lunedì 2 febbraio 2015

Fuori post



Fuori post

Breve storia della mia vita da non giornalista

Dalla Rubrica La Regina con Stile su Scirocconews solo due post

“Che torni a fare al sud” e “Oltre il pregiudizio universale”

Sulla Masnada “Dove Ritorniamo”

Su Prospektiva “ Donne senza orgasmo” e su Comunità Nomadi non mi ricordo quale post.

Poi decido di creare rubrica su un giornale web e vado in redazione.

Gentilmente accolta, decidiamo titolo della stanza, alla maniera di Montanelli. Si chiamerà Lo Stile della Litweb. Il regno della litweb

Mentre mi avvio ai saluti mi viene rivolta la testuale domanda:- Ti piace paperino?-

Era questa una rubrica, tenuta dalla direttrice, suppongo,  dal titolo- Paperino- che si prefiggeva di divertire con ironia mentre in realtà era di una noia mortale.

Avrei potuto star zitta, glissare sulla domanda, prendere alla lontana paperino e paperina, invece rispondo secca:- No-

Mi immergo poi sul significato della parola ironia, sull’originalità del dettaglio da mettere in luce, sullo stantio da evitare come peste, sui luoghi comuni di coppia che non fanno più ridere, ma mettono una greve tristezza.

Mentre continuo, non mi accorgo che, l’altra, tenta una difesa di cotanto giornalismo puro, non mi accorgo di essere in casa di  autori disneyani e non cerco scappatoie, felice di aver detto la mia su paperino.

Nessuna risposta ebbi più dal giornale, nessuna rubrica ci fu, onta che fu punita con ostracismo dall'ordine dei tesserati.
Dal paperino ai tanti paperino che sul giornale leggiamo, notizione su cose insignificanti, più sono insignificanti i fatti più sono altisonanti i titoli. 
Preferisco stare fuori post e regnare nel mondo della Litweb 

venerdì 30 gennaio 2015

Una storia, due storie, tre storie. Fatti, non storia

... Leggo, su facebook,  la cotale confessare due storie, avute su facebook, e mi trattengo dall'intervenire, non sia mai anche costei mi possa segnalare quale disturbatrice dell'ordine universale circa incontri deviati in storia.
 
Leggo e sento, ricordandomi uno studente, un certo Onorio, che riferiva di storie finite con tizia, caia e sempronia, ed io mi domandavo:- Ma che storie sono? Questa non è storia.-
Sono fatti, avvenimenti, incontri, fugaci, non storia.
-Non avete avuto storia e storie su facebook- mi vien voglia da dire.
Una mia amica mi contraddice, raccontandomi di una sua vicina, rimasta vedova, che iniziò a mettere foto di lei, foto di lei, foto di lei, finchè non si sposò. Dopo tante storie.
Molti infatti cambiano corso di frequentazioni qui su facebook, e diventa una storia, una, che ha un suo iter e delle conseguenze.
Per esserci storia bisogna infatti rintracciare le fonti e t le concatenazioni di avvenimenti
Tutta la storia è una conseguenza
Rimanendo nell'enunciato sbagliato dell'aver avuto tre o dieci storie, potrei suggerire di usare il termine incontro. Ho incontrato... e poi non mi sono incontrata più.
 Questo sarebbe il riassunto delle tante storie che leggo quassù su facebook per semplice diletto.
Da lettrice retrograda e conservatrice io credo ancora nella storia di coloro che fanno la storia
una storia

mercoledì 28 gennaio 2015

Cerco un gesto, un gesto naturale- Gaber sono io? O lui é me?

 

Scritti da Gaber e Sandro Luporini

Omaggio ad un grande album

 

 

Far finta di essere sani è un album di Giorgio Gaber pubblicato nel 1973.

 

 

Storia della mia vita scribante. A pezzi

Gennareniello, una commedia di Eduardo De Filippo, si recitava quella sera a Napoli, nel sottoscala di un dopolavoro ferroviario, dicentesi teatro off, con pubblico, alcuni  in vestaglia e ciabatte,  altri in sontuosi tailleur di velluto nero e calze ramificanti, con  rose,  su splendide dècolletè nere. 
 Pubblico indigeno ed esterno, venuto per l'occasione.
 Un trionfo.
Io, ogni tanto mi svegliavo, e, fra  sonno e dormiveglia, la rivelazione.
Come dice Flaiano, nello Spettatore addormentato, sono questi i momenti che squarciano il velo fra noi e il testo, fra noi e noi.
Gennareniello, sul palco, con in mano un foglio, stava seducendo, a suo modo, una donna, leggendo un suo scritto.
Ve lo leggo?- diceva, dopo aver preso da una tasca il foglio  e senza aspettare leggeva, amando quello che leggeva, senza curarsi se la malcapitata volesse o meno sentire quel suo canto dell'anima.
L'ingenuità del personaggio sarà facile oggetto di scherno da altri più scafati e lo scritto sarà motivo di ridicolo, non già di stima.
Ridendo amaramente e scherzosa, io, sveglia, promettevo alla mia amica che mai più avrei estratto dalla borsa un foglio ed avrei letto, a conoscenti e non, quello che avevo scritto la mattina.
Ridemmo molto, infatti, io della mia scoperta, lei del suo elegante tailleur, tutte e due capitate in una confusione di termini.
 Lei si era vestita per andare a teatro, e non nel  sottoscala, io, in quel sottoscala, avevo capito cosa succede se ci prendiamo troppo di una passione.
Scivoliamo nel ridicolo.
Così chiusi per sempre l'esperienza del foglio.
                                                                            Ippolita Luzzo




