venerdì 28 novembre 2014

Un anno sull'altopiano



Un anno sull’altopiano

Nel 1984  sono stata vincitrice di concorso nella scuola media e contemporaneamente ebbi l’incarico dal provveditorato di Bergamo nella scuola superiore per filosofia e storia. Nello stesso giorno! Scelsi la cattedra in uno sconosciuto paesino del crotonese.

Ma come sarebbe stata la mia vita se avessi avuto  la grinta e il coraggio necessario per andarmene lontano? Un’altra vita e sono ora sicura più felice, più aderente alla mia  preparazione. Ma la vita è questa qua.

 Partii alla volta di Umbriatico  con papà e mamma, io non guidavo per luoghi così lontani e sconosciuti, con la cartina in mano. Facemmo tutta la famigerata  statale 106, la statale della morte, la chiamano, per i numerosi incidenti stradali, e dopo Crotone, dopo Cirò, incominciammo a salire, salire, inerpicandoci  e giravoltando lungo i fianchi di un burrone. Poi  su un cocuzzolo, circondato dal vuoto intorno, con corvi neri gracchianti e volanti passammo l’unico ponte romano che collegava il medioevo alla modernità.

 I miei genitori erano costernati  io incredula. Era quella la Calabria? Dov’ero? Avevo una cattedra spezzata e completavo con una classe di Pallagorio, altro paese in quell’entroterra  aspro e difficile. Un paese albanese, l’italiano era una lingua straniera che parlavano benissimo, ma un popolo straniero, che ancora celebravano e celebrano i loro riti ed usanze che io non conoscevo e che allora imparai con fastidio. Che fastidio! Quale orrore entrare in classe  e non poter parlare del declino del capitalismo!

Le ore non passavano mai! Guardavo l’orologio fermo, immobile era sempre la stessa ora, mi prendeva lo sconforto. Ad Umbriatico, per fortuna, perché io sono sempre stata fortunata, c’era una collega del lametino  che era entrata di ruolo dopo tanti anni nella media. Una preparata, brava, che venne a vivere nella stessa casa  e mi consigliava, mi dava le sue programmazioni, ascoltava il mio malessere, io,   buttata in una classe con individui vocianti ed incomprensibili, io che, al massimo, in tanti anni di disoccupazione  avevo solo supplito qualche mese  al liceo classico  filosofia e storia ed avevo letto tanto, tutto lo scibile del tempo, mi ero riscritta di nuovo all’università, questa volta giurisprudenza e poi avevo lasciato perdere. Ed ora cosa faccio? mi chiedevo in quella prima ad Umbriatico, cosa faccio? maledizione! Che gli dico?

Urlavo, presumo, anche se alcuni alunni poi mi hanno scritto lettere molte belle, io mi sentivo una stronza, una volta addirittura feci quasi come il conte Ugolino all’arcivescovo Ruggero nell’inferno dantesco! Menomale che eravamo nel medioevo, ora mi avrebbero licenziata all’istante! Ma allora nessuno fece caso! La mia collega mi esortava a fare raccontini facili, a parlare con termini comprensibili, a non essere saccente, a mettermi al loro livello, ma io odiavo la scuola, quella scuola, ed odiavo la me stessa che non poteva più tornare indietro. E’ stato un incubo. Per anni poi ho vagato nella scuola media come un fantasma, disperdendo la mia vita, sfilacciando il mio essere in assenze sempre più lunghe, consumando le mie giornate in un tedio senza fine.  Ero Oblomov.  Nel novanta sono diventata mamma e mi sono assentata per tre anni! Quando poi ho ripreso, nel vibonese questa volta, nella civiltà, sono stata la brava professoressa  e quando persi il posto  a Monterosso i genitori andarono in delegazione a protestare al provveditorato: una grande gratificazione! Ero cambiata, perché nello sforzo di farmi capire da mio figlio, che pure ho sempre trattato da adulto, ho imparato a parlare con gli alunni. Che mi adorano. Ora sono amata ed apprezzata per quel che feci nei primi anni duemila ma cosa farò adesso non lo so. Boh! Ora che sono imprenditrice e presidente, consigliera e deficiente (nel senso di deficere - mancante delle tante cose che ero e che non son più!)

giovedì 27 novembre 2014

Consuelo Nava_ Da Braudel a noi




L’oro del Mediterraneo  tra natura e mito
Da Fernand Braudel a noi
Spezzoni di un mio post del 25 Aprile 2013

Dal panorama al paesaggio
Guardare il mondo con lo stupore, con il desiderio di sapere dove abitiamo.
Connotare il nostro mondo, il nostro paesaggio di emozioni, dice l’urbanista, fa la differenza fra panorama, semplice descrizione geografica, e paesaggio, luogo di anime, luogo vissuto dalla storia.

