giovedì 15 dicembre 2016

Stradario di uno spaesato di Mauro Minervino

L'autobiografia di una generazione, un viaggio nello spazio, nel tempo e all'interno dell'individuo, raccontato in prima persona, è la relazione che tiene  Mauro Minervino all'Uniter di Lamezia in una sala attenta e partecipe. Una relazione che è un racconto, che è vita, che è il suo libro: Stradario di uno spaesato, pubblicato da Melville Edizione nell'ottobre 2016. 
Miei appunti impressi su uno spazio bianco chiamato social...

Stradario di uno spaesato è la storia di un conflitto fra una generazione e un'altra, fra un dentro e un fuori, fra un sé e la realtà, fra la storia e chi siamo. Sentiamo il conflitto se siamo vivi, se interiorizziamo il tempo, se apparteniamo ai fenomeni sociali come protagonisti, dissentendo. Un conflitto fatto di strade, di tante strade che percorriamo o non percorriamo, basta che si sappia che ci siano. E Mauro queste strade le ha percorse fisicamente e ci sta portando sulla statale 18, altro suo libro, "Statale 18" che va da Paola a Catanzaro, dove insegnava all'Accademia delle Belle Arti,  ci porta nei suoi innumerevoli autostop fatti per raggiungere Cosenza da ragazzo, in una Calabria che vedeva la sua prima Università. Una bellissima opportunità, una grande illusione e realtà, la favola bella  degli studi che siano un riscatto, una opportunità per tantissimi ragazzi  che erano sempre andati fuori. Una favola alla quale io credo ancora, alla quale bisogna credere come necessità. Siamo negli anni settanta... E una generazione di studenti si formerà all'Unical, con incontri prestigiosi, Giorgio Bocca, Danilo Dolci,  con "il mondo fra le mani e una gran voglia di fare".
Mi viene da cantare scrivendo su realtà che non conosco, io andai a Messina all'Università a fare filosofia, ma ora Mauro, dal suo libro, ci regala quel mondo universitario, fatto di incontri, di scontri, di libertà, e nello stesso tempo di delusioni e di amarezze.  Fra ciò che sembrava possibile e ciò che poi è stato c'è la voragine, la voracità, la condizione dolorosa di una realtà smagliata. 

E si allarga lo sguardo di Minervino su tutta la Calabria, percorsa a cento all'ora, di giorno e di notte, soprattutto, con la testa fuori dal finestrino, a cercare la libertà dei pensieri, a cercare una ragione di tanta dissolvenza. Una Calabria smagliata, senza centro, composta da 400 e più comuni, sempre meno abitati, una Calabria che costruisce case, sempre case, non finite, non finito calabro è diventato un  genere artistico, una Calabria che non ha saputo spendere i soldi, quando sono arrivati, una Calabria che lentamente muore e si disfà nell'indifferenza e nell'incuria. 
Dal 1970 ad oggi, il libro ci propone le strade interiori di un pessimismo lucido, di un antropologo che si occupa dello spazio abitato dagli uomini, uno spazio senza più aggregazione che non siano i non luoghi, come ci ricorda Marc Augè, antropologo di grande sensibilità, amico e prefatore di un altro libro di Minervino. Una Calabria che non sa abitare uno spazio con decenza.  Un pessimismo che ci mostra come siamo diventati, dove abitiamo, come vi abitiamo, senza finzione, perché la speranza non nasce dall'inganno ma dal conoscere la realtà. "Tutto ciò che è fuori è anche dentro di noi" sta dicendo Mauro, nel consegnarci l'Apocalisse, i sacchetti della spazzatura ad ogni angolo di strada, una raccolta differenziata che sembra il sogno impossibile, il deturpare continuo di mare, fiumi, aria, e l'anarchia della volontà dei singoli, di chi può.
"La libertà è mettere dei vincoli al mio passaggio, al passaggio di ognuno di noi, altrimenti nessuno si sente responsabile del male che causa."
In una Calabria, che potrebbe essere come la Scozia, dove qualcuno lascia, in boschi incontaminati, la consegna di una panchina affinché un altro possa sedersi e ammirare la bellezza del creato, ci sono 4000 incendi circa all'anno. In tutta Europa nello stesso periodo sono circa 2000. Una Calabria che brucia come se bruciasse la pelle, una Calabria che si disprezza. Penso al film di Albanese, a Cetto La Qualunque che butta un mozzicone ed incendia un bosco. Una Calabria bruciata, con la pelle arsa dal disprezzo di alcuni, pochi abitanti. Il danno su un territorio non amato. "La Calabria Brucia" altro libro di Mauro Minervino che ora ci chiede di mettere attenzione, perché gli incendi sembrano una prova generale dell'Apocalisse di Giovanni, in cui l'elemento dominante, come ricorda Hillman, è il fuoco che viene dal cielo e il fuoco nero che sale dalla terra. 
"Antropologo mercante di stupore" è la sua  definizione di cosa sia un antropologo, di come debba stupire per dare quella meraviglia, da Aristotele, che spinga alla conoscenza. 

