domenica 28 agosto 2022

Patrizia Tocci recensisce Il Primo Pezzo non si scorda mai


 Il Primo Pezzo non si scorda mai, Città del Sole edizioni, 2022


A volte accade che ci si possa incontrare sui sentieri delle parole, in una Koinè culturale strappata, pezzo per pezzo, alla velocità dei social. Accade di ritrovarsi nel percorso apparentemente caotico di un libro che invece contiene tanti fili che tirano, punzecchiano, ricamano. 

La bella copertina del libro realizzata da Domenico Loddo ci avvisa: Ippolita  Luzzo  brandisce in una mano il suo precedente libro "Pezzi" e nell’altra una penna piena di inchiostro. 

E infatti da quell’inchiostro è nato "Il primo pezzo non si scorda mai" Città del Sole edizioni 2022. 

Questo volume conferma ancora una volta la capacità di fare storia del proprio quotidiano: sfilano le amiche, il pollaio, temi difficilissimi come le violenze e il femminicidio, riflessioni sui social o su situazioni contingenti che però grazie alla scrittura arguta e ironica, sorridente ed amara di Ippolita si condensano in  battute epigrammatiche, chiose fulminee. Persino i libri  di altri  su cui Ippolita riflette, facendoli suoi, diventano anche per noi finestre che  invitano alla lettura. Sono finestre sempre aperte per i lettori del suo profilo e del suo blog. Così puoi accadere che anche un social possa costruire ponti tra persone lontanissime, selezionando attorno agli  argomenti altri lettori o scrittori, formando così, grazie ad Ippolita Luzzo, un circuito virtuale ma reale. Persino i brani  di canzoni che entrano nelle citazioni finiscono per creare uno spazio condiviso. Anche le poesie arricchiscono questo nuovo manufatto di Ippolita Luzzo: c’è un nerbo di scrittura notevole che tiene legati tutti i pezzi, abbatte con decisione le barriere architettoniche tra prosa, poesia e scompiglia i generi consueti. 

È una bella singolare contaminazione di scrittura e di scritture. C’è  infatti una profonda fede, nonostante tutto, nell’esperienza  della scrittura.  Leggiamo  a pag.75:"un libro è per tutti un libro che va oltre la violenza e la cattiveria, oltre il disgusto e la rabbia, oltre l’impotenza. Un libro può."

 Mi torna in mente, per una sottile associazione di idee che l’autrice ha provocato, il bel titolo del libro di Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso: Forse, oggi, un libro non si può scrivere che a frammenti, a pezzi, appunto. Ma c’è sempre  anche qui – ed è forte – l’amore per la scrittura.

Patrizia Tocci


 Patrizia Tocci è nata nel 1959, a Verrecchie (AQ). Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza di Roma, ha vissuto all’Aquila fino al 2015. Ora vive e lavora a Pescara, dove insegna materie letterarie negli istituti secondari superiori. Studiosa di Eugenio Montale, di Laudomia Bonanni e più in generale del Novecento, i suoi articoli e saggi sono stati pubblicati su numerosi periodici e riviste specializzate tra cui “Il caffè Michelangiolo”, “Leggere Donna”, “Oggi e domani”, “Abruzzo letterario”, “Rivista Abruzzese” “Il convivio” Collabora da molti anni con il quotidiano abruzzese regionale “Il Centro”.

Il suo ultimo romanzo, Nero è il cuore del papavero, con la presentazione di Paolo Rumiz, ha ricevuto il primo Premio internazionale Vittoriano Esposito

Ha pubblicato, nel 2019 una raccolta di brevi testi in prosa: Carboncini, sguardi e parole (Tabula fati).

Nel 2021 ha pubblicato Alfabeti: le parole di Dante (Tabula fati), un testo in prosa interamente dedicato alla rilettura della Commedia con cui ha vinto il prestigioso premio Città del Galateo Antonio Ferraris per la saggistica ed è stata finalista al Premio dell’Editoria Abruzzese.

