenzo resteranno i tre fratelli: Vincenzo, Domenico e Ninnuzzo, figli di Bruno insieme con Domenico, Mimì, figlio dello zio Vincenzo, che rimane proprietario degli immobili.

Nel 1962-3, poiché Mimì si dissocia e disdice il contratto di fitto ai cugini, la fabbrica si sposta in via San Giovanni, dove ora vi è un negozio di mobili.

Chiamato mastro Giuseppe Dattilo i locali verranno restaurati e all’inaugurazione ci sarà la benedizione per mano del vescovo Moietta, il vescovo che nella sua brevissima ma intensa permanenza a Nicastro ha suscitato col suo amore e con la sua parola entusiasmo e calore nella popolazione.

Era l’aprile del '61, e lui  giovane e fiducioso, veniva accolto nella nostra città in festa. 

Sembra vederla la folla in piazza Bovio, in via San Giovanni, i macchinari lucidi, il nastro trasportatore dove le bottiglie capovolte venivano fissate su dei perni e poi in fila venivano lavate, la spuma, la nuova bevanda che Vincenzo, ora di 94 anni e sempre in gamba, preparava.

Quando Vincenzo, ora è lui che racconta, preparava insieme al fratello Bruno, lo zucchero caramellato che dava sapore, colore e schiuma alla gazzosa, e litri e litri di caffè alla napoletana per la gazzosa al caffè, via San Giovanni, Largo Angotti, Via Indipendenza, profumavano di caffè.

Accanto  vi era il bar dei Ferrise, gestito da Domenico, ed ora dal fratello Battista, tuttora il punto di ritrovo imprescindibile per tanti, per molti altri durante la tredicina di Sant’Antonio. La piazza antistante pulsava di vita energizzata dall’aroma del caffè. Si racconta che l’aroma era così forte da creare in una signora che abitava di fronte vere tachicardie, eccitazioni del cuore troppo forti, una patologia causata da un profumo inebriante. Quasi un luogo arabo.

Poi la tredicina, terminava con la processione di Sant’Antonio, il Santo, allora ed ora, si fermava in via San Giovanni, entrava nella fabbrica che non c’è più e lì veniva incoronato, i portantini venivano dissetati per primi e poi bevande per tutti, lo spumone usciva a fiotti dai sifoni per la banda, i fedeli, le autorità. Una festa di popolo.

Nel 1977 la fabbrica Ferrise chiuse e consegnò i suoi  macchinari antichi, un salmatore a colonna, un tiraggio riempimento sifone, un tiraggio riempimento meccanico, al museo delle arti, che allora era in piazza Bovio, una volta piazza Mercato, la piazza delle terrecotte.

Ora i nostri ragazzi ritornano spesso in questa piazza e si riuniscono, ascoltano musica, chiacchierano e di nuovo nell’aria vibrazioni  di vita cittadina.

Intanto la storia della gazzosa continuava con un'altra ditta, La De Sarro&Torchia che ormai non c'è più

Ippolita Luzzo 


venerdì 21 giugno 2024

Andrea Caterini Sparring Partner


Il termine a che fare con il pugilato e trovo conferma nel significato "compagno [partner] di allenamento» [sparring, gerundio di to spar «allenarsi nel pugilato»]), pugile che allena un altro pugile boxando con lui. 
Il protagonista sceglie di ritornare nella palestra frequentata da ragazzo in un momento della sua vita di "stagnazione". Succede a tutti di non avere più sicurezze, succede a tutti di sentirsi senza entusiasmo e decidere di andarsene nel paese, nel quartiere cercando una "resurrezione della carne." una resurrezione. 

Ritorna in cantina a prendere la borsa di un tempo, i guantoni Leone, e ritrova in palestra Alberto che lo abbraccia. Ormai Alberto è diventato un maestro però sempre guarda al suo amico ritrovato come un fratello.

 Il ritorno nella seconda ripresa: lui guarda nel tempo come l'allenamento rimetta in tono il fisico, e ora sente Alberto chiedergli di aiutare i ragazzi della palestra, di essere il loro sparring partner. Aveva accettato e da quella sera era cambiato tutto. 