Restiamo a chiacchierare un po' prima che inizi la conferenza, restiamo a ritagliare altri momenti con in mano "Nuovi Argomenti", l'ultimo numero dedicato a "L'Europa quando piove" con un articolo di Mauro su "Gissing, come fosse oggi"
Gissing, da lui amato, studiato e tradotto. Gissing che scrisse "Sulla riva dello Jonio: Appunti di un viaggio nell'Italia meridionale" nel 1901. Nelle chiacchiere amicali di una fratellanza che si chiama letteratura appare sorridente una rivista dal nome del cane di Mishima in cui collaborarono, nei lontani anni ottanta, Mauro Minervino, Francesco Garritano e Massimo Celani e tanti altri che fanno parte del regno degli spiriti liberi, conflittuali, che dissentono con ironia, con leggerezza, abitando il mondo delle città invisibili di Calvino, il mondo della trasposizione letteraria. Prendiamo un caffè, e lui, davanti alla mia Lavazza, inquinante mostro di cialde, mi dona la ricetta del suo caffè alla turca, due dita d'acqua bollente e un cucchiaino di caffè macinato, bevuto con tutta la sabbia del deserto, da Istanbul all'Ungheria...e mi piace finire questo pezzo con la marmellata di arance fatta con le arance di Enzo Siciliano, raccolte in quella casa che si chiama Vertano, vicino Feroleto Antico, la casa della sua mamma e riportate a Roma, in regalo da Mauro ad Enzo, nella casa dello scrittore, da spalmare per il rito della prima colazione  Gli affetti che ci fanno uomini. Gli affetti che sono civiltà, dai Sepolcri di Foscolo.   

Mauro Francesco Minervino, fra le tante attività di cui si occupacura per la Luigi Pellegrini Editore la collana Itaca Itaca che sta per dare alla luce i racconti di Quiroga, autore ispano americano, tradotto da Marino Magliano e Luigi Marfè.
Nella stessa collana: Zibaldone Norvegico di Luigi Di Ruscio con la prefazione di Angelo Ferracuti (il vangelo adoperato come poetica) e Naïs Micoulin  e altri racconti, racconti inediti di  Émile Zola con prefazione di Pierluigi Pellini e traduzione di Paolo Fontana
Collana : Itaca, Itaca
e già viaggiamo nei libri come Ulisse, come Kavafis, in un viaggio con un libro in mano. Ritorno ad Itaca. Ritorno a casa. 
Un viaggio generazionale da spaesati 

