Gli Yanomani 2 gennaio 2012
Quell'anno che mi fissai con la tribù degli Yanomani.
Insegnavo a Monterosso, in una prima media e facevo storia, o meglio avrei dovuto, ma non potevo.
Quell'anno esistevano solo le tribù amazzoniche, il loro mondo, perché si erano fermati, perché vivevano ancora in un periodo astorico senza progresso, senza divenire.
"Erano cretini?" mi domandava qualcuno
"Sicuramente" si rispondeva da solo "Sono inferiori, ma sì, ma sì" diceva quello, compiaciuto, a tavola, di tanta evoluzione, di tanta comodità.
"Noi occidentali siamo progrediti, noi siamo migliori" e poi continuava "Cos'è l’intelligenza? è sicuramente un popolo non intelligente"
Questo fra un primo ed un buon caffè.
Ed io ribattevo con tutto lo strutturalismo, con la filosofia dell’essere che loro avevano introiettato e noi no, noi eravamo figli del divenire mentre loro erano andati nel profondo dell’incontro fra uomo e natura e noi avevamo scisso per sempre il nostro legame beoti e incoscienti di vivere ormai nel migliori dei mondi.
Così andavo a scuola e quella tribù da ottobre a dicembre fu ben studiata, usi costumi, linguaggio, suddivisioni in uomini e donne, le donne vivevano solo tra loro.
Avevano capito prima di noi, semplicemente loro sapevano che niente dovevano dire agli uomini, noi ancora caparbie proprio non lo vogliamo capire. Gli uomini, certo, giocavano con i piccoli, quando tornavano dai loro giri, si dondolavano sulle amache, stanchi dalle cacce a piedi, dopo aver inseguito per molto tempo la scimmia, il tapiro, le tarantole e le termiti.
Studiammo il rapporto violento, aggressivo, dell’uomo civile nei loro confronti, il lento e veloce asservimento di un mondo ai biechi bisogni dell’uomo moderno.
Arrivammo a Natale ed io mi accorsi con vero terrore che non avevo fatto né fiabe, né favole, né pleocene e nemmeno sumeri ma avevo spiegato la favola nera dell’oppressione sul diverso, sull'altro da noi.
Nel salutarmi, però, i genitori, venuti agli incontri del primo trimestre, erano sorpresi ma tanto felici, si erano proprio sentiti coinvolti a ricercare cartine geografiche, a rivedere foreste pluviali, a considerare un mondo diverso fatto di riti e danze tribali.
Un mondo popolato da anime, dovunque, negli alberi, nei fiori, nei loro animali, di anime vive che sono con noi.
Ne fui sollevata ma al ritorno a gennaio ripresi il libro di testo e velocemente spiegai gli Assiri, i Fenici, gli Etruschi, gli Ebrei per poi rifermarmi su Greci e Romani.
Ma che meraviglia! Ma che assurdità!
Un duplice mondo, un mondo affannato ed uno fermo, un divenire ed uno stare immobile, un essere per sempre, così come lo chiamava il mio professore di storia della filosofia.
Quel filo spinato che di continuo viene rimesso ad Auschwitz, risistemato per fare scena e consentire le fotografie alle scolaresche e ai turisti un selfie migliore è ciò che di orrore non è più capace. Sbiadito perché ne siamo lontani.
Eppure ne siamo troppo vicini se solo sapessimo vedere quanti fili spinati ormai accerchiano i nostri pensieri.
Fili spinati che limitano un campo, un podere, una casa, un territorio, una nazione.
Fili e poi muri, altissimi muri per arginare l'esodo ci sono sempre stati.
Siamo ignavi che stanno a guardare finché sono gli altri a crepare per noi, finché tu ti butti in un canalone e muori sentendoti chiamare "Africa" e "nero", a Venezia succede, e certo tu ti vuoi suicidare ma nessuno grida "Aiutatelo", possibile?
Possibile anche che una slavina copra un albergo e qualcuno telefoni per avvertire e si senta rispondere che è una bufala, controlleremo, senza però controllare davvero.
Sul filo spinato dal Messico, da tempo esistente, non si potrà più andare negli Stati Uniti, faranno una grande muraglia che si vedrà fin dalla luna e questo porterà progresso e una vera felicità.
Sul filo spinato della memoria anche in Italia si incita alla guerra civile, l'un contro l'altro armato, affinché l'odio purifichi e sterzi verso una guerra e non verso la comprensione.
Sul filo spinato di una memoria che sanguina e brucia, che rabbia fa, sul filo spinato dell'ignoranza ci stiamo bucando le dita e strappando i vestiti.
