venerdì 23 agosto 2024

Quel lunghissimo gambo di rosa di Franco Costabile


Oggi entriamo ufficialmente sotto il segno della Vergine, il segno zodiacale mio e di Franco Costabile, essendo lui nato il 27 agosto del 1924 ed io il 13 settembre del '54.
Ricorre questo anno il centenario della nascita di un poeta morto a Roma per suo volere il 14 aprile del 1965, ricorre il centenario e pertanto nella sua città di nascita si è costituito un comitato affinché si organizzino eventi in suo ricordo.

La casa editrice Rubbettino ha pubblicato questo anno il volume La rosa nel bicchiere, tutte le poesie di Franco Costabile con prefazione di Aldo Nove e poesie disperse e nota biografica a cura di Giovanni Mazzei

Dice Aldo Nove nella sua prefazione «…la perdita di un mondo che progressivamente Costabile ci racconta ha certo la Calabria come punto di vista, come indissolubile legame natale, ma che si sposta lungo l’asse di un intero continente ed oltre, fino a raccogliere nel proprio respiro preciso e affannoso l’intero mondo e i suoi prometeici errori di prospettiva»

 Durante questo anno molti studiosi o anche semplici lettori si sono applicati con esiti più o meno accettabili a produrre opere che fossero attestati di stima nei riguardi del poeta e alcuni con esiti esilaranti altri con esiti quasi offensivi verso il poeta stesso, rimpicciolito e ricondotto a poeta locale, quando lui dal suo paese ne conservava solo l'eco dell'ingiustizia, della povertà, delle offese. 

Aveva il poeta altri grandi amici poeti che lo stimavano, da Felice Mastroianni a Pina Majone Mauro, ed io ho avuto il piacere di sentire sia da Pina che da Serenella Mastroianni, nipote di Felice, testimonianze dirette sulla vita di un poeta che abitava a Roma, insegnava a Roma, aveva le sue amicizie a Roma e scriveva su importanti riviste letterarie romane e nazionali. 

Ritrovo dal 2015 ma risale ancora prima un mio appunto su una conversazione con Serenella Mastroianni. Lei mi raccontava che Costabile rideva spesso quando insieme allo zio passeggiavano. Era una risata sopra le righe, a volta sciocca, una risata di commento, a volte stridula. "Come la tua" aggiungeva la mia amica Serenella. Ed io capivo perfettamente cosa lei volesse dire, cosa Costabile volesse esprimere con questa risata nella quale è racchiuso tutto lo sconcerto di alcune situazioni, di alcuni rapporti, di un vivere che acchiapparlo non puoi perché fugge da tutte le parti, di esseri umani pavidi e aggressivi che alzano la voce per imporre scemenze abissali contro i quali, contro le quali, solo ridere noi possiamo. 

Oggi lui, proprio per questa comunanza di amorosi sensi, come direbbe Foscolo, e forte di questa comunanza di risata, mi consegna una rosa dal gambo lungo, lunghissimo, pieno di spine, un gambo con cui fustigare tutti coloro che in occasione del centenario vorrebbero ridurre il poeta ad un pupazzo, ad un raccoglitore di rose e garofani, ad un poeta ad uso e consumo locale di vino, di pasta, di affettati e mettiamo pure qualche rutto via. 

Lui mi consegna il gambo e mi dice di essere decisa e di continuare a fustigare fino al silenzio fino al modo di essere lui libero da ogni ricordo https://fb.watch/u86IknfWrP/

Ippolita Luzzo


Quadro di Amedeo de Benedictis nel Regno della Litweb   

 

martedì 13 agosto 2024

Aveva le mani d'oro L'omaggio a Peppino Leo


 Sono qui con accanto un gioiello, un omaggio in oro purissimo, già la copertina è realizzata a mano con un allestimento bodoniano, un metodo di rilegatura antico e la carta crespa riveste il dorso. Infatti  oro è la carta Fedrigoni Sirio Perla Aurum 300gr che conferisce al tutto un effetto dorato e luminoso, proprio dell’oggetto prezioso. 