Memorie di un uomo attraverso il ring, si racconta lo scioglimento di un nodo, una trasformazione, la nuova vita. Arriverà una nuova allieva, arriverà dai boschi del Carso ma io non vi racconterò altro per non sciupare la bella lettura di questo libro pensoso e riflessivo, di questa storia raccontata in prima persona, con grande partecipazione trasmessa a noi lettori. 

Riesce questo libro a farmi sedere di nuovo al computer, dopo tanto tempo che non scrivo, riesce anche a farmi combattere il mio momento di stagnazione e mi scuote spingendomi a cercare anch'io quella valigia di fogli, nel mio caso, abbandonati. Una vera malia. 

Andrea Caterini pubblica per S-Confini Sparring Partner, una collana di letteratura ibrida diretta da Fabrizio Coscia per Editoriale Scientifica.

 Sono libri di memorie, tra il diario e il reportage, ma sembrano ben interpretare quella commistione di genere di questi nostri tempi. 

"La nona ripresa ci si gioca la vita," voglio rileggermi il momento in cui non si sente la fatica, in cui sentiamo tutti la possibilità di farcela. 

Una scrittura limpida e avvolgente vi prenderà e vi farà salire sul ring della vita.

 Ringraziando Andrea Caterini, a lui gli applausi di tutta la Litweb 

Ippolita Luzzo 


Andrea Caterini (Roma, 1981), è scrittore e critico letterario. Ha pubblicato diversi romanzi, tra cui Giordano (Fazi, 2014, Premio Volponi) e Vita di un romanzo (Castelvecchi, 2018). Tra i saggi si ricordano La preghiera della letteratura (Fazi, 2016, Premio Prata per la Saggistica), Ritratti e paesaggi. Il romanzo moderno (Castelvecchi, 2019, Premio Città delle Rose per la Saggistica) e L’oblio della figura. Nella stanza di Giorgio Morandi (Sillabe, 2020). Il suo ultimo libro è Ritorno in Italia (Vallecchi, 2022). Ha introdotto numerosi autori europei dell’Ottocento e del Novecento: Henry James, Marcel Proust, Virginia Woolf, Hermann Broch, Irène Némirovsky, Joseph Roth. Ha inoltre commentato Il sogno di un uomo ridicolo di Fëdor Dostoevskij (Ianieri, 2015). Nel 2018 gli è stato assegnato il Premio Bonura per la Critica Militante Under 40. Lavora come autore Rai di programmi di viaggio.


venerdì 14 giugno 2024

Lidia Popolano su Pezzi nel 2020


Lei lo chiama zibaldone, nel linguaggio arcaico una vivanda composta da svariati ingredienti, una costante nella cucina povera di tutti i Paesi; nel linguaggio letterario invece un quaderno di appunti e abbozzi riportati senza ordine.


È entrambe le cose, Pezzi di Ippolita Luzzo. Vi compaiono in ordine casuale frammenti di riflessioni filosofiche, filastrocche, considerazioni sulle cosiddette giornate europee o mondiali dedicate all’amicizia o ad altre ricorrenze, tra queste inserirei anche il Pezzo sul Natale, anche se questo non è il suo titolo. E ancora, poesie, citazioni e recensioni. Ogni appunto riporta la data e questo aiuta ad orientarsi per caratterizzare quel frammento. A volte si tratta di episodi di vita comune, incontri, pomeriggi con amiche o con la sorella, si tratta di telefonate a conoscenze o a vecchie amicizie. C’è anche un fantasma di uomo, seduto accanto al posto di guida ad ascoltare le vicende letterarie di Ippolita o in casa a gustare un caffè virtuale di cui sembra persino di sentire l’odore.