Ippolita Luzzo 

martedì 29 novembre 2016

Ritorna Calabria Letteraria

L'attesa è stata lunga.
Da quattro anni il direttore Franco Del Buono peregrinava da Cosenza a Catanzaro in cerca di un editore che accettasse di ripubblicare una rivista storica e molto amata. In fine approda a Reggio Calabria e lì trova "La Città Del Sole", la casa editrice che accetta la sfida: Far rinascere la rivista. 
Franco Del Buono, direttore di Calabria Letteraria, ci affascina subito con un discorso dall'eloquio desueto, "Egregi signori e signore buonasera" ci parla di "cristiano respiro"e ci trasporta al momento in cui Paola, la cittadina che diede i natali alla rivista, era ancora nel distretto di Amantea. Fu Gioacchino Murat a dare autonomia alla città e punire Amantea che si era schierata con i borbonici. La storia mi affascina ed intanto il direttore ci riporta alla data di nascita della rivista, quel 1952, quel novembre in cui in una tipografia di Paola si stampa il numero uno. Nel 2012 la cessazione. 
Subita la "inopinata decisione" della chiusura della rivista, edita Rubbettino, lui veste "il saio dell'umiltà" e peregrina" fino a "quando una lucerna rischiarò".  
Siamo nella Scuola materna "A. Stillo" di Sotterra, Paola, nella sede dell'UNLA, ed è quasi un battesimo quello a cui assisto. Siede composto e attento il sindaco di Longobardi, sono presenti gli editori, Franco Arcidiaco e Antonella Cuzzocrea, il caporedattore Federica Legato, e quasi tutto il comitato di redazione, nonché gli eredi di Emilio Frangella, il direttore che fondò la rivista.
Ci accoglie, presenta la serata ed è quasi la madrina della serata nelle duplici vesti di  redattrice della rivista Calabria Letteraria e di dirigente il Centro di Cultura per l’Educazione Permanente UNLA di Paola, Caterina Provenzano.
Una rivista trimestrale, dal formato nuovo, con le parole dell'editore, un formato libro, tale da essere venduta nelle librerie, e nelle edicole librerie, da poter trovare spazio fra i libri, a casa, e consultata con facilità.
Raccolgo della serata molte frasi, molti suggestioni, alcune amicizie e simpatie nate all'istante. Intanto vedo tutti abbonarsi, felici, "una rinascita epocale" esclama Ivan Ciacci, 10 anni sindaco di Belcastro, appassionato di storia locale, nel ricordare che a Belcastro nacque Tommaso D'Aquino. Santino Salerno, scrittore, deve prendere il treno per Palmi, saluta e porta i saluti di Nunzio Lacquaniti, un esserci tramite lui testimone. "Quando gli amici portano l'amico dove lui non può andare."
Armando Nesi mi aiuta a prendere punti e a fine serata l'incontro con Cettina De Seta, figlia di Pietro De Seta, condirettore della rivista al suo nascere, umanista e storico di Fuscaldo, mi dona la poesia "L'attesa" quasi a suggellare che la lunga attesa di quattro anni era ora conclusa. 

E con i versi, che mi regalano gli occhi azzurri e il mare, ritorniamo a casa, sui tasti. Aspettando di leggerla ancora.





Ippolita Luzzo
  
   
   

domenica 27 novembre 2016

L'internazionale di Martinelli: La Pace di Aristofane

Aristofane a Scampia è il libro testimonianza di Marco Martinelli, attore, autore e regista del Teatro delle Albe di Ravenna, un teatro di ricerca che da venticinque anni si espande nelle strade dando vita ad altri teatri, ad altre esperienze teatrali come Punta Corsara a Napoli, come Capusutta a Lamezia Terme.

Siamo stamattina nei locali, appena inaugurati, della compagnia teatrale Scenari Visibili, Tip Teatro, si sta proiettando il video "Eresia della felicità", esperienza fatta in cinque giornate a Milano presso il Castello Sforzesco.
 "Creazione a cielo aperto per Vladimir Majakovskij"
"Ascoltate!
Se accendono le stelle,
vuol dire che qualcuno ne ha bisogno?
Vuol dire che qualcuno vuole che esse siano?
Vuol dire che qualcuno chiama perle questi piccoli sputi? 
..............................................
Ascoltate!
Se accendono le stelle,
vuol dire che qualcuno ne ha bisogno?
Vuol dire che è indispensabile
che ogni sera
al di sopra dei tetti
risplenda almeno una stella?"

