domenica 25 marzo 2018

De Chirico: Enigma dell'infinito al Museo MARTE di San Pietro a Maida



La qualità è rivoluzionaria.
Di nuovo in Calabria, dopo una mostra al Maon di Catanzaro nel marzo 2006, una raccolta di opere di De Chirico
Al Museo delle Arti e del Territorio di San Pietro a Maida un evento espositivo in programma dal 24 al 31 marzo mi vede per caso presente grazie all'invito di care amiche. Sono molto felice quando in un mondo di robot incrocio esseri umani.
Piacevolissima serata dunque con l’Enigma dell’infinito "40 anni di Giorgio De Chirico". Una struttura museale presenta un progetto riconosciuto di interesse regionale e la mostra è realizzata con il contributo della G.R. nell'ambito dei finanziamenti per valorizzare e qualificare un territorio. Sono infatti presenti Salvatore Bullotta Responsabile Dipartimento cultura della regione Calabria e Giacinto Gaetano direttore del Sistema Bibliotecario Lametino.
I miei appunti conservano alcune immagini: Il sindaco Pietro Putame racconta la nascita del Museo da una idea del professore Michele Licata, con il contributo per i reperti archeologici del professore Antonio Spanò e per la parte antropologica del Professore Pietro Gullo, Direttore del Museo.
Siamo nei locali di quella che era la Scuola Primaria, sul corso cittadino del paese, e ascoltiamo Ermenegildo Frioni, della Organizzazione Artistica FriArte, raccontarci di De Chirico, del suo carattere quasi scontroso, del suo salutare con un cenno impercettibile.
La mostra espositiva sarà una settimana di studio sulle sue opere seguendo due o tre frasi che mi sono appuntate: La povertà di una volta poggia sulla ricchezza di oggi, dice Pietro Gullo, e " anche una rosa dipinta può essere rivoluzionaria" una frase detta da Picasso e riportata da Pasquale Lettieri, critico d'arte, in un suo appassionato intervento in favore della qualità. La qualità è rivoluzionaria e comprende la capacità di usare termini passatisti per l'avvenire. Tra classicità e avanguardia pittorica, nella necessità di adattabilità,  i doppi punti vista dei pittori fiamminghi e Rubens molto amato da De Chirico.
Marcello Palminteri, nel suo precedente intervento aveva legato la musica e la filosofia alle opere di De Chirico ed intanto il Sindaco si dirige al taglio del nastro e noi tutti sciamiamo nelle sale al piano superiore.
 Una occasione per ammirare De Chirico ed insieme nelle altre sale le opere di artisti a noi vicini, Antonio Pujia Veneziano, Francesco Antonio Caporale, Antonio Saladino,
 per segnalare una attenta visita nelle altre sale dove ho incontrato in tutti gli artisti il contemporaneo della qualità.

Qualcosa è cambiato nel sud non più valigie, scrive Giovanni Barone come titolo a questo suo lavoro esposto al Marte di San Pietro a Maida. Nel museo opere di artisti che offrono in visualizzazione la croce di tutte le valigie
Ippolita Luzzo 
      