Ma tutto questo mondo, questi tratti di penna, ricopiati al computer, non sono più frammenti, non sono più piccoli cenni sonori di uno strumento che viene accordato, sono una sinfonia potente, sono una sonata di organo in una cattedrale, se hai avuto la fortuna di entrare nel mondo di questa piccola donna, fortissima e delicata a un tempo, se hai attraversato le stanze di quel suo castello fatto di ambienti, ma più ancora di disimpegni. Se sei passato per quelle scale dove filtra il sole e illumina il quadro donato dall’artista che con quel dono ha dato valore al suo apprezzamento o la cesta colma di buste gialle che hanno contenuto i libri che le sono stati spediti in lettura. Sono buste flosce o strappate, impossibili da riusare, impossibili da cestinare. Sono lì perché buttarle sarebbe perdere la traccia della trepidazione con cui sono state riempite con il libro o il faldone della bozza, con cui sono state incollate e lasciate sul desk dello sportello postale, là dove era impossibile ritirarle una volta trovato il coraggio di spedirle. E poi i libri e la memoria degli incontri e dei pasti cucinati e consumati con gli amici, delle serate con le guance arrossate e gli occhi lucidi nella scoperta incredula che l’amicizia esiste, che l’amore esiste e illuminano la vita anche quando hanno breve durata.


Questo, tutto questo non sarebbe stato evidente per me se non avessi avuto l’immensa fortuna di entrare nella dimora di famiglia e di stringere la mano della dolce madre. Ah, gli occhi di una madre posati sui tuoi per leggere il tuo affetto per la figlia! Ah, quale regalo prezioso e immortale, indispensabile per comprendere le parole amare che descrivono le donne del sud che hanno visto rapinare la loro adolescenza e rinchiuderla in una vita di sacrificio, dono per eterni e irriconoscenti uomini-bambini, coccolati e viziati nella loro fragilità egoistica.


Questo, tutto questo non sarebbe stato evidente se non avessi visto un paese violentato, sventrato, artificiosamente assimilato a un’entità locale inesistente. Privato del suo nobile nome e con esso, della sua storia. Un paese che fa da sfondo a ogni amarezza e ogni sogno di riscatto della Calabria offesa e dimenticata anche nel presente. Persino nel presente.


Tutto questo non è uno zibaldone. Sarebbe uno scempio immaginare una raccolta “Pezzi due” con i frammenti scritti da Ippolita Luzzo dopo il 2018. Non è uno zibaldone, Pezzi. È un romanzo. È il romanzo di una vita dapprima dimenticata nella disillusione e poi ritrovata nella missione di tessitura del tessuto culturale di un popolo, senza occuparsi o preoccuparsi di darsene il merito. La tessitura di un ordito fine e robusto che non contempla definizioni strutturali, che non chiede riconoscimenti, che unisce in un canto ritmato e sonoro le voci di scrittori stimati e i loro lavori, nati da quelle buste gialle teneramente conservate. Un ordito che non ha volutamente cercato un’impossibile trama. Un romanzo senza trama.


Lei lo chiama zibaldone, ma per me Pezzi è un romanzo contemporaneo.