Creazione a cielo aperto sulle note dell'Internazionale che lui, un musicista, suona e suona dal sassofono solitario accanto le mura del castello, come un araldo antico. Canticchio tra di me la canzone, amandola come l'ho amata adolescente, credendoci come ci ho creduto adolescente, perché bisogna crederci, credere nelle possibilità.
Così ci sta dicendo Martinelli, ora, a video terminato, ora, con i  ragazzi di Capusutta che lo guardano con occhi lucidi di emozione, bisogna crederci anche quando sembra tutto finito, quando nessuno ci ascolta più, perché esiste sempre un angelo, come nel Morgante del Pulci, che ci afferra da un ciuffetto e ci porta su. 
L'amore per i classici, l'amore per la contaminazione ha portato Martinelli ad esperienze tali da farlo sentire sempre vivo, di non ingessarsi e fare il morto vivente come molti quando raggiungono posizioni rilevanti. Lui non ha preso a fucilate dalle feritoie delle sue postazioni i nuovi che volevano emergere anzi li ha aiutati e continua ad aiutarli a farli emergere. Con lui è presente stamattina un suo collaboratore, Alessandro Argnani,  che venticinque anni fa era un ragazzino incontrato in quell'Istituto Tecnico di Ravenna dove tutto iniziò.
"Senza appunti vado a memoria,- Marco, e conservo la felicità di Dario Natale, nel porgerti le domande su un momento in cui lui con te davate vita a Capusutta, all'adolescenza, all'entusiasmo di fare un urlo, un grido di pace, con "Le donne in parlamento" di Aristofane."
Aristofane è il tuo gemello, tuo fratello, non bisogna amare i classici da lontano, bisogna amarli come vicini, come compagni, giocare con loro, e farci uno sgambetto.
Nella Pace di Aristofanealtra commedia, portata in scena a Scampia,  a cavallo di uno scarabeo stercorario, la spedizione celeste andrà lontano dalle strade sporche dallo sterco dei cani che insozzano le vie della nostra città, via nell'Olimpo per parlare con gli dei. Il teatro per volare via. Nell'eresia della felicità.     
Ippolita Luzzo 

Ricchezza e cultura: il respiro che non c'è

Valanghe di soldi sulla cultura arrivano dagli enti proposti. 
Valanghe benefiche nelle tasche dei dirigenti, di dirigenti e animatori addetti.
Valanghe culturali che poi diventano rivoli sempre più piccoli quando giungono a dover pagare gli artisti che stanno con il cappello in mano, con la mano tesa a chieder mercede. Ricchezza si sposa con ricchezza, da sempre ed ora perché dovrebbe far eccezione?
Ricchezza si sposa e vuole al suo matrimonio il canto di menestrelli educati, i quadri ed i ninnoli per far bella la festa, il cibo del cuoco che sia di nome acclarato, il vestito e gli invitati tutti abbinati. 
Ricchezza poi fa finta di essere caritatevole, in fondo si sposa e vuol essere buona.
Fa finta perciò di essere umile, interessata al sociale, pronta a mettere fiocchetto contro la violenza verso chiunque, a metter colore d bandiera francese, ad essere per giornata gay pride, ad essere insomma benigna verso le categorie. 
Meglio essere aperti- si dice fa sé la ricchezza che sposa cultura. 
Ed è così che il matrimonio diventa una festa, una festa grande, applaudita ed anche bella, perché si sa, "la bellezza salverà il mondo", con questa frase orribile, buona però per digerire il pasto. 
Un rutto è dunque il respiro che resta, dopo il pasto abbondante, dopo i balli, dopo gli evviva, il rutto dei ricchi è quello che resterà a chi, povero artista, povero ma non categoria, può solo guardare senza farne parte, come alla corte medicea del Cinquecento. Respiro non c'è, c'è solo la festa. Ricchezza e cultura si mettono in macchina e partono insieme in viaggio di nozze. Evviva gli sposi 