Nel 2022 ha pubblicato la nuova silloge poetica I semi del silenzio (Tabula fati) con la presentazione di Giovanni D’Alessandro; e ha ideato, creato e realizzato insieme al compositore Giuseppe della Pia aka DJ Brahms il progetto “Diacromie”: un viaggio sonoro e poetico tra i colori, emozioni e parole.






sabato 27 agosto 2022

"Turning" di Alessandro Sciarroni ad Armonie d'Arte Festival


Catanzaro, 26 agosto 2022 Teatro Politeama Armonie d'Arte Festival, con la direzione artistica di Chiara Giordano, "Turning" di Alessandro Sciarroni, una creazione per 5 danzatori

"Piroetta – nel dressage di alta scuola, è il movimento circolare di raggio uguale alla sua lunghezza, imperniato su una sola delle gambe posteriori"

Gira il mondo gira nello spazio senza fine, il mondo, soltanto adesso io ti guardo, mi ritrovo a canticchiare pensando stamattina allo stratosferico spettacolo che ho avuto modo di applaudire ieri sera. Riprendo in mano i pochi appunti ed entriamo nel Teatro Politeama di Catanzaro. 

Sulla scena ci sono già i ballerini, nessuno li presenta, nel silenzio noi ci accorgiamo che lo spettacolo è in fieri. I ballerini seduti fanno qualche lento esercizio di riscaldamento, una preparazione alla prova, mentre suoni impercettibili cominciano a vibrare nello spazio quell'unica nota che man mano aumenterà l'intensità durante la performance. 

Ricordando il gioco ripetuto dell'infanzia, i ballerini si alzano, fanno un giro, ne fanno un altro, fanno il giro intorno a se stessi più volte. Muovono un braccio e il braccio fa spazio fuori dal corpo, poi le due braccia. I piedi ora si allungano in fuori e la musica sorge dalla base dei suoni. Con le scarpette da ballo dei danzatori di musica classica i cinque danzatori ora sulle punte fanno il giro, girando girando su se stessi. Intanto cambia tutto, cambia senza interruzioni, cambia la frequenza del suono e la modalità dei gesti, pur nella plasticità del movimento. L'unica nota batte il ritmo, ora aumenta l'intensità. 

Come le ballerine nel carillon i cinque artisti ballano ora vorticosamente, come se la musica creata dalle vibrazioni sonore di sottili lamelle metalliche li muovesse.

Poi all'improvviso si fermano e ritornano lentamente a girare. Tutti fermi ora nella pausa del ritorno, dalla velocità alla lentezza, dal movimento alla quiete. 

La musica diventa un ballo e, nel girare, lo stesso girare è un ballo dolce, ipnotico. La musica tace e i ballerini continuano a girare per inerzia, continuano a girare per poi fermarsi. 

Una circolarità che ci ammalia, movimenti perfetti, il corpo come una matita disegna lo spazio, allarga e chiude, crea la forma scenica come un compasso. Il corpo un compasso? 

Unisco con questo compasso coppie di concetti affiancate ad altre: iterazione, conta/interruzione, pausa; crescendo/accelerazione; stanchezza, sofferenza/riposo; adesione/giudizio.

Come una costellazione di punti, ognuno dei quali si unisce in sintonia con la drammaturgia musicale dell’opera dei Telemann Rec., che curano le musiche.

Nei punti anche noi del pubblico, pur rarefatto ma partecipe, nei punti noi del pubblico giriamo e giriamo con loro, con tutto il mondo che gira intorno a noi.

Ippolita Luzzo 





Fotografie di Angelo Maggio

TURNING_Orlando’s version

invenzione Alessandro Sciarroni

con Maria Cargnelli, Francesco Saverio Cavaliere, Lucrezia Gabrieli, Sofia Magnani, Roberta Racis

musica Aurora Bauza & Pere Jou (Telemann Rec.)


martedì 23 agosto 2022

Una città a misura d'uomo. Consuelo Nava

Una città a misura d’uomo- Con_testi sostenibili  18 Novembre 2014

(Il dispendio di Bataille)

Gli uomini sono mossi da un bisogno di perdita e di dono, di depense, e il principio classico dell’utilità sembra non esistere.  Non si spiegherebbe altrimenti come, ben consci di cosa voglia dire città, si sia costruito in modo totalmente difforme ai principi basilari dello sviluppo di un agglomerato urbano. Dagli anni sessanta in poi, il sacco di Palermo, mi diceva con le lacrime agli occhi una guida, sulla conca d’oro, ormai grigia, una bruttura di palazzi dove sua madre fu trasferita dalla sua umile casetta per finire i suoi giorni nel buio di stanze senza sole.

Una vera catastrofe umana 

Con_testi sostenibili. Una visione per la città metropolitana di Reggio Calabria, il libro di Consuelo Nava e Vincenzo Gioffrè invade il mio immaginario.