Pasquale Braschi scrive su Pezzi del Regno della Litweb


 Nel 2019 Pasquale Braschi scriveva: “Pezzi dal regno della Litweb” è una selezione sintetica dell’attività di redazione del blog di Ippolita Luzzo, dal 2012 (anno di inaugurazione, http://trollipp.blogspot.com/) al 2018 (anno di pubblicazione del libro, novembre per la precisione). 
Ippolita dal suo Regno in cui “non tramonta mai il sole” (p. 19) osserva questo nostro pazzo mondo, annota sensazioni e descrive tutto ciò che la sua anima vede. 
Il libro si apre con una dichiarazione in forma di poesia, “Io non sono una donna del sud” (p. 9). Una sorta di biglietto da visita con il quale Ippolita cerca di scrollarsi di dosso il peso della “donna del sud” che nell’immaginario collettivo è immersa in faccende domestiche, ivi compresi gli usi e le tradizioni contadine, dalla conserva di pomodori fatta in casa alla preparazione di insaccati e di formaggi. Un’ammissione di colpa (o di difetto) con cui si difende la propria diversità a scapito di pregiudizi di genere, senza prendere le distanze dalle proprie radici, e alla quale si aggiunge la convinzione che “È meglio scrivere che drogarsi” (p. 11), perché “Nel migliore dei mondi possibili non è facile essere una donna, un uomo pensante. Bisogna soltanto accettare il pensiero uguale, omologato, di tutti, di tanti” (p. 12). Troppe distrazioni ci allontanano dalle persone e non sempre ci accorgiamo dei cambiamenti di chi ci sta accanto.
 E così accade che “la donna vorrebbe essere guardata, la pettinatura, il nuovo rossetto, il modello alla moda, la sua borsetta. L’uomo nemmeno s’accorge se quella bipede ha un naso, una bocca, un incarnato perfetto” (p. 14). 
Queste pagine sono intrise di nostalgia, malinconia, persino di una sorta di rassegnazione che, anziché soccombere, resiste ai tempi delle facili illusioni. Per guarire da questo malessere generale Ippolita ha trovato la medicina non in farmacia ma nei libri. 
Tanti sono i libri in rassegna, così come sono tanti gli autori del presente e del passato che (ri)vivono in queste pagine con riflessioni personali e citazioni letterarie.
 “Certo è tutto un casino ma dappertutto si vive” (p. 49), grazie alla forza dei sentimenti, compreso l’Amore, nonostante il peso di “Tutte le assenze che ci mortificano” (p. 59).
 Assenze che, sempre più spesso, vengono celebrate nella “taberna scriptoria” (amori finiti, morte di un genitore o di un figlio) con la convinzione di “Affidare al libro l’eternità” (p. 84).
Una moda, quella di pubblicare libri, che passerà e si tornerà a fare centrini, bricolage “e poi la sera prenderete in mano un libro vero e leggerete. Oh Leggerete! Perché leggere tornerà di moda” (pp. 98-99). 
Una profezia che pare avverarsi con questo passaggio dal blog al libro. Con ironia, sarcasmo e soprattutto provocazione Il Regno della Litweb tenta di scuotere le coscienze assopite offrendo ai suoi lettori spunti di riflessione su diversi argomenti (la vita e la morte, l’amore e l’amicizia, la solitudine e l’abbandono, la salute e la malattia, i libri e gli autori). 
In altre parole Ippolita Luzzo condivide “pezzi” della sua vita, confermando di essere “la quintessenza femminea, fulminea, verace, pugnace” (p. 5). God save the Queen!

Pasquale Braschi 


mercoledì 1 maggio 2024

Primo Maggio 2020



 

Dal maggio 2016 un buon maggio 2020. 
Allora nel 2016 scrivevo: A trenta anni dal web e a quattro anni dal blog Il Regno della Litweb,

Internet compie trenta anni. Ha trasformato in maniera epocale abitudini, corrispondenze, conoscenze e letteratura. Ha facilitato contatti e permesso la creazione di un villaggio globale in continue connessioni.

Vedremo il sorgere del mondo nuovo noi che stiamo vivendo il finire di ciò che credevamo utile e necessario fino a trenta anni fa? Questo non so. Ho però chiaro che bisognerà adattare gli studi fatti e usarli come zattera anche nel mare di internet, che sembra titolata a dare tutto il conoscibile e può regalarci bufale assolute.

Internet, la rete delle opportunità e degli inganni.

Sto sui tasti da pochi anni, da sei o sette anni, ho fatto mail e guardato il mondo da uno schermo, e da quello schermo, dal web, continuo a guardare il mondo come va.

Gli studi classici e di filosofia mi hanno dato quella autonomia di pensiero per cui è difficile che mi lasci cooptare da ciò che non mi interessa e sono sempre rimasta con l'occhio attento su letture e letture. 

Sul web nasceva un nuovo modo di scrivere. Una interazione fra lo scritto e il lettore, un teatro vivente di battute e rimpianti, di liti e riappacificazioni.

Nasceva tutto ciò sui siti letterari, sui social, Facebook e Twitter, Google + e altre piattaforme varie.

Una vita squadernata su una finestra bianca.

La stampa ha la sua finestra online, i libri passano online, le merci, la musica, l'arte, il cinema, la politica, la guerra. 

Alcuni movimenti politici diventano forze parlamentari grazie alla rete. 

A me è stato regalato un regno.