sabato 26 novembre 2016

Il Vangelo secondo Antonio di Dario De Luca

Le marionette che diventiamo se vengono tagliati i fili, se si spezzano i fili della coscienza, se si annienta la volontà, fra malattia e dipendenza a ciondoloni si sta.
Il Vangelo secondo Antonio, atto teatrale di Dario De Luca, un testo nato da una idea contenuta nel libro della dottoressa Francesca Frangipane, autrice del "La vita dimenticata", e voluto questa sera dall'Associazione per la Ricerca Neurogenetica di Lamezia Terme, va in scena al Teatro di Lamezia nella giornata contro la violenza delle donne, una violenza contro la volontà, ed in  entrambi i momenti io vedo la stessa realtà. Una volontà che si annulla tagliando i fili della coscienza. 
Un fatto vero ha sollecitato l'attore e autore a trasformare in teatro le fasi della malattia l'Alzheimer che taglia fuori dal consesso civile l'ammalato e spezza i ricordi.
Cosa ci fa essere senzienti e coscienti? Il ricordo. Il ricordo di chi noi siamo. Eppure sulla coscienza leggevo che è il mistero più profondo.
 "Un pugno ben assestato sconquassa il cervello e la coscienza scompare, una fiala di anestetico  o una droga potente e ciascuno di noi si spegne nel nulla, cessiamo di esistere, ed ogni sera quando ci addormentiamo svaniscono improvvisamente spazio, tempo, pensieri, forme, colori, il nostro mondo, l'universo intero." Sono fili che ci tengono al mondo, i fili del ricordo, della consapevolezza. Al di là della malattia, la tematica va oltre raggiungendo ognuno di noi, seduto a guardare quel perdere i fili su una scena fatta di certezze, i fili illuminati con cui viene delimitato lo spazio della recita.
Fili di luce, rettangoli e quadrati, e poi al centro della scena il crocifisso come l'uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, le proporzioni che ci fanno appartenere al centro dell'universo. 
Esserci con le nostre misure. 
Il grande sconforto assale, la grande debolezza e disperazione avvolge famiglie e singoli nel momento straziante della perdita senza ritorno di quei fili che uniscono l'individuo all'universo e la famiglia all'individuo, lasciando vagare ognuno nell'indistinto dolore. 
Nel testo di Antonio De Luca un parroco di un piccolo paese si accorge, tutti si accorgono, ricordo perfettamente mia zia come si accorse, e nel momento che si accorge c'è tutta la paura di precipitare nel nulla indistinto.
Il testo si accolla la drammaticità di una malattia, sulla quale la medicina cerca ancora la cura, la prevenzione, e diventa però metafora di un mondo in cui tutti, privati dal nostro essere cosciente rimaniamo marionette ed il nostro vivere con le parole del fisico Erwin Schrödinger diventa "una recita davanti un teatro vuoto, un teatro di marionette per marionette." Perché fare non è essere ed essere è essere coscienti.
Dario De Luca, Scena Verticale, dalla malattia alla dipendenza, e dalla dipendenza all'uomo, centro di tutte le cose, universalizzando una tematica che ogni giorno ci chiede attenzione.
Qui il momento dell'accorgersi, la bravissima Matilde Piana, la sorella del prete,  porta le mani alla testa, nel momento in cui entrambi sanno di precipitare in un indistinto senza ritorno. 
E lo sguardo finale di Davide  Fasano, che interpreta il prete assistente in parrocchia, nella scena del sudario con cui Don Antonio avvolge il corpo di Cristo con l'ultimo gesto rimasto impresso su una memoria a brandelli.
Dario De Luca trasforma il suo corpo e percorre lo straniamento in ogni fase, adattando la materia alla rarefazione dell'essere con l'abilità dei grandi attori di sempre. Nel Vangelo secondo Antonio.   

     

giovedì 24 novembre 2016

Dal passato: La mezza età


Quando pubblicavo su Neteditor 
Pubblicato da Ippi il Mar, 10/04/2012 - 15:40
Che bella età la mezza età
Cantava così negli anni sessanta Marcello Marchesi
Tranquillità, serenità
Già, ma qual era la mezza età?
Per me, bambina allora, era l’età dei miei genitori, degli zii, oltre i quarant’anni 
Era l’età della mia maestra, del parroco, del commerciante, del mio medico di famiglia
La mezza età allora esisteva
Mia mamma si vestiva da mamma, la nonna faceva la nonna, il nonno portava il cappello, un borsalino, panama, il vestito doppio petto grigio, mio padre era severo e comandava su tutto, dopo il nonno, però.
Gli adulti erano adulti
Poi il tempo passò ed adulti saremmo dovuti diventare noi.
Noi?
Ma siamo matti?
Noi? che abbiamo fatto gli anni settanta con perline e gonnellini, con eskimo e jens?
Neanche a pensarci.
E così abbiamo allevato i nostri ragazzi nel laissez faire più scontato, abbiamo cavalcato gli anni novanta e duemila con ipnosi collettiva ed ora, quasi, siamo ancora sulla soglia di una adolescenza, immemori e incantati del tempo  passato.
Abbiamo reagito in vari modi.
Molti scompostamente, molte donne e uomini sembrano macchiette,
ma la maggior parte di noi, ha ripreso un cammino, mi auguro felice, del riappropriarsi del nostro mondo, degli ideali in cui abbiamo creduto
Non li abbiamo mai dimenticati, solo soporiferamente, abbiamo lasciato che le cose, gli inganni, i matrimoni, gli interessi, il lavoro, ci allontanassero
E così ci rifiutiamo, a cinquant’anni, cinquantacinque ed oltre, di sentirci nella mezza età
Siamo in una età
Sicuramente, ma la vera età è l’età del nostro entusiasmo, è l’età di imparare il pc,  di imparare il web, di riprendere in mano gli studi, la poesia, gli ideali, di riprendere in mano il filo della memoria
Ed è uno stato di grazia,una grande opportunità, una seconda giovinezza.
Non importa se non abbiamo vissuto la prima, o se l’abbiamo vissuta intensamente
Stranamente chi l’ha vissuta intensamente permettendosi amori reali  ed incontri occasionali ora ha l’ennui
Invece chi ha vissuto di rimessa, guardando e sognando, ha ancora il pudore e la bellezza del sogno pulito di una possibile alterità
E riconosco che ognuno racconta dalla sua stanza
Ognuno racconta per darsi un motivo
Per farsi una ragione
Per darsi un perché
Senza sentirci in una età--- come una riserva indiana