Ricordo le mie lezioni di geografia e di storia, a modo mio, su cosa significa vivere in una città, intorno a quali punti di riferimento si fossero sviluppate nel corso dei secoli, dalla città greca a quella romana, ai comuni medioevali, alle mura, alle città del cinquecento, ai falansteri idealizzati nelle città industriali, per arrivare infine alle città metropolitane dei giorni a venire.

Erano lezioni con ragazzini, ognuno di loro disegnava la casa dove abitavano, con i servizi di cui bisognava, acqua, luce, telefono, fogne e smaltimento rifiuti,   la strada che percorrevano per arrivare a scuola, se venivano con mezzi pubblici o con macchina dei genitori, disegnavano il quartiere dove avrebbero giocato… ma già a quel punto mi accorgevo che il quartiere, per molti, non esisteva più, che loro non erano autonomi, non potevano venire a piedi a scuola o in palestra, non potevano incontrarsi con i compagni se non accompagnati.

Perso il quartiere, perché a che serve un quartiere? persa l’autonomia. La depense. 

Con questi pensieri in testa, tornata da Reggio Calabria, ho cercato il volume che mi ha accompagnato per anni, non era un testo scolastico, era un libro mio, a me carissimo, con fotografie di città, espansione di città, e poi utopistiche città a passo d’uomo, città percorribili con sguardo e con respiro e non prigioni del viver male.

Ho cercato sui tre piani, inutili, su cui si sviluppa la mia casa a schiera, ho cercato per giorni. Non ho trovato nulla di quello che pur ho conservato gelosamente per anni.

Ho perso memoria di dove l’abbia messo, non so dove cercare, come succede a tutti quando conserviamo male, senza un metodo, ciò che dovremmo conservare. Lo avrò buttato per fare spazio? Mi domando con terrore. E guardo con rabbia tutte le carte inutili che ho conservato, giornali, libri, ricevute, analisi di tiroide che non ho più dal duemila, guardo sconsolata e continuo a buttare ora. Conservando inutili cose.

Lo stesso è successo nell’architettura, nei sogni e nei progetti di una architettura nata per umanizzare spazi, creare incontro, conservare con cura quello che doveva essere conservato e fronteggiare il vile e selvaggio sacco di città e campagne.

Hanno invece molti conservato l’inutile e buttato la guida, il metodo, il criterio base del nostro vivere in un luogo.

Sopraffatti da cartacce, da ricevute, bolli, burocrazia.

Un dispendio 

Dobbiamo imparare comunque a perdere, ricordando che sciupiamo veramente se dimentichiamo 

Con_testi sostenibili, le parole di Consuelo Nava sono un monito e una proposta. La scrittura della città può essere indecifrabile, danneggiata. Ma ciò non significa che non ci sia una scrittura; può darsi che ci sia un nuovo analfabetismo, una nuova cecità. In una sorta di Atlante dei luoghi, l’attività svolta da 150 studenti di architettura,  ha rimesso in funzione l’abecedario dei luoghi, per un vivere sostenibile.  Ce lo auguriamo vivamente. Sostenibile vuol dire che si può sostenere. Responsabile autonomia da regalare come un dono.

Ippolita Luzzo 


sabato 20 agosto 2022

Il vitello d'oro


 Ed eccoci con la Bibbia in mano per riderci su di minuzie e dimenticanze, di esodo e non esodo, di strade di periferia, in canto ampio verso le tante strade percorribili. 

Se anche Dio, che era Dio, ebbe bisogno di chiamare sul monte Sinai Mosè per dettare i Dieci Comandamenti, se anche Dio fu dimenticato dal popolo ebraico che innalzò a dio un vitello  per poterlo adorare  (Esodo 32:1 - allora tutto si tiene "Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto" 

Gli Ebrei, mentre Mosè era in missione sul Monte Sinai in video chiamata con Dio,  chiesero ad Aronne di creare un idolo e lui raccolse i loro gioielli d'oro e fondendoli forgiò una statua aurea raffigurante un vitello, ed essi la adorarono dichiarando: "Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto!" (Esodo 32:4).

L'ira di Dio fu terribile e incaricò Mosè di vendicarlo, ma Mosè intercedendo per il suo popolo blandì in un primo momento quel gesto, salvo ripensarci, quando ritornato presso gli Ebrei e vedendoli offrire sacrifici al vitello d'oro li ammonì severamente facendo una scelta fra chi salvare e chi eliminare. 