Ippolita Luzzo
Oggi sono ospite di Una veranda per tre
https://unaverandapertre.wordpress.com/2017/01/26/in-macchina/
In macchina
In macchina- 20 aprile 2013 ore 19 e 45
Ho acceso la radio ad alto volume
per non sentire il silenzio assordante
che mi è accanto, mi accerchia senza scampo.
Ha vinto lui, stasera
Ha vinto nonostante io avessi messo in campo
le truppe in ordine
Una mamma piccina, fatina, vecchina
Una amica con nipotine giocose, ciarlanti, saltanti
Un momento all'Altrove associazione e poi
Una conferenza sull'arte africana e sull'origine del mondo.
Più scappavo più il silenzio, il disagio, era con me.
Ho provato con le compere
Ma lasciavo lì pantaloni e magliettine
verde intenso, verde mela
Reggiseni con il pizzo, con un po’ d’imbottitura,
mutandine e canotte da abbinare,
verde acqua, verde mare.
Li ho lasciati, erano estranei, inutili.
In gran fretta sono ritornata
Solo una fermata dal fruttivendolo
Due tre mele, le arance, le fragole biologiche
gli asparagi, la verdura a foglia larga
Al momento di pagare
la signora mi domanda: Le è successo qualcosa?
Ed io di rimando: Si vede, vero?
Una tristezza così non la sentivo da anni
la giostra gira e rigira e ti riporta al capolinea
Pfui
Spariscono in un baleno i contatti, gli impegni,
il mondo reale e immaginario
sparisce il piacere, la gioia, l’entusiasmo
non basta un’agenda fitta di parole nella settimana che viene.
ora c’è il vuoto
Ippolita Luzzo
Scienze e fiction nel film di Villeneuve sugli schermi mondiali per celebrare un arrivo, gli arrivi alieni.
Arrival vuol dire anche neonato, avvento, apparizione.
Il tempo dell'avvento e siamo già nel Carnevale.
"Arrivano" con le due r del verbo che scaldano i motori, arrivano nei gusci, astronavi del 2017, arrivano dei polpi, dei cefalopidi che emettono inchiostro nero attraverso un sifone, dice Wikipedia, e non uno dei tentacoli. Arrivano per darci un dono che fra tremila anni ci servirà, servirà a loro, ok ci servirà. Il dono di leggere nel futuro.
Andiamo dunque a vedere questo film al Centro Commerciale in una sala vuota, altri due spettatori più in là. In quattro.
Arrival e arriva il neonato, la neonata, la nascita della figlia della protagonista, insegnante e ricercatrice universitaria, non sappiamo se a contratto o meno, comunque linguista, che abita in una casa veranda spettacolare, in un bosco con vista lago. I film sono così.
Arrival sono dodici gusci che stazionano in alcuni punti della terra, Cina, Russia, America, l'Europa è un po' messa in disparte mentre la Cina si prepara ad attaccare il loro guscio, la Russia, il Pakistan ed il Sudan faranno lo stesso. L'America brava brava attende e cerca di comprendere quei segnali prima di intraprendere una guerra intelligente. Fantascienza dunque.
Visto così l'impianto sembra uno schema già fin troppo visto, ed infatti lo è, ridicolo a volte, come ridicolo l'arrivo notturno in casa della protagonista Louise e la battuta sui dieci minuti per preparare uno zaino necessario ad una così importante spedizione.
Un film senza una logica, prima i protagonisti indossano scafandri per andare ed è difficilissimo salire in una specie di parete uterina lunghissima per incontrare gli alieni, poi vanno e vengono senza protezioni come se andassero a passeggio sul corso cittadino e l'uccellino nella gabbia che portano dagli alieni cosa vorrà mai dire? Il grado di concentrazione dell'ossigeno, mi informano.
Protesteranno gli animalisti
La sceneggiatura è basata su un racconto dal titolo "Storia della tua vita" di Ted Chiang e contiene qualche spunto interessante. La difficoltà di comunicazione, di interpretare i segni, il concetto di memoria circolare con possibilità di conoscere il futuro.
Con l'inchiostro della penna stilografica anche io, da bimba, facevo quei cerchi e quelle figure, forse ancestrali, in una memoria dove passato e futuro si incrociano nel luogo effimero del presente.
Un futuro che conosciamo, ne siamo responsabili, scegliendo volta per volta la guerra, la vita o il disprezzo. Un futuro che è un cerchio, molti cerchi, che noi non vedremo.
Salviamo dal film i due attori, non aspettando l'Oscar
Ippolita Luzzo
Open day a scuola ieri pomeriggio.