domenica 25 gennaio 2015

Giorno della memoria- Patrick Modiano



Patrick Modiano- Se perdo te non perdo te

Dora Bruder

Scomparsa due volte. 31 dicembre 1941 e morta ad Auschwitz nel 1944

Modiano racconta l’orrore raccontando se stesso, il suo rapporto vuoto con genitore, il suo essere solo con la sua scrittura, i suoi occhi che vedono oltre le carte, la burocrazia, il numero.



“Ci vuole tempo per riportare alla luce ciò che è stato cancellato. Sussistono tracce in alcuni registri e si ignora dove siano nascosti, quali custodi veglino su di essi e se quei custodi accetteranno di mostrarli. Può anche darsi che ne abbiano semplicemente dimenticato l’esistenza."



Si dice che i luoghi serbano una lieve impronta delle persone che li hanno abitati. Impronta, segno incavato o in rilievo. Per Dora Bruder e genitori, Modiano dice: incavato.

“Ignorerò per sempre come passava le giornate, dove si nascondeva, in compagnia di chi si trovava durante l’inverno della sua prima fuga…

È il suo segreto. Povero e prezioso segreto che i carnefici, le ordinanze, le autorità d’occupazione, il Deposito, le caserme, i campi, la Storia, il tempo – tutto ciò che insozza e involge – non sono riusciti a rubarle.”

Nella storia dell’intolleranza e delle faide sociali, inutili, senza senso , ma tremendamente sanguinose e feroci bisogna ricordare una semplice frase.

Del libro di Jean Genet “ Il miracolo della rosa” Modiano cita questa“ Quel bambino mi faceva capire che la vera sostanza dell’argot parigino è una mesta tenerezza” riferita ora ai bambini che nascono in Italia da nazionalità diversa e parlano italiano essendo stranieri, riferito a Dora, a tutti i bimbi ebrei, polacchi oppure palestinesi, che parlavano e parlano con l’accento parigino usando termini di argot di cui Genet sente mesta tenerezza.

Tenerezza nel ricordare.

Dopo la catastrofe dello sterminio, dei campi di concentramento, delle divisioni fra razze, dei forni, degli esperimenti, del collettivo partecipare a riti di pulizia etnica, dopo…

Tutto cancellato nella Parigi disegnata dallo scrittore, i quartieri, i luoghi della scomparsa di Dora, delle retate, dello smistamento.

“ Mi sono detto che nessuno ricorda più niente. Dietro il muro si stendeva una no man’s land, una zona di vuoto e di oblio…

Eppure sotto quella spessa coltre di amnesia si sentiva qualcosa, di quando in quando, un’eco lontano, soffocata, anche se nessuno sarebbe stato in grado di dire cosa, con precisione.

Era come trovarsi all’orlo di un campo magnetico, senza pendolo per captarne le onde.”

Tutto resta fra le strade come un sussurro.

La solitudine permette di ascoltare il fruscio dei suoni, delle parole di chi non c’è più, la solitudine permette a sconosciuti di invadere i nostri pensieri e dialogare con noi, oltre il tempo, oltre il sensibile, con un respiro.

Da cosa scappava Dora, si chiede Modiano, parlando di lui, lui è Dora.

Che cosa ci induce a scappare, oppure a nasconderci? Vediamo cosa scrive Modiano: “ Sembra però che ciò che ci spinge a fuggire  d’improvviso sia un giorno di grigiore e di freddo che ci fa provare una solitudine ancora più acuta è la sensazione di una morsa che si chiude”

Ora Modiano dice una cosa che dico io, che diciamo tanti:” Come molti altri prima di me, credo nelle coincidenze e talvolta a un dono di veggenza nei romanzieri… e la parola dono non è il termine giusto, dal momento che suggerisce una sorta di superiorità. No, si tratta di qualcosa che fa parte del mestiere: gli sforzi di immaginazione, necessari a questo mestiere, il bisogno di fissare la mente su piccoli particolari…” questa tensione può suscitare fugaci intuizioni concernenti fatti passati o futuri, come scrive il dizionario alla voce < Veggenza>

E questo pomeriggio di domenica, siamo di nuovo in inverno, il 25 gennaio del 2015, passato con Dora Bruder, con Modiano, in una commozione di simili, di appartenenza a fughe solitarie, di appartenere ai disegni della storia che ci chiedono sempre una azione, ignorando noi il fine.