Mosè bruciò il vitello nel fuoco, lo ridusse in polvere, lo sparse nell'acqua e costrinse gli israeliti a bere. Infine si mise alla porta dell'accampamento e disse: "Chi sta con il Signore, venga da me!". Gli si raccolsero intorno tutti i figli di Levi. Gridò loro: "Dice il Signore, il Dio d'Israele: Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nell'accampamento da una porta all'altra: uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente". I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè e in quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo.   ( Esodo 32:26-28

E questa la Bibbia stamattina che mi sovviene allegramente per una sintonia immediata con Dio e con Mosè. 

Capita a tutti essere dimenticati, capita anche troppo che vitelli d'oro vengano innalzati e a loro  vengano fatte offerte, e ciò è nell'ordine delle cose umane che confuse e incerte animano il brulichio del mondo tutto. L'ira funesta del Pelide Achille  che tanti lutti addusse agli achei prende un po' tutti nelle simili situazioni ma...

Per non essere e non fare come Mosè e come Dio però Il Regno della Litweb guarda benevolo dimenticanze e nuovi idoli innalzati allontanandosi sorridente e già in viaggio verso la terra promessa. 

Ippolita Luzzo 

lunedì 15 agosto 2022

Metti giudizio secondo Kant

 -Metti giudizio - 

La critica del giudizio secondo Kant   4 marzo 2012

Le nostre nonne ce lo dicevano sempre un tempo  -Metti  giudizio bambina mia  non essere precipitosa  irruenta, controllo e disciplina  discernimento e prudenza-

La Prudenza

Una volta ci dicevano così ed una mia zia  aggiungeva -Come vi vedono muovere ridere  gesticolare così verrete giudicate perché solo così gli altri vedono noi, quindi bambine -perché  allora  eravamo  bambine  fino a tredici anni- comportatevi con compostezza senza schiamazzi senza risate sguaiate, controllate il tono della voce, non urlate, parlate senza parolacce, senza volgarità e lasciate parlare anche gli altri.

Poi aggiungeva- Quell’impressione, la prima, che noi abbiamo dato, si fermerà nella mente degli altri e noi saremo per sempre legati a quel giudizio su un solo momento  di conoscenza-

Una volta, caro Kant, esisteva il giudizio riflettente ed anche le zie  le nonne lo possedevano, anche mia mamma, ma lei lavorava troppo e non aveva tempo per parlare ma sicuramente era lei la più giudiziosa.

Secondo Kant l’intelletto riflette come uno specchio la realtà interiore su quella esterna e poi collega  il mondo naturale e il mondo della volontà  e associa e crea altro  il bello  l’agire  il sublime il teologico.

É l’uomo ad attribuire le qualità agli oggetti col giudizio

-qual è il tuo giudizio?-

Ve l’avranno chiesto e ce lo saremmo chiesti e ce lo chiediamo in continuazione anche qui sul web

Ci giudichiamo  ci mostriamo  riflettiamo e poi associamo  ed elaboriamo altri giudizi

Kant aveva speso molto del suo tempo a dirci che il dominio della natura, della necessità, determinata dalle leggi causa-effetto,  e la libertà della azione umana, la libera scelta  si sarebbero conciliate

Concilia?

C’è una conciliazione fra libertà e necessità?

Secondo Kant l’accordo fra i due mondi  è dato dal giudizio riflettente  un ponte  fra ciò che è e ciò che si vuole

Fra ciò che siamo e ciò che appariamo

Un ponte- come quello di Messina?-

Mi auguro di no

Il giudizio è meno costoso  del ponte di Messina ma richiede una disciplina  un pensare prima di agire  un accordo fra l’oggetto che noi percepiamo e l’esigenza di libertà che tutti abbiamo.

Un accordo.

Va da sé che disprezzare  imprecare  sottovalutare  ridicolizzare  non siano verbi che Kant usò per definire  il giudizio che, sempre secondo lui, avrebbe riconosciuto il bello nell’oggetto   un sentimento  disinteressato  puro  universale  e necessario per una normalità senza norma in grado di educare   perché è con la bellezza   con il giudizio teologico- il fine, vuol dire teologico- che scopriamo nella natura e negli altri, un fine uno scopo  e scoprendolo negli altro e nel mondo lo scopriamo anche per noi.