Inno alla gioia, l'adattamento dell'ultimo movimento della Nona Sinfonia di Beethoven, adottato dal Consiglio d'Europa nel 1972 come inno ufficiale dell'Unione europea, viene suonato dalla orchestra degli alunni dell'istituto comprensivo Ardito-Don Bosco in accoglienza al libro Tante donne di Vittoria De Marco Veneziano, di seguito canta alcune canzoni il coro dell'Istituto comprensivo Manzoni-Augruso, iniziando con "Quelle che le donne non dicono" di Fiorella Mannoia, scritta da Enrico Ruggeri e da Luigi Schiavone, e tutta la presentazione del libro finisce sulle note della marcia di Radetzky,
una marcia militare, opera di Johann Strauss padre, composta in onore del maresciallo Josef Radetzky per celebrare la riconquista austriaca di Milano dopo i moti rivoluzionari in Italia del 1848. Una marcia che ha perso però il significato di sconfitta di un anelito liberale dell'Europa ed è diventata il saluto finale di ogni concerto a Capodanno.
Musica quindi nella sala dell'Istituto Tecnico Economico "Valentino De Fazio" insieme alle letture dei brani del libro.
Martina e Benedetta hanno letto la storia di Artemisia Gentileschi e quella delle gelsominaie di Milazzo, una storia di stupro e violenza la prima, una storia di violenza e lavoro la seconda.
Un libro dalla copertina rosa magenta dedicato a tante figure di donne che hanno messo a frutto il loro talento o che sono state perseguitate, costrette a piegarsi agli eventi come la triste storia di Mariannina Coffa, eppure donne sempre in grado di vincere ogni limite come Simona Atzori.
Un inno al libro, ai tanti libri letti, all'amore per la lettura, perché Libro è sinonimo di conoscenza e di emancipazione ci ha ricordato Vittoria mostrandoci fotografie delle donne da lei scelte, tutte con un libro in mano.
E nell'applauso che verrà fatto a chiunque sia meritevole mi piace chiudere con le parole della dirigente Simona Blandino, un invito ad andare oltre l'invidia, ad ammirare chi sa, a voler riconoscere il valore dello studio e della preparazione ed essere felici del talento in possesso delle donne e degli uomini. In grande serenità.
Alleluia.
"Insisti, persisti, raggiungi e conquista" con le parole della mamma tedesca di Vittoria De Marco Veneziano iniziano gli incontri nella settimana dell'Open day a Lamezia Terme
Ippolita Luzzo
Siamo all'Istituto Tecnico Economico "Valentino De Fazio" per l'incontro con Carmine Abate, scrittore di origine arbereshe che presenterà il suo ultimo libro Il Banchetto di Nozze.
Scopriamo per pura coincidenza che anche la Dirigente è di origine arbereshe, precisamente di Pallagorio, paese a cui io sono legata come prima esperienza lavorativa nella scuola. Scopro ora con mia sorpresa che anche Robert De Niro è arbereshe. Incontro dunque affettuoso, la Dirigente, anche se aveva più volte detto che sarebbe andata via per un altro impegno, è rimasta fino alla fine ed una alunna, Fera Domenica, grande lettrice di Abate, era seduta beata accanto all'autore. Presenta il libro la professoressa Liliana Piricò. Nella conversazione con Carmine Abate una parola emerge: "La rabbia". La rabbia costruttiva che deve trovare un canale di comunicazione, sia con la letteratura oppure con altro, la rabbia contro l'ingiustizia e contro un modello lavorativo, allora come oggi, distorto. Anche Abate scrisse per rabbia vedendo il lavoro del suo papà, emigrato in Germania.La rabbia, dice la Dirigente, deve trovare il canale per essere magica vera importante. Dobbiamo dare un senso ai sacrifici dei nostri nonni che lavorarono duramente per permettere ai figli di studiare.
Io dai miei appunti leggo uno studio di Karol Karp dell'Università Niccolò Copernico, Torùn, Polonia.
Si prende in considerazione tutto il corpus dell'autore nelle tre dimensioni per concentrarsi sulla lingua, l'immagine della Germania e l'immagine dell'Albania
Terzo convegno internazionale Studia Romanistica Beliana
Letteratura italiana dell'immigrazione, dice Karol Karp
E ricordo che
"Carmine Abate è nato a Carfizzi ed è proprio a Carfizzi, che nasce il primo Parco Letterario dedicato a lui, ad uno scrittore vivente.
Ci sarà una sede centrale in una vecchia casa signorile, già Centro Sociale. Accoglierà tutte le varie edizioni dei libri di Abate in cui è contenuta la storia del paese, dalla sua fondazione per opera di profughi albanesi, alla fine del Quattrocento, fino ai giorni nostri, passando dalle occupazioni delle terre all'emigrazione.
Saranno compresi nel Parco Letterario i luoghi più importanti e simbolici e in ogni luogo sarà presente una targa di metallo con una frase dell’autore che lo riguarda.
