Premessa: Quando ho proposto all'Uniter questa mia riflessione
non immaginavo che sarebbe venuta dopo l’ interessante lezione di Vito Teti, su
partenza e restanza, il senso dei luoghi, un passato da ricordare e la
nostalgia, la sofferenza del ritorno. Quello che era il tema di Vito Teti per i
luoghi, in ambito antropologico era il mio tema sull’individuo e se stesso, partenza e restanza all'interno dell'io,
un’analisi su come l’uomo rappresenta sé stesso, nel tempo.
Avevo già pronta la mia relazione ma quella
sera stessa andai a comprare Marc Augè "Il Tempo senza età, la vecchiaia non
esiste", e mi resi conto come anche lo
studioso francese fosse su temi simili. Lui scrive: "per ciascuno di noi la vita rappresenta una
lunga ed involontaria indagine. Noi ci immergiamo nel tempo, ci proiettiamo in
esso, lo reinventiamo, lo lasciamo scorrere, il tempo è la materia prima della
nostra immaginazione. Al contrario
l’età, gli anni che si accumulano ci stupiscono. Il tempo è una libertà, l’età
un vincolo. Noi stiamo in mezzo."
Consultiamo testi, di Cicerone, De Senectute, di Simone De Beauvoir La terza età, teniamo
diari e nel fare un computo accurato degli anni siamo
ben lungi dal trovare una direttiva precisa, un filo anche irregolare che
permetterebbe di seguire il corso del passato e di apprezzarne in retrospettiva
la coerenza.
Di fatto vediamo un insieme
composito e mobile in cui si mescolano ricordi che sono anche quelli delle
nostre speranze, delle nostre aspettative e delusioni, tutto il contrario di un
lineare percorso, "non andiamo da nessuna parte", diceva Teti, resta l’ombra del dubbio sulla nostra identità di
singolo individuo. Prima o poi ognuno è condotto ad interrogarsi sulla sua età,
che sia sotto un aspetto o un altro, e dunque diventare così l’etnologo della
sua propria vita
26 Novembre 2014
Nel 2009 scrivevo un pezzo su un sorriso del ‘73 e nel riflettere su quel fermarmi su un episodio di un attimo
una amica mi chiarì cosa stessi facendo.
Si chiama consolazione, mi disse, quel fermarsi a ricercare e dare spazio a
quel giorno, a quella frase, a quel sorriso che addolcisca un presente
complesso.
Le diedi ragione, e nello stesso
tempo ricordai la frase di
Ennio Flaiano: nella vita di ognuno i giorni
più importanti sono tre o quattro, gli altri servono a far volume
Nello scorrere di un tempo che è fermo, scorre solo per noi, essendo
corpi in mutamento, siamo tutti fermi a quei due o tre momenti che costituiscono
lo snodo dei giorni a venire, I bivi ci
hanno costretto alla scelta, lasciandoci altre opportunità alle spalle. Chissà
quali!
Debord, negli anni
sessanta, parlava del mondo come
rappresentazione, come spettacolo, ora potremmo parlare dell’individuo
come si rappresenta, come spettacolo,
come immagine di sé.
In un tempo senza tempo, quello del nostro presente che scorre, ci sta La Vita Che vorremmo fra un passato che rielaboriamo e ci raccontiamo
in modo sempre diverso, eppure uguale, ed un futuro sul quale proiettiamo il
non avuto, un futuro che esorcizziamo,
forti della nostra ragionevolezza e della maniacalità delle nostre abitudini da
conservare, abitudine che dà sicurezza e tranquillità, routine.
In questo territorio straniero sta il racconto, quello che noi diciamo
agli altri di noi, quando si apre apparentemente quel bisogno che si chiama
confessione.
Aldilà della rappresentazione di una vita di tutti che poi esibiamo in circoli,
in reale e virtuale, immaginandoci insomma l'esperienza è soltanto conoscenza del fenomeno e non della cosa in sé
noi conosciamo il nostro io solo come fenomeno
immerso in mondo virtuale che ci rappresenta e rappresentiamo.
La vita che vorremmo.
Vi faccio alcuni esempi molto vicini a noi.
immerso in mondo virtuale che ci rappresenta e rappresentiamo.
La vita che vorremmo.
Vi faccio alcuni esempi molto vicini a noi.
Mi capita di ascoltare, sono loro spontaneamente che mi raccontano,
spezzoni di vita degli altri, fermi, come vi dicevo a quei due o tre momenti
che costituiscono la vita di ognuno di noi.