Ippolita Luzzo 


domenica 14 agosto 2022

Omaggio a Lucio Dalla con Dario De Luca Daniele Moraca e Sasà Calabrese


Siamo ad Aiello Calabro, stupendo paese dell'entroterra cosentino, abbiamo lasciato Piazza Plebiscito e scendiamo giù verso Piazza del Popolo, guardando i palazzi del settecento, il secolo dei lumi. Un paese ci vuole, ricordiamo e nel mentre le mie amiche esprimono il desiderio di poter vivere in un piccolo paese così curato come Aiello noi scendiamo. Scendiamo fino a Piazza Del Popolo dove nella bomboniera naturale dello spazio creato dalle mura ci sta il palco che ospiterà i tre artisti, grandi artisti. Un trio composto per affinità e sintonie, per amicizia e stima, un trio che si completa e si diverte, pur nelle differenze di ognuno di loro. 

Dario De Luca è la voce recitante, e nello stesso tempo il gesto del porgere la cantata, il gioco su livelli diversi, passare dal suscitare il riso sfrenato sul Disperato erotico stomp alla canzone scritta a Berlino da Lucio Dalla contro la guerra. Sasà Calabrese è l'arrangiatore delle musiche, è il sorriso della sua stessa passione, Daniele Moraca è voce e chitarra, trascinante voce in perfetta simbiosi con Lucio Dalla. Omaggio a Lucio Dalla presente anch'esso sul palco, nel video in alto, con spezzoni di lui fin dal suo esordio al Festival di Sanremo, ancora prima quando si esibiva col clarinetto nelle band jazzistiche, a cominciare dalla band dove suonava Pupi Avati, che fu da Lucio rimpiazzato. 

Scelgono di commemorare Luigi Tenco con un lungo pezzo, con l'intervista a Lucio Dalla sulla scelta di Luigi Tenco, una drammatica scelta vietata da Lucio. 

 "È vietato morire per una canzone" dice Lucio ma è quasi un divieto universale fatto a tutti gli artisti che poggiano il loro significato a vivere sul riconoscimento altrui. Un divieto assoluto. Non possono essere dei politici, dei festival, delle classifiche di vendita a decidere se un artista debba vivere o no.  

Lo spazio sta nella nostra immaginazione ci suonano cantano e recitano stasera tre artisti altrettanto grandi, che conoscono le difficoltà per portare la loro arte nelle piazze e nei teatri, "nei vicoli e palazzi" fin a noi, fino a tutti. Le canzoni scelte dialogano con noi, noi le canticchiamo a voce bassa finché non veniamo chiamati al coro di "A modo mio quel che ho fatto l'ho voluto io" 

Com'è profondo il mare, Anna e Marco, Bisogna saper perdere, Maria, La casa in riva al mare "e sognò la libertà, e sognò di andare via" Cara " Conosco un posto nel mio cuore dove tira sempre il vento" Chissà se lo sai, Futura, Piazza Grande, Caruso, Se io fossi un angelo, Caro amico ti scrivo, me ne sfuggono sicuramente altre. Intanto il pubblico applaude chiede il bis e continueremo a cantare con loro nella testa, nelle labbra, negli abbracci e nella gioia della gente come noi. Una immensità che appartiene a chi la merita.

Grazie a voi dal Regno della Litweb 

Ippolita Luzzo 

Dal comunicato stampa del Peperoncino Jazz Festival     "Il primo atto dell’incursione del festival musicale più piccante d’Italia sulla costa occidentale della Calabria sarà l’evento in programma stasera (sabato 13 agosto) alle ore 22 in Piazza del Popolo ad Aiello Calabro: l’interessantissimo reading/concerto “Aspettiamo senza aver paura, domani” ideato e realizzato da tre grandi artisti calabresi - Sasà Calabrese (cantante e autore, musicista, poli-strumentista), Dario De Luca (regista, autore e attore teatrale) e Daniele Moraca (musicista e cantautore) - per omaggiare l’indimenticabile Lucio Dalla.

Giocando con l’arte di teatralizzare la musica, tipica dello stile di Dalla, questo consolidato trio, reduce da una trionfale tournée nei teatri più prestigiosi d’Italia, cercherà di ricreare uno spettacolo dove le canzoni del genio bolognese arrivino sotto forma di racconto, proponendo un vero e proprio viaggio alla scoperta della musica, della profondità dei testi, dei significati nascosti nell’opera del grande artista, riproponendo tutti i suoi più grandi successi.

giovedì 21 luglio 2022

Le surrealiste

27 luglio 2011                                                                                                                                                                                                   


Le surrealiste- ovvero le amiche di mia sorella

Le amiche di mia sorella non sono donne normali. 

Sono una specie umana a parte. 

La specie vitale. 