É un libro donatomi da Emilio Leo, dopo una serata ospiti del Lanificio Leo a parlare di un altro libro altrettanto unico e inusuale: Della morte non puoi parlarne, o della gioia di Alessandro Chidichimo.

 Aveva le mani d’oro, il libro nasce dall'amicizia fra Emilio Leo e Prashanth Cattaneo che ne ha curato la pubblicazione, con interviste, storia e le biografie dei protagonisti, edita da Rubbettino editore e stampata in Rubbettino print, nel 2022, nel centenario della nascita di Peppino Leo. Un libro 10,5×14,8, un formato che si tiene in una mano come un piccolo oggetto prezioso, un gioiello.

 Aveva le mani d'oro nasce come progetto di arte e design dall’incontro tra l’artista Pino Deodato e la storia di Giuseppe Leo detto Peppino, nato nel 1922, imprenditore che ha dedicato la sua vita al lanificio di famiglia 

Pino Deodato ha dipinto un’opera che raffigura Giuseppe Leo nella gestualità rituale del filare e del tessere che ha ricordato fino agli ultimi giorni della sua vita quasi centenaria. 

L’opera è stata poi riprodotta dal figlio di Peppino, Emilio Salvatore Leo – attuale proprietario e direttore creativo del Lanificio Leo – su un copricuscino per l’area living della casa usando una tecnica di maglieria jacquard. La Galleria Melesi di Lecco ne ha creato un’esposizione

Ma ritorniamo al libro, all'interno  in carta smooth, tutto sembra carezzevole e già si vuol bene a ciò che leggeremo, a ciò che vedremo, fotografie delle opere create da Pino Deodato, fotografie di Peppino Leo accanto ai suoi telai, le mani di Peppino ed Emilio fra innovazione e conservazione. 

La storia del Lanificio Leo, fondata nel 1873 a Carlopoli da Antonio Leo e nel 1935 trasferita a Soveria Mannelli da Emilio Leo, il nonno dell'attuale proprietario. Il luogo è diventato un museo dinamico, e nel 1997 fino al 2007 ha ospitato Dinamismi Museali. Festival di Pensiero Contemporaneo. Il festival  è giunto alla finale del Premio Guggengheim ed ha vinto il premio Cultura di Gestione di Federculture.

 Nel 2008 Emilio Leo e i suoi collaboratori riattivano con macchinari di nuova generazione il parco macchine storico rinnovando la tradizione dell'azienda con il design.

Nel libro vi è l'intervista ad Emilio Leo, che vi invito a cercare, a leggere e che si conclude con l'augurio per tutti di "costruire delle cose" essere felici di ciò che si può fare. Un po'  il concetto di Epitteto, lo stoico citato durante il nostro incontro, su ciò che possiamo con la nostra volontà e su ciò che non riguarda la nostra volontà. 

Vorrei anch'io finire questo mio pezzo riassuntivo con il pensiero di Ettore Sottsass, riportato da Prashanth Cattaneo nell'introduzione, che coincide con il modo di pensare di Peppino Leo, la vita coincide con il mestiere che si svolge, unito alle persone che si amano e all'essere contenti. 

"Io sono rimasto con questa idea: l'idea che si può identificare l'esistenza passando il tempo a immaginare un ambiente artificiale, immaginarlo con tutto quello che può aiutare me e gli altri a vivere, a ritrovarsi, a disegnarsi, a mostrarsi al mondo e poi, più o meno, per quanto si può, a essere contenti"

E dal regno immaginario della Litweb, un'astrazione mentale che ha reso possibile creazione e incontri, non si può che essere d'accordo con Peppino, con Emilio, con Ettore Sottsass e con Epitteto.