Una storia antica.
 Da Zeus, figlio di Crono e  Mnemosine, la memoria.
Da questo amore nacquero le Muse
Da questo amore nacque il piacere di raccontarsi
Nacque il mito.
Nacque il Mediterraneo, un mare che sta in mezzo alle terre, fra l’Europa, l’Africa e l’Asia.
Tre continenti.

Braudel

“ Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni”
 tutto è attuale e insieme defunto e tuttavia vivo

Braudel  ha dedicato al nostro Mediterraneo pagine di straordinaria poesia, da storico.
Il mare di Braudel, il mare di una storia che è in movimento, in un tempo immobile, il tempo  onnipresente.
Il mare  con le meduse, con le tante meduse,
l’ultima è stata raccolta sul litorale lametino in una passeggiata pochi giorni fa.
Velella Velella, una medusa blu cobalto, presenza in un mare pulito,
un idrozoo coloniale, massicce colonie aggregate, simili alle nostre aggregazioni umane.


In un auditorium che sembrava un mare.
Un mare di ragazzi, attenti e frementi, molto coinvolti e stupiti di possedere tanto oro quanto possa contenerne tutta la storia di popoli e popoli.
Un tesoro immenso
Il tesoro della conoscenza.
Vedranno questi ragazzi, con i loro occhi, le coste di cui si parla oggi, vedranno la bellissima Tropea e Capo Vaticano, vedranno la costa viola, e capiranno in un solo momento di appartenere al mare color del vino.
Il mare di Ulisse, il mare primordiale degli Enotri, il mare da dove arrivò l’ossidiana,
capiranno che nulla è perduto perché tutto stratifica nei nostri geni
dandoci oro, l’oro dell’acqua che ci fece nascere, dal mito di sempre,
 l’oro dell’acqua che ci fa vivere e viaggiare.

Mare sei dappertutto
Nel vento tra gli ulivi
Nelle vigne fra i pampini lucenti
odorano di mare  i letti delle spose
le cune dei bambini nelle case
c’è mare tra i capelli e sa di sale
il seno delle donne innamorate

questi i versi  di Pina Majone, dal suo ultimo libro ”Frontiera”, un inno al nostro mare.
Dallo Stretto

martedì 25 novembre 2014

La vita che vorremmo- Uniter 26 Novembre 2016




Premessa: Quando ho proposto all'Uniter questa mia riflessione non immaginavo che sarebbe venuta dopo l’ interessante lezione di Vito Teti, su partenza e restanza, il senso dei luoghi, un passato da ricordare e la nostalgia, la sofferenza del ritorno. Quello che era il tema di Vito Teti per i luoghi, in ambito antropologico era il mio tema sull’individuo e se stesso, partenza e restanza all'interno dell'io, un’analisi su come l’uomo rappresenta sé stesso, nel tempo. 
Avevo già pronta la mia relazione ma quella sera stessa andai a comprare Marc Augè "Il Tempo senza età, la vecchiaia non esiste", e mi resi conto come anche lo  studioso francese fosse su temi simili. Lui scrive: "per ciascuno di noi la vita rappresenta una lunga ed involontaria indagine. Noi ci immergiamo nel tempo, ci proiettiamo in esso, lo reinventiamo, lo lasciamo scorrere, il tempo è la materia prima della nostra immaginazione.  Al contrario l’età, gli anni che si accumulano ci stupiscono. Il tempo è una libertà, l’età un vincolo. Noi stiamo in mezzo."