Dal giugno del 2012 scrivo su Litweb pezzi corti, il mio sguardo dal web sul web ed, incredibile ma vero, il web risponde. 

Meglio che ad Emily Dickinson

Mi sono così letta libri su libri, ho visto film e dipinti, sempre con quella autonomia di pensiero che è frutto di una formazione classica alla quale non si può rinunciare se si vorrà essere liberi di avere un metodo e dei criteri su quali basare un giudizio.

Un giudizio libero da compiacente rassegnazione all'andazzo dei tempi. Tempi di spietati e lecchini, tempi di conformismo storico ed individuale che, una scarsa preparazione in moltissimi, rende tutti dubbiosi e pronti a scartare chi è bravo davvero ed omaggiare chi possa poi esser utile.

Disdegnando un mondo siffatto faccio i miei auguri alla maturità di Internet, trenta anni vuol dire età adulta, augurando che dallo schermo  nuovi regni liberi si costituiscano. Con la  parola libertà che vuol dire relazione individuale. 

DOMENICA 1 MAGGIO 2016

Libero scrivere in libero regno

Rispondo così ad amico che mi sollecita un pensiero sui tanti e tanti che pubblicano e pubblicano in una bella frenesia chiamata libro. Anche io farei uguale  se sapessi scrivere ma non so scrivere.

Ho strappato tutto quello che ho scritto fino al 2009, tutto.

Fogli, diario, lettere ricevute e qualsiasi cartaceo mi riguardasse.

Ho regalato tutti i libri posseduti al Sistema Bibliotecario di Lamezia, alle scuole, alle colleghe, senza nemmeno chiedere una targhetta.

Ho riscritto da allora su un blog, sui siti letterari, in mail, su Tiscali, su portali, scrivendo scrivendo.

"Ma non so scrivere. Lo vedi anche tu" dico al mio amico. 

Scrivo come parlo, come penso, senza disciplina, senza una grammatica.

Riconosco i limiti e già mi sembra di essere molto avanti.

Lo affermo senza nessuna umiltà. Seriamente.

Penso che oggi il libro faccia status, più di un tempo, anche se a scorrer le doglianze, Leopardi si lagnava che al suo tempo fosse uguale. 

Tutti sono presi da questo bel desiderio di vedere il nome proprio stampato su una bella copertina, sentirsi autori o autrici, trovare il critico o il docente compiacente che li faccia  sentire Tasso e far  inchiostrare pagine e pagine di stampa locale inneggiante l'opera. Mi sembra di essere a teatro. magari un teatro dilettante, di amatori che fanno le prove a reggere il confronto con il mondo delle lettere, a volte a loro  sconosciuto.  

 Sono però fautrice del libero scrivere in libero regno, basti che ognuno non si senta Dante. Comunque anche se si sentisse Dante ne sarei felice lo stesso. 

 Su di me penso di essere una che usa la lettura per vivere e la scrittura come relazione. Mi sembra di essere riuscita a far l'uno e l'altro, mi occupo il tempo leggendo e faccio della scrittura un mio divertimento.

Che abbia chi mi legga mi sorprende e mi rallegra tanto quanto io sia contenta nel legger tutti coloro che scrivono davvero. http://trollipp.blogspot.com/2016/05/?m=1

Ippolita Luzzo 

lunedì 29 aprile 2024

Gilda Policastro La ragnatela


Per hopefulmonster editore, nella collana diretta da Dario Voltolini
Gilda Policastro nel libro La ragnatela ci racconta attraverso il ballo qualche passaggio della sua infanzia, dell'adolescenza, la storia di quegli anni, ballando ballando, pestando con i piedi la pizzica di San Vito. La taranta; cosa voglia significare poi non è certo, ci sono tanti testi della tradizione e benché si cerchi quando si vuole riscriverli sono tutti diversi, ci dice la scrittrice. Il ballo rimane per lei un momento vitale, lei lo sente fin da piccolissima, e sente che attraverso il ballo si può guarire anche dal mal d'amore.