Una signora rielabora un suo matrimonio, ormai consorte morto, e mi
dice che lei si sposò per ultima fra tutte le sue amiche e nel raccontare e
raccontare ci tiene a dirmi che lui ad un certo punto le disse di aver cercato
tanto in giro per le città del mondo e poi era ritornato da lei e la sua donna era lei, sempre stata accanto,
della sua stessa strada!
Raccontato stesso episodio ad amica di lei questa mi chiarisce che l’
uomo era scappato per ogni dove pur di non sposarla e poi l’aveva sposata per
sfinimento.
Due visioni contrapposte ma nella rielaborazione che la signora a me
quasi sconosciuta faceva del suo passato senza esserne richiesta c’era una
mestizia e una dolente trasfigurazione ed insieme un autoassolversi di aver
dovuto tanto aspettare per sposarsi. Me lo ripeté infatti una infinità di
volte.
Così tutti elaboriamo nella vita che vorremmo momenti che non riusciamo
ad accettare, addirittura una signora mi
raccontava di un suo marito, anche questo morto di recente e che la picchiava
ubriaco, quanto fosse angelicato e buono, ai limiti di una schizofrenia.
Inizia poi il coro di Avrei Voluto, come quella canzoncina dei cugini
di campagna
Avrei voluto un'altra donna,
avrei voluto un altro amore
magari meno bella
e che mi somigliasse un po'.
Le recriminazioni
avrei voluto un altro amore
magari meno bella
e che mi somigliasse un po'.
Le recriminazioni
Avrei voluto un’altra vita, potremmo cantare, molti avrebbero voluto fare altri studi,
vivere in altri luoghi, scegliere altri amori, e magari sono stupiti di come
una frase, una situazione innocente, li abbia portati da tutta altra parte.
Un avrei e un vorrei
Essendo la mia una analisi semplice, da osservatrice, vorrei solo darvi
spunti di riflessione su questi dettagli e su come non esista un passato, un
nostro passato, bensì esiste soltanto un ricordo modellato, reso fruibile per
essere accettato.
Molti mi vorrebbero raccontare la loro vita convinti che io sappia
metterla su un foglio, una loro esigenza questa che oltrepassa il puro
raccontare, vogliono proprio vedersi. Raccontati.
Io mi rifiuto, intanto non avrei la tecnica del racconto, ho solo il
dono della sintesi e del dettaglio, ridurrei qualsiasi vita a quei due o
tre snodi dove si sia incagliata, e poi non credo ad una parola, oppure credo
poco alla situazione che mi stanno raccontando.
Non credo neppure ai miei racconti, portata ad ingigantire un sorriso
di una persona che giustamente non ricorda, portata a smemorare interi anni e ad affastellare gli anni in fascine disordinate.
Fermi a quell’episodio, a quel torto, a quel periodo che ci è mancato,
siamo tutti.
Fermi.
Siamo fermi anche davanti al futuro che non conosciamo, che temiamo,
verso cui ci attrezziamo per non esser vinti una volta di più.
Per non subire altre delusioni, per veder il frutto di un nostro,
supponiamo, sacrificio, affetto, dono.
Sul futuro mi vengono raccontate pochissime cose, in genere il rancore
oppure la soddisfazione sta in quel che si è raggiunto, in quella stabilità
alla quale diamo il nome di presente non volendogli riconoscere l’instabilità
del divenire.
Sul futuro il nostro sguardo muta, lo si proietta sui figli, sui nipoti, sui ragazzi che a noi
sembrano vaghi, senza troppi illusioni,
nella sfera sentimentale fragilissimi,
loro dicono che vorrebbero le nostre certezze, le certezze di chi viene
da altri tempi, di chi come le nostre generazioni si è abituata ad accettare
quello scarto fra quel che si vuole e quel che si può, e noi guardiamo il
futuro non credendolo.
Nel film di Fabio Mollo, Il Sud è niente, molto premiato in tutto il
mondo e che io ho presentato più volte c’è una frase che io ho imparato a
memoria e che noi tutti conosciamo.
Non importa quello che tu vuoi o non vuoi, importa quello che tu puoi o
non puoi.
La frase che le nostre mamme a casa ripetevano, per farci accettare
proibizioni e rinunce era- L’erba voglio
non cresce nemmeno nel giardino del re
Però dopo aggiungevano di studiare, di impegnarsi, di fare sacrifici,
di avere pazienza. Pazienza e volontà. Elogio della volontà.
Tutto questo bastava per l’elaborazione, la trasformazione, il farsi
una ragione .
La vita che vorremmo è appunto farsi una ragione di come sia andata
ogni cosa, adeguando come un abito ogni avvenimento alla taglia che indossiamo
per andare nel mondo ben vestiti e con stile. L’identità che possediamo
dubitando.
Ippolita Luzzo
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