Consultiamo  testi, di  Cicerone, De Senectute, di  Simone De Beauvoir La terza età, teniamo diari e  nel fare un computo accurato degli anni siamo ben lungi dal trovare una direttiva precisa, un filo anche irregolare che permetterebbe di seguire il corso del passato e di apprezzarne in retrospettiva la coerenza. 
Di fatto  vediamo un insieme composito e mobile in cui si mescolano ricordi che sono anche quelli delle nostre speranze, delle nostre aspettative e delusioni, tutto il contrario di un lineare percorso, "non andiamo da nessuna parte", diceva Teti,  resta  l’ombra del dubbio sulla nostra identità di singolo individuo. Prima o poi ognuno è condotto ad interrogarsi sulla sua età, che sia sotto un aspetto o un altro, e dunque diventare così l’etnologo della sua propria vita




26 Novembre 2014
Nel 2009 scrivevo un pezzo su un sorriso del ‘73 e nel riflettere  su quel fermarmi su un episodio di un attimo una  amica mi chiarì cosa stessi facendo. Si chiama consolazione, mi disse, quel fermarsi a ricercare e dare spazio a quel giorno, a quella frase, a quel sorriso che addolcisca un presente complesso.

 Le diedi ragione, e nello stesso tempo  ricordai la frase di

 Ennio Flaiano: nella vita di ognuno i giorni più importanti sono tre o quattro, gli altri servono a far volume

Nello scorrere di un tempo che è fermo, scorre solo per noi, essendo corpi in mutamento, siamo tutti fermi a quei due o tre momenti che costituiscono lo snodo dei giorni a venire,  I bivi ci hanno costretto alla scelta, lasciandoci altre opportunità alle spalle. Chissà quali!

 Debord, negli anni sessanta,  parlava del mondo come rappresentazione, come spettacolo, ora potremmo parlare dell’individuo come  si rappresenta, come spettacolo, come immagine di sé.

In un tempo senza tempo, quello del nostro presente che scorre,  ci sta La Vita Che vorremmo fra un passato che rielaboriamo e ci raccontiamo in modo sempre diverso, eppure uguale, ed un futuro sul quale proiettiamo il non  avuto, un futuro che esorcizziamo, forti della nostra ragionevolezza e della maniacalità delle nostre abitudini da conservare, abitudine che dà sicurezza e tranquillità, routine.

In questo territorio straniero sta il racconto, quello che noi diciamo agli altri di noi, quando si apre apparentemente quel bisogno che si chiama confessione.



Aldilà della rappresentazione di una vita di tutti che poi esibiamo in circoli, in reale e virtuale, immaginandoci insomma l'esperienza è soltanto conoscenza del fenomeno e non della cosa in sé
noi conosciamo il nostro io solo come fenomeno
immerso in mondo virtuale che ci rappresenta e rappresentiamo.
La vita che vorremmo.
Vi faccio alcuni esempi molto vicini a noi.

Mi capita di ascoltare, sono loro spontaneamente che mi raccontano, spezzoni di vita degli altri, fermi, come vi dicevo a quei due o tre momenti che costituiscono la vita di ognuno di noi.

Una signora rielabora un suo matrimonio, ormai consorte morto, e mi dice che lei si sposò per ultima fra tutte le sue amiche e nel raccontare e raccontare ci tiene a dirmi che lui ad un certo punto le disse di aver cercato tanto in giro per le città del mondo e poi era ritornato da lei e  la sua donna era lei, sempre stata accanto, della sua stessa strada!

Raccontato stesso episodio ad amica di lei questa mi chiarisce che l’ uomo era scappato per ogni dove pur di non sposarla e poi l’aveva sposata per sfinimento.

Due visioni contrapposte ma nella rielaborazione che la signora a me quasi sconosciuta faceva del suo passato senza esserne richiesta c’era una mestizia e una dolente trasfigurazione ed insieme un autoassolversi di aver dovuto tanto aspettare per sposarsi. Me lo ripeté infatti una infinità di volte.

Così tutti elaboriamo nella vita che vorremmo momenti che non riusciamo ad accettare, addirittura una signora mi raccontava di un suo marito, anche questo morto di recente e che la picchiava ubriaco, quanto fosse angelicato e buono, ai limiti di una schizofrenia.

Inizia poi il coro di Avrei Voluto, come quella canzoncina dei cugini di campagna

 Avrei voluto un'altra donna,
avrei voluto un altro amore
magari meno bella
e che mi somigliasse un po'. 