Dovrebbero andare in tutte le scuole perché loro, meglio di un testo universitario, potrebbero dare ai ragazzi una lezione di vita sferzante e reale. Le amiche di mia sorella sono donne cinquantenni, all’apparenza simili alle altre donne, sono mamme, una è già nonna, sono state mogli, sono state figlie. 

Mogli ora non più, chi per il dolore della morte fisica, chi per il  dolore della separazione. Figlie lo sono ancora e partecipano con affetto alle vicende dei loro cari. Lavorano tutte e tre. Si sono inventate il lavoro.  Tardi, presto, lo hanno fatto, rifatto, fanno più lavori. 

Saprebbero fare qualsiasi lavoro. Ma quel che le accomuna, oltre alla capacità e alla intelligenza, è il piglio decisivo con il quale affrontano qualsiasi tsunami capiti loro. Difficoltà, malattie, tragedie, che avrebbero piegato uomini forti e nerboruti, vengono affrontate senza cedimenti, rafforzandole e incredibilmente arricchendole.  

Teresa è sempre stata una manager, sin da piccola, una donna progettuale. Ha creato dal nulla cooperative, assistenza ai tossicodipendenti, accoglienza ai primi curdi che arrivavano in città, un grande progetto ed ha poi lasciato tutto in mano all’uomo che aveva amato, per ricominciare a progettare un po’ più in là. Riprese gli studi dopo una travagliata separazione, si è laureata, ha affrontato la malattia, la cura, ha riaffrontato la malattia e mentre era di nuovo in cura lei si è candidata alla Regione Calabria. Comizi, convegni, voti, riconoscimenti. Ora è un fiume in piena, chissà dove la porterà!

Rosetta ha una storia medio-orientale, quasi. Sposa bambina un uomo più grande, che lei non ha scelto. Figli subito, senza essere consultata.  Ma dopo aver accettato questo come un destino ineludibile, lei decide di studiare, di lavorare, di insegnare. Costi quel che costi. Riuscirà con grandi sacrifici. E dopo aver insegnato, o appena prima, la fuga da un mondo che non le appartiene. Le tragedie dei suoi cari, le minacce, la morte dei familiari non la fermano. Lavora sempre, continua a studiare, si laurea, fa un master, affronta la malattia del figlio, il difficile intervento, la convalescenza,sempre con la ferrea volontà di farcela. Ed ora l’aspetta il concorso per la dirigenza scolastica, che sarà sicuramente una formalità, visto i suoi titoli ed il punteggio.

Rita, la compagna di scuola di mia sorella, è sempre stata una alunna diligente e studiosa. Ha fatto tanti lavori. La ricordo alle prese delle terrecotte, per un progetto archeologico che perseguiva l’allora mamma del suo amore adolescenziale. Quando finì l’amore finì il lavoro. 

In seguito si sposò, diventò mamma di due ragazzi e all’improvviso è svanito tutto, in un lampo, e si è ritrovata di nuovo sola. Il suo compagno non c’era più. Sola. Senza un effettivo lavoro. Anche per lei tutto ha preso un altro significato. Lavora nelle poste, il lavoro del marito. Lei lo svolge con competenza, i colleghi le chiedono chiarimenti, ha ripreso gli studi di Giurisprudenza, ha già superato qualche esame tosto, si laureerà, ne sono sicura.

Nel plasmare gli avvenimenti alle loro sensibilità hanno agito come i surrealisti, hanno creato una surrealtà, facendo aderire il sogno alla realtà, con impegno, con il fare, con la decisione.

Ed il sogno si è dispiegato in una realtà sfaccettata ed impervia ed ha preso i colori della possibilità rendendo vero tutto.

Nello slancio di unire una realtà ostile ad una insopprimibile esigenza vitale, loro sono andate oltre, scavalcando gli ostacoli. Come i cavalli negli ippodromi, eleganti, mai scomposti, veloci.

E’ stato così possibile che Teresa si sia trovata nell’arena dello stretto in un convegno sulla progettualità nel volontariato organizzato dalla regione Calabria a parlare davanti ad un mondo in ascolto. Le luci dello stretto di Messina, il lungomare di Reggio Calabria, il più bel chilometro d’Italia, il fascino della magna Grecia. 

Le donne dell’antichità Antigone, Lisistrata, Arianna porgevano a lei il filo del cammino. Un cammino dignitoso in un mondo che ha bisogno di noi e noi abbiamo fame di esserci.

Ippolita Luzzo 

La bacchetta magica del Regno della Litweb con loro