venerdì 23 marzo 2018

La fiaba di Massimo Carlotto: Amal vuol dire speranza

Non è questo il titolo del libro da cui è tratto lo spettacolo di stamani al Liceo Classico di Lamezia Terme, proposto e organizzato dalla Fondazione Lilli e dal Sistema Bibliotecario.
La via del pepe con sottotitolo I mercati del Mediterraneo narra in parole e musiche l'epopea di annegati al largo di Lampedusa. A prua nel barcone sta Amal, la speranza, con cinque grani di pepe stretti nel pugno, sono il dono del nonno, un uomo legato al sacro, sono il dono simbolo della lunga via della storia. Sul barcone intanto si scruta l'orizzonte, si aspetta la terra, e mentre si attende, e mentre fiduciosi si abbandonano al rumore del mare avviene il collasso. La carretta del mare si sbriciola, annegano tutti, tutti tranne Amal, la speranza.
Appare nel mare una strana figura, fatta di acqua, ma con un viso femminile, la morte a forma di acqua, e inizia a discorrere con Amal per distrarsi, per allontanare la noia. Amal, smarrito, viene a sapere del potere insito nei cinque grani di pepe, lui non annegherà, per il momento, grazie alle arti del nonno, rimasto in Africa. Nel dialogo con la morte il ragazzo si accorgerà ben presto che non vi è  nessuna dignità in questo viaggio e lascia andare i grani. La morte li rimette nel suo pugno con le parole "Non bisogna prendere la morte sul serio". La morte gioca come il gatto col topo e alla fine lascia andare Amal giù nel mare. Una fiaba però ha sempre la potenza del bene, e il nonno riappare, prende il posto del nipote, Amal arriva, sbarca, non viene creduto, viene rispedito di nuovo in Africa, in un luogo imprecisato e ritorna il cammino con una picozza in mano per trovare l'acqua.
Ed è la tristezza il segreto per trovare la vena, sembra dirci Massimo Carlotto, davanti a questa immane tragedia che ogni giorno vede i nostri tempi trascorrere.
Un cimitero, il mare Mediterraneo, un cimitero di numeri senza nome, un cimitero di nefandezze compiute in nome del dio mercato, in nome del commercio di corpi venduti e spellati, venduti e annegati. Una tristezza tanto enorme da richiedere l'uso fiabesco del racconto.
Ascoltiamo le musiche di strumenti di quei luoghi, uno è unico al mondo, Maurizio Camardi e Mauro Palmas suonano, e sentiamo il pizzicore agli occhi, come se ci fossimo toccati gli occhi con la polvere rossa del pepe pestato.
Nella fiaba la luna ha una lacrima, il cielo partecipa con un turbine, gli elementi della terra e dell'acqua si danno un abbraccio nella dolente ingiustizia della storia umana, individuale e di popoli.
"Nel cielo non c'era una nuvola. Nemmeno una. La mano di Dio le aveva allontanate con un gesto delicato perché l'azzurro più intenso splendesse nella traversata del peschereccio Firouz. Il mare era immobile e così trasparente che si potevano contare le conchiglie sul fondo di sabbia dorata. Migliaia di sardine avvolgevano lo scafo" 
Con il cielo fotografato da Daniele Rizzuti, la massa degli elementi che sovrastano i delitti e le atrocità commesse in nome del bisogno. 
Il bisogno di Amal, la speranza. 
Ippolita Luzzo   

martedì 20 marzo 2018

La casa dei bambini di Michele Cocchi

Per fortuite circostanze compro domenica il libro di Margaret Atwood, Il racconto dell'ancella, e mi sembra che questo racconto parli al libro di Michele Cocchi, La casa dei bambini.
Entrambi i racconti si svolgono in una casa prigione ed in entrambi la privazione della libertà, un senso di claustrofobia aleggia dappertutto. Il desiderio della fuga, l'elogio della fuga, come nel bel libro di Laborit, viene materializzato già dalle prime pagine del libro di Michele. Da subito i ragazzi, orfani, oppure abbandonati dalla famiglia,  scappano dalla Casa, dove vengono ospitati in attesa della scelta, per essere dati in adozione, scappano e noi già parteggiamo per quella fuga senza ancora sapere nulla di loro.
La fuga finisce presto, verranno scoperti e portati dal direttore. Sandro, Nuto, Dino.
Conosciamo La Casa, conosciamo Giuliano e le mamme, cioè le donne che si occupano dei bimbi, la scuola, la mensa. "La Casa era come una nave e ognuno di loro avrebbe trovato la terra dove scendere e vivere felice"
Alla casa arrivavano le persone per scegliere i bimbi da prendere e quelle mattine erano tutti nervosi. "Aspettavano la scelta per settimane e, quando finalmente ne arrivava una, volevano che finisse il prima possibile." Essere scelti, in verità, li preoccupava. 
Segno ciò che si dicono i due libri, letti insieme, uno transita nell'altro, e nel mio mondo fatto di niente trovo la mia di pagina: Qui conosciamo Caterina, la bimba della locanda, nel paese dove si trova la Casa e sentiamo le parole di sua madre al pensionante, da poco arrivato "Il paese è abitato da vecchi. I giovani se ne sono andati via. Così si era inventata Dalma."Ha sempre avuto degli amici immaginari anche quando era molto piccola. Ho paura che perda il senso della realtà"
Caterina, per giocare, si era inventata Dalma, ed "a volte non era poi tanto male perdere il senso della realtà" Da me i libri si parlano e confabulano tra loro, ed è Caterina ora ad andare alla Casa, in visita, per mano di uno di quei bambini che avevano tentato la fuga. Una fuga dal reale. 
Nella Casa dei bambini la storia chiusa, chiusissima, di una ingiustizia senza possibilità di fuga.
Michele Cocchi adotta uno stile compatto, come un mattone, racconta con descrizioni accurate e costruisce come un muratore, a sua volta, con la malta, le pareti narrative del periodo. 
Una prova complessa, una scrittura corposa, un esercizio di attenzione e un impegno verso i disederati, gli orfani, le vittime, verso coloro che hanno perso la possibilità di fuga. 
Ippolita Luzzo   