La prima reazione di Abate, quando ha ricevuto la notizia del Parco Letterario a lui dedicato, è stata di stupore." Ora invita i ragazzi ad andare a visitare quei luoghi descritti nei suoi romanzi.
Riproponendo un pezzo su Carmine Abate chiudo il mio intervento
Vivere per addizione al tempo del Banchetto di nozze
Seguiamo l’epopea di un popolo, nel Ballo tondo e nelLa moto di Scanderbeg, ritmata dal tamburello e fisarmonica del gruppo arbëreshe di Anna Stratigò.
Voliamo sul mare insieme all’aquila bicefala che portò sui nostri monti calabri gli albanesi in fuga dalla loro terra,
la fuga personale di Carmine Abate che insieme al padre, al nonno,
continua attraverso mari e continenti, dall’Albania in Italia, e poi in America, in Germania, in Trentino, andata e ritorno mille e mille volte su tornanti da stringistomaco…
Una vita di addizioni, di aggiunte, con sapori, lingua e quartieri da esplorare.
Una vita da emigrante
Da migrante con una valigia di cartone, con la laurea in lettere, con ostinazione e conservazione.
Abate ha fatto il salto, ha scoperto il cerchio magico che tutto racchiude e racconta l’epopea della famiglia Arcuri, racconta La collina nel vento di Rossarco.
Resistere resistere resistere…
Col colore oro del pomo trentino, frutto non frutto, liscio e tondo, la sfera che rotola sul piano inclinato di terre e di mari, Carmine Abate assaggia l’indifferenza, il freddo e insieme il rispetto, la dignità di essere un uomo che… dovunque vada sarà per tutti un altro da loro.
Per i calabresi è un germanese, per i trentini un calabrese, per i tedeschi altro ancora
Un abitante la terra di mezzo.
Una dieresi, due punti che indicano una separazione nello stesso segno grafico
Chi resta e chi va via
Insieme
Andiamo tutti con Tolkien nella terra di mezzo, nel luogo non piatto del vissuto fra individui che articolano suoni e fonemi su chitarre sbilenche e corrose dal tempo
Andiamo tutti a suonare ancora il canto errante del Pastore alla luna perlacea dei tempi che sono.
La terra di mezzo esiste- disse Tolkien
Io abito la terra di mezzo- Carmine Abate
E tutti noi abitanti nel mezzo, migranti aiutati dal dono del dire, del raccontare,
Fra un mare sporco e un cielo inquinato vogliamo credere che esista un luogo, perché lo creiamo in quell’istante, un luogo di mezzo che ci ospiterà nel continuo vagare. Il nostro quartiere, la casa, la scuola, il paese, la chiesa, un film, una canzone.
Metà per metà … una moltiplicazione
Altro che addizione!
Un bene immenso da farne divisione…
Dopo tanta sottrazione
Ippolita Luzzo
Abituati ai film, alle fiction, ai videogame, ai giochi sul computer, prendiamo per vero ciò che vediamo sullo schermo e applichiamo alla realtà la stessa onnipotenza dell'uomo attore, del robot che muoviamo con un click, con una freccia, destra sinistra e olé.
Tutto facile, tutto semplice.
Abituati ad un pensiero semplice e privo di connessioni conosciamo, pensiamo di conoscere, il sì o il no, il buono o cattivo, e con la stessa caparbietà esaltiamo e condanniamo fenomeni e istituzioni, confondendo Stato con stato, soccorritori con volontari, e donando subito la patente di superman oppure di inadatti e incapaci a chiunque non soddisfi il nostro immaginario di super potenza.
Abituati a vederci come i dominatori del mondo e non come canne al vento...
Sempre attuali sono le riflessioni di chi invita a ripensare sul ruolo dell'uomo nella natura, sulla natura potente che tutto involve, come il tempo, sul nostro essere niente.
Riflessioni già fatte al tempo dell'Illuminismo, riflessioni da fare sempre, anche ora che siamo sempre più in balia di un immaginario di superpotenza e poi basta una valanga, un pugno di neve e siamo sepolti.
Basta una scossa, un fremito e siamo già ignudi, senza tetto, senza luce. Basta un mare in tempesta e giù dai barconi cadono i corpi, annegati.
Un niente della natura può lasciarci inermi, scriveva Leopardi, a chi si inorgogliva dei progressi del secolo. Un niente. Siamo quindi sempre in balia degli eventi, siamo sempre ospiti su questa terra, e se lo ricorderemo saremo più attenti. Almeno ce lo auguriamo
Da Leopardi.
La Ginestra
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive. (cit. daTerenzio Mamiani
, cugino di Leopardi)
Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e vòlti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
In fotografia Rigopiano sotto la valanga