Le recriminazioni

Avrei voluto un’altra vita, potremmo cantare, molti avrebbero voluto fare altri studi, vivere in altri luoghi, scegliere altri amori, e magari sono stupiti di come una frase, una situazione innocente, li abbia portati da tutta altra parte.

Un avrei e un vorrei



Essendo la mia una analisi semplice, da osservatrice, vorrei solo darvi spunti di riflessione su questi dettagli e su come non esista un passato, un nostro passato, bensì esiste soltanto un ricordo modellato, reso fruibile per essere accettato.

Molti mi vorrebbero raccontare la loro vita convinti che io sappia metterla su un foglio, una loro esigenza questa che oltrepassa il puro raccontare, vogliono proprio vedersi. Raccontati.

Io mi rifiuto, intanto non avrei la tecnica del racconto, ho solo il dono della sintesi e del dettaglio, ridurrei qualsiasi vita a quei due o tre snodi dove si sia incagliata, e poi non credo ad una parola, oppure credo poco alla situazione che mi stanno raccontando.

Non credo neppure ai miei racconti, portata ad ingigantire un sorriso di una persona che giustamente non ricorda, portata a smemorare interi anni e ad affastellare gli anni in fascine disordinate.

Fermi a quell’episodio, a quel torto, a quel periodo che ci è mancato, siamo tutti.

Fermi.

Siamo fermi anche davanti al futuro che non conosciamo, che temiamo, verso cui ci attrezziamo per non esser vinti una volta di più.

Per non subire altre delusioni, per veder il frutto di un nostro, supponiamo, sacrificio, affetto, dono.

Sul futuro mi vengono raccontate pochissime cose, in genere il rancore oppure la soddisfazione sta in quel che si è raggiunto, in quella stabilità alla quale diamo il nome di presente non volendogli riconoscere l’instabilità del divenire.

Sul futuro il nostro sguardo muta, lo si proietta sui figli, sui nipoti, sui ragazzi che a noi sembrano vaghi,  senza troppi illusioni, nella sfera sentimentale  fragilissimi,  loro dicono che vorrebbero le nostre certezze, le certezze di chi viene da altri tempi, di chi come le nostre generazioni si è abituata ad accettare quello scarto fra quel che si vuole e quel che si può, e noi guardiamo il futuro non credendolo.

Nel film di Fabio Mollo, Il Sud è niente, molto premiato in tutto il mondo e che io ho presentato più volte c’è una frase che io ho imparato a memoria e che noi tutti conosciamo.

Non importa quello che tu vuoi o non vuoi, importa quello che tu puoi o non puoi.

La frase che le nostre mamme a casa ripetevano, per farci accettare proibizioni e rinunce  era- L’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re

Però dopo aggiungevano di studiare, di impegnarsi, di fare sacrifici, di avere pazienza. Pazienza e volontà. Elogio della volontà.

Tutto questo bastava per  l’elaborazione, la trasformazione, il farsi una ragione .

La vita che vorremmo è appunto farsi una ragione di come sia andata ogni cosa, adeguando come un abito ogni avvenimento alla taglia che indossiamo per andare nel mondo ben vestiti e con stile. L’identità che possediamo dubitando.

Ippolita Luzzo




 






lunedì 24 novembre 2014

Leonardo Soresi- Fischia il vento








La vita che vorremmo   22 agosto 2011
Nell’estate del 2005 mi innamorai di un racconto di Leonardo Soresi-  Premio Chatwin 2004- Il ragazzo che non  voleva viaggiare. Era sull’inserto della Repubblica Viaggi. Lo lessi a tutte le persone che venivano a trovarmi, lo lessi tanto che alla fine lo sapevo a memoria. L’ho conservato e ti scrivo ancora su quel giornale. Era la storia di un ragazzo in un deserto,  con l’otre che gocciola e lui rimane senza riserve. Sono i pensieri , i suoi, di qualcuno che morirà perché rimane senz’acqua. Sono pensieri molto belli ed io li feci miei. Io quell’estate bevevo, per infusione, nel port, la pozione della maga Circe, così chiamavo la chemio pesante, due volte al mese, il folsfox, e due volte al mese  mi trasformavo, poi mi riprendevo. Ma quello fu un periodo fertile perché la forza impiegata per non soccombere mi ha aiutato ad affrontare il peggio dei giorni successivi. Dopo nulla fu più come prima.