lunedì 19 marzo 2018

Piccola società disoccupata al Teatro Morelli

A Cosenza è sempre bello andare.
Bellissimo il Teatro Morelli, ed alla confluenza dei fiumi Crati e Busento la Rosticceria Sasà con i suoi gustosi panzerotti filanti di mozzarella e colorati dal rosso del pomodoro.
 Da stampa alternativa ringrazio chi legge e chi mi regala opportunità di esserci a spettacoli e incontri. Ieri sera, al termine di una domenica ricca di spunti con la riflessione sullo sciupio del palazzo D'Ippolito a Lamezia, sull'incuria in cui vengono lasciati dalla Sovrintendenza e dal Comune palazzi storici, stiamo qui in prima fila ad ascoltare la Piccola Società Disoccupata.
Rémi De Vos drammaturgo francese, nato a Dunquerque Francia, è l'autore del testo. La drammaturgia e la regia di Beppe Rosso.  
Ordunque Marx è morto.
Sul palcoscenico del Teatro Morelli  le sedie prima accatastate vengono sistemate ben in ordine come in preparazione di una conferenza, di quelle conferenze sul lavoro tanto dibattute.
Il cerchio la pipa e gli psicofarmaci usati per lenire il disagio. Il disagio si allarga e si spande e come una nube piovosa arriva a noi spettatori incapaci di opporre un ombrello al riparo della pioggia.
Il drammaturgo aveva di sicuro in mente la sofferenza alienante  di un dire, ma a chi? Non essendoci più un capitalista riconosciuto in quanto tale il dire dei lavoratori non più lavoratori si annulla in un nichilismo di fatto e si spiaccica sulla sala nel corpo degli spettatori. 
Senza lavoro cos'è un uomo? Senza un motivo per vivere, senza una gratificazione, senza poter dire so fare questa cosa, sono abile, sono bravo, come si vive? Certo il lavoro serve per guadagnare, ma serve essenzialmente ad avere una dignità, ad essere in grado di vedersi capace. Molto si è detto sull'alienazione, molto ora si dice in giro sulla disoccupazione, molto era stato discettato e così risentire ieri sera a teatro, da attori pur molto bravi e competenti, uno studio, credo sia proprio uno studio, sugli effetti del non lavoro obbligato dalle circostanze, ha creato in me e in altri disagio e malessere.
Nelle migliori intenzioni spesso, come Goethe ci insegna, si resta perplessi sulla riuscita. Il teatro non è una conferenza.  
Noi però eravamo troppo felici e ritorneremo a Cosenza con il teatro che amiamo. 
Ippolita Luzzo

foto dello spettacolo di Angelo Maggio   
   
   