lunedì 21 novembre 2016

Di spazio e di luce, l'artista Caporale al Marca



Alla ricerca di uno spazio per trovare un po' di luce sembra dicano i corpi fluttuanti, le teste staccate e cerchiate insieme con rane, le mani ed i piedi nel giallo e celeste di un luogo non luogo.
Così Marc Augè ricorda i non luoghi, dove l'umanità si accalca per lenire la solitudine di un vivere senza. Centri commerciali, nuovi spazi di un nulla umano che chiede il conforto di dimenticare.
Il quadro di Antonio Caporale sembra dialogare con Marc Augè e regala un non luogo dove mani, piedi e bocca chiedono e non ottengono, chiedono e vengono lasciati nuotare nel giallo di un non luogo.
L'alienazione si vede e si sente stasera, nella bravura dell'artista che mette nei colori e nelle sue figure quel grido, quella richiesta. quella fame di esserci, come identità, come persona.
Ci siamo? Ci siamo quando siamo in un luogo? Così ci chiedono quelle terracotte di argilla rossa ingobbiata di argilla bianca, liquida, (questa, mi spiega l'artista, la tecnica usata), ci siamo? e dove siamo? e a chi chiediamo qualcosa? inutile, il gesto sembra rivolgersi a chi ci sta accanto ed ogni gesto fluttua anche da fermo, fluttua, sui quadri, sulla terracotta, fluttua e si protende, inutilmente.
La curatrice della Mostra, Teodolinda Coltellaro, ci mostra la tensione spirituale del protendere, l'elevarsi proprio, io invece ne sento a pelle quel grande bisogno imploso, trattenuto sotto uno strato di bianco che mi ricorda il brano del Vangelo sui sepolcri imbiancati. 
E ci sono moltissimi riferimenti stasera ad un Vangelo presente nella infanzia ed adolescenza di tanti di noi, nella preparazione alla Prima Comunione anche noi di bianco vestiti.
Fra discorso e ascolto un muro. Questa la sala del discorso,
dall'altra parte l'ascolto.
Al Marca le opere stanno in due sale parallele e non si incontrano mai, nemmeno fra i partecipanti accorsi numerosi all'inaugurazione della mostra. Da una parte i tre momenti del discorso
"Il primo discorso e l'asino buono"
"Il secondo discorso una mano in preghiera" e
"Il terzo discorso sulla montagna", dall'altra parte del muro l'ascolto, nei tre momenti: ascolto da un solo orecchio,
"Il primo ascolto"poi "Il secondo ascolto" e "Il terzo ascolto, il sogno si fece pane" ascolto e preghiera affinché possa la preghiera dare un senso alla solitudine del discorso.
Nel vagare da una parte all'altra trovo un ponte, fragile e messo in fondo ed io penso che forse il ponte dovrebbe stare a congiungere un discorso con un ascolto diventato ormai impossibile. "Passaggio del ponte da Occidente a Oriente" un passaggio attuabile solo attraverso il cuore, sembra ci dica l'opera che posiziona i due pilastri del ponte all'altezza dello sterno e non più della bocca.
Un passaggio di spazio e di luce.