Da Il ragazzo che non voleva viaggiare a Il ragazzo che cavalcava il vento
Ho comprato il libro il 20 novembre, l'ho letto e mi son detta che avrei scritto a Leonardo, una bellissima persona, nel mio immaginario lo è dal 2004, da quando io ho accanto a me il suo racconto.
Un incontro fra il suo primo racconto e questa storia. Si incontrano i due ragazzi, dopo molti anni, con in mano l'acqua che disseterà: La Passione.
Leonardo è un uomo meraviglioso, che crede in quello che scrive, che vive quello che scrive, che è onesto.
Leggo Quindi e conservo " La vecchiaia non mi ha insegnato proprio niente, si accusò. Dovrei sapere che di sogni non si vive." Randy quando ha appena fatto salire sul suo pick-up Javier e Juanita  reduci dalla traversata nel confine Messico  America.  Guarda questi due adolescenti che si stanno aprendo alla vita con una immensa responsabilità sulle fragili spalle.
Tutti abbiamo sogni, caro Randy, mi ritrovo a sussurrargli io, tutti, anche io, da vecchia, forse incosciente, forse immatura, forse appassionata della scrittura.
La corsa della vita. Da pigra invidio coloro che corrono, da nata stanca, invidio benignamente, fin da piccola, chi poteva nuotare, scappare. Eppure non avevo menomazioni se non una eterna stanchezza.
" Dove aveva preso le energie per quell'ultimo sovrumano sforzo? ...Ad un tratto si era sentito attraversare da una sferzata di coraggio e da un senso di onnipotenza mai provati prima...e comprese che niente è irrealizzabile se uno ci crede davvero." Poi certo dobbiamo sapere che non si realizzerà per come noi avevamo in mente. Quasi mai.
Ma, e tu lo dici, la sconfitta, una volta tanto, aveva fatto più notizia della vittoria.
"come la vita la prima metà di un rarahipa si corre con le gambe, la seconda metà si corre con la testa"
Leggo questa bellissima cosa che è la vita che io non ha fatto, leggo le bellissime corse e il mondo che io conosco pochissimo, immagino e ricordo un anno, a scuola, con i miei alunni a studiare la tribù degli Yanomani, dimentichi di fare storia tradizionale.  Leggo gli allenamenti che non farei mai, e poi guardo tutti i fogli che giacciono in casa, persi nel nulla di una corsa che io non farò.
Perchè scrivere un racconto poi è un'altra cosa, richiede un allenamento che non avrei.
Mi piace moltissimo parlare con amore, con passione di chi scrive con altrettanta sincerità, con entusiasmo.
Mi rendo conto che muovere critiche ora sarebbe come increspare il mare della bellezza, ho già visto la tua umiltà, il tuo pudore, quindi se ti dico cosa manca lo faccio per esser utile.
La dilatazione di alcuni avvenimenti fa scemare la tensione,  a volte ripeti alcuni episodi in modo simile nella prima e seconda corsa, il ritmo del racconto si affievolisce e manca.
ed il ritmo, che pur è presente per molto, nel tuo libro, è tutto.
Inezie, non stare a pensare ad errori, ma io lo rivedrei, di pochissimo, e poi questo libro  deve correre nel vento, nelle scuole, correre per le strade del mondo, per tutti i villaggi, per tutti i paesi, per l'immenso mare che ci unirà, nel mare dell'immaginazione. Con un bene immenso ed un grazie a te

domenica 16 novembre 2014

Con_testi sostenibili. Il treno che parte dal 7N






Il binario 7N
Il treno da Reggio Calabria partirà alle ore 17,05 non più dal binario 7 ma dal 7N
Ci guardiamo in quattro. Dove sarà mai questo binario? Cosa vorrà dire 7N?
Consuelo, al volo, spiega che 7N sta per sette Nord
Ok, noi perplessi ma senza risposte, la seguiamo.
Scendiamo ed io già nelle storie di Harry Potter guardo in giro dove mai sarà fra il sette e l’otto il percorso che ci porterà al treno.