sabato 17 marzo 2018

La maligredi di Gioacchino Criaco

La maligredi è la malvagità, è quel sassolino che sbatte contro il parabrezza di un'auto in corsa, sembra che non abbia prodotto niente e dopo poco il vetro va in frantumi irrimediabilmente danneggiato. La maligredi è la brama del lupo, il lupo in un ovile scanna tutte le pecore. "Quando arriva, la maligredi spacca i paesi, le famiglie e avvelena il sangue fino alla settima generazione". La cattiveria, il rancore, la sete di vendetta, ciò che distrugge, e da ciò le donne hanno sempre cercato di tenere lontano gli uomini consigliando la pace e il perdono, tenere l'animo sgombro e invitare alla concordia.
Un popolo ingenuo e innocente era un tempo il popolo dei monti, un popolo abitante un monte luminoso, Aspromonte vuol dire proprio monte luminoso, lucente, innevato di bianco e splendente al sole. Un popolo di antichi riti grecanici e bizantini, una comunità, quella di Africo, con le rughe, con i bisogni condivisi, con profumi e racconti.
Stasera il protagonista dei racconti di Gioacchino Criaco è suo nonno, stesso suo nome, un nonno desideroso di trasmettere ciò che è stato cancellato dalla storia ufficiale. Una vita di una comunità sradicata e spostata in un non luogo, in una piana, una palude dove si viveva in malattia e asma, senza respiro. Il racconto di Gioacchino ha un ampio respiro stasera, via l'asma e la palude, via il malessere, bensì il recupero dell'orgoglioso momento in cui negli anni settanta si tentò una rivolta con a capo Rocco Palamara, anarchico, a rivendicare un paese e la sua esistenza.  Un sequel o presequel di Anime nere questo libro che sembra voglia aggiungere altri protagonisti, altri abitanti in un luogo che si vorrebbe far rivivere, anche se pur come luogo di incontri letterari. Nel libro, fra i tanti personaggi, le gelsominaie, le donne lavoratrici e raccoglitrici di gelsomino  staranno al fianco dei ragazzi in una lotta che lo Stato soffocò e disperse. Allora la politica preferì allearsi contro di loro, chiedendo braccia e menti alla maligredi e vediamo i frutti avvelenati fino a qui.
Da Staiti a Brancaleone con le nenie bellissime delle mamme, il vento di Africo, il libeccio, e Rocco Palamara, la storia dei ragazzi d’Aspromonte ora chiude il ciclo sempre nella stessa libreria, nella Sagio Libri, dove ora Pasqualino Bongiovanni  comincia con La Rosa nel Bicchiere di Franco Costabile e siamo a dieci anni, dice Gioacchino Criaco. Dieci anni da Anime nere. Fare giustizia di tanti stereotipi.
Ascoltare Gioacchino è sempre un piacere, si va via pacificati. La nobiltà dei gesti e dei pensieri nella narrazione di Gioacchino Criaco confermano una nuova stagione. La stagione della comunità di scrittori calabresi.  Io dico che questo è il periodo d’oro della narrativa. Da Domenico Dara ad Olimpio Talarico, a Nicola Fiorita e i Lou Palanca a Nicola H. Cosentino, a Pietro Criaco e a moltissimi altri. Il bisogno di comunità, di stringersi in un luogo letterario vedendo i luoghi reali trasformati in non luoghi. 
Fra i libri citati questa sera quelli di Saverio Strati, Mario La Cava, e Via dall’Aspromonte di Pietro Criaco. Quella via che avrebbe dovuto collegare il paese alla pianura ora collega tutti noi nella letteratura della conoscenza.
Ippolita Luzzo   