Un libro grande nel suo essere vuoto di fatti e sull’abisso dove molti parteciparono per annientare categorie, etnie, linguaggi, famiglie.

Un orrore così grande che ci regalò altri settanta anni di pace. Terrorizzati.

Riusciremo ancora a preservarci? L’augurio che mi faccio e che si saranno fatti al Nobel consegnandolo nelle mani di Modiano.








La solitudine

Non ho scelto io la solitudine
La solitudine ha scelto me
Ho tentato di allontanarla,
ogni giorno
ho tentato.
Lei è ritornata da me,
sempre più forte.

Guardo mia mamma, stanca di tutta una solitudine antica, continua, senza un solo giorno di felicità, una solitudine di noia, di giorni senza aria, costretta alla cura dei suoi familiari, di chi l'ha carcerata, di chi l'ha soffocata, di chi l'ha impaurita.

Guardo mio fratello, mio padre, incarcerati dalle loro stesse circonvoluzioni.
Uno, disfatto da cotanto padre, l'altro, deluso da cotanto figlio.
Una lotta continua fra un debole ed un arrogante, fra un bambino e un bambino,
due bambini malati e fragili, un equilibrio che sembra sempre che stia pericolando in bilico fra sanità e follia.

Guardo mia sorella, saggia, propositiva e sfiancante, con tutto un carico di attenzioni verso casa, verso loro, verso tutti, un voler colmare il mare della disattenzione, con abnegazione, su piccoli, infinitesimali gesti quotidiani.

Una vita fatta di anni, giorni, ore, minuti, senza relazioni, senza visite, senza fuori, senza niente.
Invidiata.
Mi invidiano la mamma ancora in vita, i facentesi parenti, me lo dice dal fruttivendolo, incontrandomi, la lontana cugina plurimaritata, al ritorno dai campi da sci, me lo dice a voce alta:- Beata te, che hai tua mamma autonoma, che esce, mentre la mia è paralizzata e devo farle spesa!- Mi dice
Io ribatto che la sua mamma ha una badante notte e giorno ma lei, lei mi invidia.
Mi invidiano tutte questa mamma che a novanta anni fa cruciverba ed è lucida, carina, affabile, un lenimento al vivere, eppure ora tanto stanca.
Me lo dicono a voce alta, quelle rarissime volte, in decennali, in cui incontro il parentame.
Un parentame che mia madre ha sempre accolto al suo tavolo, e che si è pulito il muso, dissociante.
Un parentame sconosciuto e formicolante, che non vedremo ai nostri funerali, strettamente solitari, come abbiamo vissuto.
Nessun amico ha avuto il mio papà, almeno noi non lo sappiamo, lui andava solo al campo sportivo, la domenica, misurato, seguiva le partite,  non usciva se non per lavorare.
Alcune vicine aveva la mia mamma, ora sono tutte morte.
Nessun vicino, vicino casa mia. Svuotato il centro storico di un paese.
Solo la Chiesa accoglie mio fratello, i suoi riti, il coro, la messa domenicale.


La solitudine ci ha scelto come nucleo familiare, come entità personale, facendosi beffa del nostro essere sociali
Facendosi beffa del nostro voler vivere ed amare
Del nostro smisurato impegno a vivere una vita che sia normale
Ippolita Luzzo 



sabato 24 gennaio 2015

Gegè dopo Mogol, uguali



Gegé Telesforo.
 Dopo Mogol lui, con il complesso d’inferiorità che non  farà mai dire quanto sia stato utile, per entrambi, incontro con Lucio Battisti, Mogol, e Renzo Arbore per lui.
Anzi, Renzo Arbore trattato come un coetaneo, mentre lui, Telesforo  è nato  a Foggia, 14 ottobre 1961 e Renzo  a Foggia, 24 giugno 1937.
Tutto alla pari, nulla su Renzo. Lo chiamò, lo portò a fare il presentatore e lui, oh, lui, aveva già fatto altro.
Così si evince da conversazione lunghissima su un palco con conduttore a volte visibilmente a disagio, vedendosi sdoganare due palle, per ben due volte,  e canne e cannoni, che artisti si fanno per dare di più.
Veramente fuori  da eleganza, lontanissimo da Renzo, che è e resta il vero genio innovatore.
Inizia dicendo che a Foggia si sta male, malissimo, ultima città per tenore di vita, penultima.
Continua dicendo che è la mentalità sbagliata al  sud e che però lui fece palestra per pugilato, forse con Carofiglio?, e questo servì a difendersi ad Harlem.
Lui si sente Afroamericano di Foggia, la città diventò il suo parafulmine ed ha incontrato, lui di Foggia, Myles Davis e Ray Charles, il resto, io, non conoscendo, non ricordo.
Insomma lui un grande diventò, con questa passione per la musica, assorbita a casa, dal suo papà, architetto, cultore di jazz,  che gli regalò una batteria, a pezzi, un pezzo alla volta.
Un uomo fortunato, da sesto piano.