Nell’autointervista che Gilda Policastro si fa scopriamo cos’è la pizzica: “La pizzica alle sue origini è effetto del morso della taranta, il ragno. A quel punto non puoi fermarti, devi ballare. Ballare, poi. Devi letteralmente pestare il pavimento, come fossero tini.” Noi intanto aspettiamo La ragnatela in arrivo a maggio e al Salone del libro a Torino in questa settimana, ma di cosa parla La ragnatela?

Con un ritmo molto trascinante, simile al ballo evocato ecco apparire le poetesse che si suicidano sorprese prima di ammazzarsi in attività usuali. Incontriamo Bachmann in Puglia con una sua poesia tradotta proprio per questo libro da un amico di Gilda.

Ho letto con la musica in testa, trascinata dalla sua danza:"Ùn due tre ùn due tre ùn due tre, cento battiti al minuto, come ci fosse una festa non intorno ma dentro, perché il ritmo accelera e discioglie la malincunia o il brutto pasticcio dell’amore non corrisposto che a quel punto si srotola come una serpentella, come il nastro delle ginnaste, il giro di campo di un calciatore all’ultima partita, nel tripudio generale. In verità attorno a me ci sono le stesse facce spente (e del Sud), un po’ accaldate e istupidite dall’eccesso di cibo. Nun te fermare, nun te fermare, addu t’ha pizzicato, la taranta"

Non vi siete messi a ballare pure voi ed ora per farvi partecipare a questo rito ecco un altro passo di Gilda:

"Le donne del Salento ballano composte, con lunghe gonne che sfiorano il pavimento e scarpe molto basse, piede in vista (oggi infradito, ieri scalze).

A me piace ballare scalza, il piede aderisce alla terra, si ferisce. La ferita è la finestra del dolore, la ferita è la parte che sanguina, e mentre sanguina, guarisce. Guarisce quando sta sanguinando, certo, comincia proprio allora, a guarire. Quando stai male cominci a capire che devi guarire, devi provare a uscire dal dolore, trovare qualcuno che ti tiri per i capelli o tirarti tu come Münchausen. Quando ero in ospedale non pensavo mai al ballo, non ricordavo più che in una vita precedente io avessi ballato in tanti posti. Che lo avessi sognato, desiderato, che avessi dato spettacolo. Quando ero in ospedale, riuscivo a pensare a una cosa sola: com’è successo? In un libro di tanti anni fa avevo scritto che il cervello è una sfoglia di cipolla: anche questo lo diceva Sabellina, o forse zia Maria, detta Ziam"

Dario Voltolini nella postfazione scrive: un unico organismo. “La ragnatela” si produce tramite il ritmo e la musica della pizzica, il ballo delle tarantolate. La puntura di un ragno che appartiene a chissà quale livello della realtà, o della fantasia, o del mito; il pizzico da cui non c’è scampo e devi ballare, ballare, ballare, pestare con i piedi il pavimento, saltare, sfinirti, non pensare, parossisticamente vivere ed esistere.” E sulla scrittura di Gilda Policastro: "Pochissimi possono vantare una padronanza così completa della lingua italiana come Gilda Policastro. Poligrafa di grande talento (a suo completo agio tanto nella saggistica accademica quanto in quella militante, nella poesia, nella teoria della poesia, nel- la narrativa, nelle chat, in rete, nell’intervento social e così via), qui compone una sfavillante incursione nel territorio vivo, pulsante e corporale della crescita ed evoluzione personale."

Non è mia abitudine riportare molti stralci dei libri ma questo mi ha un po' preso la mano e si è imposto "pestando i piedi" con la bravura della scena.

Un affettuoso omaggio a Gilda Policastro da tutta la Litweb che balla con lei

Ippolita Luzzo

Gilda Policastro è scrittrice e critica letteraria, insegna Letteratura italiana, cura i corsi di poesia per l'Accademia di scrittura creativa Molly Bloom, collabora con riviste e siti letterari, è redattrice de «Le parole e le cose». Tra i suoi ultimi libri il romanzo La parte di Malvasia (La Nave di Teseo, 2021) e il saggio L'ultima poesia: scrittura anomale e mutazioni di genere dal secondo Novecento a oggi (Mimesis, 2021).