lunedì 12 marzo 2018

"Brasilia" tra il vero e il falso di Franz Krauspenhaar

"Il sole stava per tramontare su Brasilia, la città che sembrava non avere confini tra il vero e il falso, tra il reale e l'irreale." così a pagina 23 cominciamo questo giro con una Buick giallo canarino verso gli uffici della tv privata Tuni, nello studio dove nel 1980 si mandavano messaggi subliminali. Leggo come se Franz Krauspenhaar stesse parlando di Reti televisive private italiane e il parallelo mi fa sorridere. Immaginare una Brasilia a Cologno Monzese mi sembra facilissimo e il popolo delle favelas di Brasilia italiana saranno poi gli elettori di una sigla pubblicitaria.
"Brasilia ha gli edifici a forma di astronave, tra i pezzi grossi di pattume intorno, come se si stessero creando campi di calcinacci attorno a navi spaziali enormi, messe in mezzo a una città sbalorditiva.”Brasilia: tra i palazzi e le costruzioni a cupola e le bellissime cattedrali di Niemayer puoi ascoltare la grandezza del cosmo."
Leggo quindi questo racconto immaginando Franz divertirsi con fantasmi e sparizioni in un incontro fra padre e figlio, fra passato e presente, fra giornalismo e narrativa. Nello stesso periodo in cui leggo il libro mi viene incontro un articolo su come Oscar Niemeyer fu incaricato dal presidente del Brasile di creare questa città nella giungla, e di come lui si avvia in macchina, un viaggio lunghissimo. 
Dalla Porsche di Grandi Momenti, qui, siamo in viaggio su una Buick gialla, sempre belle macchine guidano la narrativa dei libri di Franz.
Io ho letto Brasilia più come un gioco, come un divertimento, che non come uno libro che debba incutere paura, pensando di avere alle spalle tutto il narrato fatto di esperimenti nei vari campi di concentramento e tutte le insensatezze di regimi totalitari.
Mi auguro sia così almeno e mi auguro che i racconti su grandi poteri dominanti restino sempre confinati sulle pagine scritte dell'immaginario letterario per esorcizzare il dilemma esistenziale su buoni e cattivi, su padri e figli, su ricchi e poveri. In viaggio da In Time, film dove i ricchi potevano comprare il tempo a Brasilia, dove basta bere il siero dell'eterna giovinezza, televisiva
Ippolita Luzzo     

sabato 10 marzo 2018

Gli automi cellulari all'Uniter

Arriva l'evoluzione artificiale all'Uniter con la relazione di Domenico Talia, professore presso l'Università della Calabria.
Tema della relazione: " Sistemi Complessi e Evoluzione Artificiale con Automi Cellulari."
A dirla così non si evince la piacevolezza della serata e il senso di benessere alla fine nell'aver certezza che una regola base, semplicissima, sta all'origine di ogni vita vivente: una costruzione matematica precisa. Come nasce la vita? Come si replica? Come muore e poi torna a rivivere?
Seguendo il principio, dal particolare all'universale, dal fenomeno nascente al fenomeno emergente, il professore Talia ci ha avvinto alle sorti di un automa cellulare in grado di riprodursi seguendo le leggi della vicinanza, del calore, dello spostamento, e poi negli esempi sulla nostra vita abbiamo capito quanto anche il nostro cervello altro non sia che un automa cellulare! Non c'è un pilota che guida i nostri neuroni, il volo degli uccelli o gli spostamenti dei pesci, bensì una regola, innata, dicevano i filosofi, vedendo già un tempo molto lontano ciò che vediamo ora con altri mezzi. Dai sofisti a noi, dalle analisi linguistiche della scuola di Noam Chomsky che hanno teorizzato l'esistenza di strutture grammaticali innate, cioè presenti nel cervello già alla nascita (e.g. nell'area di Broca), senza le quali i bambini non potrebbero sviluppare una competenza linguistica e in psicologia all'innatismo modulare, assumendo l'idea di base che la mente sia costituita da insiemi più o meno connessi di strutture o moduli innati, incapsulati, specializzati e selezionati dall'evoluzione per eseguire funzioni particolari, siamo giunti ad un vero e proprio laboratorio di Intelligenza artificiale. Affascinati dalla lezione, dal cristallo di neve alla nevicata, dalla conchiglia alla regola,  continuiamo a svolgerla nella nostra testa con Goethe, dal particolare all'universale con in mano la foglia del ginko biloba, 
E’ una sola cosa viva
Che in se stessa si è divisa?
O son due,che scelto hanno,
si conoscano come una?

In risposta a tal domanda
Trovai forse il giusto senso.
Non avverti nei miei canti
Che io sono uno e doppio insieme?    Goethe
 ...è la mia continua domanda, la stessa tensione, sempre. Ogni cosa che dico, da semplice appassionata di chi scrive, tende sempre a chiarire, a mettere luce nella divisione e trovare l’unione, il percorso unico. Ed il professore Talia ieri sera ce lo ha dimostrato con precisione matematica. Una regola tanto semplice da essere sicuramente divina.
Ippolita Luzzo