 Con mia esclamazione surreale mi accorgo che non esiste!
Già Consuelo ha con passo deciso affrontato gli scalini del sette, andiamo a Nord, fa, andiamo a Nord.
A Nord? Si chiede Aldo, e dov’è il Nord? Meno male che ci sei tu che facesti studi scientifici…
Giunti però sui binari lui decide di andare a sud perdendosi una volta di più.
E mentre Consuelo, oltrepassate carrozze e carrozze che ostruiscono la visione del treno che va al Nord, ricordando la canzone la donna del sud ed il treno del sole, io  mando Maria a richiamare Aldo scomparso nel maledetto sud.
Ed eccoci finalmente ai saluti, ai baci, al libro, alle dediche-Verso Nord da Sud
Le competenze che ci faranno andar via

giovedì 13 novembre 2014

AA.VV.Racconti Toscani- Silvio Simi-Gli occhi azzurri del buratto




 Leggo prima tutta la storia del buratto. Con fotografie. Prima però sono andata alla posta, ormai sono amica di posta e postini. Gentilissimo lui mi consegna due plichi. Ed io apro subito questo racconto, facente parte di AA.VV Racconti Toscani. Gli occhi azzurri del buratto. Fa che la molla funzioni. Mi trovo immersa in lettura coinvolgente e decido di voler immagine del buratto. Della giostra

 Lo leggo e prendo appunti.
Nello sfogliare Il libro mi soffermo e leggo Gli attimi perfetti di Lucilla Gattini. Le perfezioni provvisorie, gli attimi perfetti. Lei racconta “ Il burattino conserva un posto defilato, involucro pesto e muto a ricordare il percorso, le amputazioni volute e subite, una catalessi vicino al non esistere. Tra le pieghe del caso”
 Mi sembra non un caso. Già prima, appena fatta lettura, avevo intuito la perfezione. Alla rilettura ne sono convinta. Il racconto di Silvio Simi racconta la storia di un buratto. Un saracino, re delle Indie, re di un regno esistente quanto la Litweb. Lui non nota la sua diversità ma quella altrui, in una immagine di eterna giovinezza e con il culto della sua estraneità, che lasciò nel mondo di quel regno che non era il suo. Fa che la molla funziona, pensava il buratto, protagonista di una integrazione impossibile in una società che lo relega a fare il buratto finché piaccia la sfida, il gioco. In un racconto che anima e invera, in corpo un burattino disarticolato e vivente a molla, con il vivere di tanti saracini nei nostri paesi, altrettanti sconosciuti.

Una gara vissuta in geometrie perfette. La piazza del Vasari in discesa. Due vertici di un quadrato messi a rombo al centro della piazza a segnare i punti cardinali. Centro dell'universo un buco nero. Punto finito come l'infinito. L'alba sulla piazza arriva tardi. Una immagine curva che sogna di coprire l'universo.
Continuo a scrivere febbrilmente a memoria come faccio quando qualcosa mi carica lentamente come i due che caricano il buratto e lo armano della forza di vivere. Quella resistenza che è l'unico ostacolo ad una forza. La forza dello scrivere, del leggere amando il testo. Una scrittura che mantiene il tempo del lettore, lo lega empatico al destino del buratto che diviene il suo destino. Un punto doppio per lo scrittore per aver dimostrato il suo coraggio, la sua bravura a quel lettore che in cuor suo dice ho vinto io perché la molla ha retto e si rigioca
“Tutta colpa della resina” di Marco Tondi
Il caso che gira e rigira bellamente le nostre vite che fanno come il buratto, si caricano a molla ogni qual volta un entusiasmo li spinge nel centro di piazza Vasari.
Ho sfogliato i quaranta racconti, di varia composizione, con curiosità ed ho apprezzato di alcuni la compostezza e la pulizia, il rispetto verso il racconto di per sé. Raccontare è una regola. Interessare il lettore.
Da lettrice disordinata e viscerale mi sono subito innamorata del personaggio del buratto, del modo come tutti i suoi momenti sembrassero i miei, lui re delle Indie ed io regina di un regno che non esiste, ho scritto sotto ipnosi e non mi pento perché uno scritto sia vivo deve trascinare chi lo legge nel mondo onirico della somiglianza.
Così ieri sera io ho fatto la Giostra del Saracino in piazza Vasari da dove manco dagli anni ottanta quando assaggiai i crostini al fegato d’oca a casa di Lea D’Ippolito.  Arezzo così.