Ippolita Luzzo 

 


 


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sabato 3 agosto 2024

Non muoio neanche se mi ammazzano di Letizia Cuzzola

 


Letizia Cuzzola in “Non muoio neanche se mi ammazzano” riprende il titolo della biografia di Giovannino Guareschi  e ricostruisce la storia del nonno Vittorio e di 650 mila uomini prigionieri nei campi di concentramento in Germania. Il libro nato da una documentata ricerca, restituisce un pezzo di storia italiana rimossa: quella degli IMI (Militari Italiani Internati) che dopo la firma dell'Armistizio furono fatti prigionieri dai nazisti e internati nei campi di prigionia. Uno di questi soldati era Vittorio Cuppari, nonno di Letizia

 Nelle diverse interviste rilasciate  Letizia racconta: “Stavo scrivendo un altro libro e per caso ho ritrovato l’Arbeitsbucher di mio nonno, Vittorio Cuppari. In famiglia sapevamo che era stato prigioniero durante la Seconda guerra mondiale ma ne ignoravamo i dettagli. Ho iniziato ad approfondire più per curiosità che per altro. Poi ho trovato il libretto di lavoro del nonno in Germania e episodi mai   menzionati dalla Storia ufficiale mi hanno portato a chiedere informazioni in decine di Archivi di Stato, a partire da quello di Reggio Calabria a finire al Museo dell’Olocausto di Los Angeles, passando per il Bundesarchiv di Berlino e le Nazioni Unite a New York. Man mano documento dopo documento si raccontava una storia diversa da quella studiata a scuola. C’erano 650mila uomini che, quando Badoglio annunciò l’Armistizio, erano schierati sui confini esteri e vennero catturati dai Nazisti restando prigionieri per due anni nei campi di concentramento in Germania, ma che sfuggivano agli elenchi ufficiali per un accordo fra Hitler e Mussolini, e mio nonno era uno di questi. Con quell’accordo erano stati classificati non come prigionieri di guerra – quindi “tutelati” dalla Convenzione di Ginevra del 1929 –, ma come Internati Militari Italiani. Erano sospesi in questa condizione e spesso venivano chiamati a rispondere all’offerta di passare fra le fila dell’esercito tedesco o della Repubblica di Salò, ma per due anni risposero un no netto, senza ripensamenti, pur sapendo che avrebbe significato restare in campo di concentramento con tutte le conseguenze del caso. Subirono l’isolamento, le torture, i lavori forzati pur di restare fedeli alla divisa che indossavano». 

A Letizia il nonno le ha suggerito cosa e come scrivere, dove trovare i documenti, dove le testimonianze, così com’è successo a Raffaele Mangano col suo amico Leone nel libro La riga sulla emme, così come è successo ad Emanuele Trevi con Due vite, la vita di Rocco Carbone, di Pia Peri. Succede qualche volta che la scrittura diventi quello strumento per aprire la porta fra i viventi e chi non c’è più. La scrittura come opportunità per continuare a vivere qui, conoscendo la vicenda umana universale del nonno di Letizia Cuzzola.     

 Anche lo scrittore Guareschi fu uno di questi soldati italiani e lui poi raccontò che era stato fatto prigioniero dai tedeschi dopo l'otto settembre e marciava incolonnato, affamato e straccione in un' oscura landa polacca. Ai bordi della strada c'era una mamma con un bambino piccolo che stava mangiando una mela. Incoraggiato dalla madre il bimbo si diresse verso questi poveracci ed offrì la mela proprio a Guareschi che prendendola in mano vide i segni dei dentini sul frutto e gli venne in mente suo figlio, anche lui piccolissimo e, scacciando i pensieri di morte che attanagliavano ognuno di questi disgraziati, disse "non muoio neanche se mi ammazzano". 

Questa è la paternità.

Accurata ricostruzione storica, come se il nonno vivo accanto a lei le raccontasse, e anche l'autrice conferma di aver avuto la sensazione di essere un tramite. 

Un libro da amare

Ippolita Luzzo 



venerdì 2 agosto 2024

Nella libertà di lettura

 




Biografia 2024 Nella libertà di lettura.

Ippolita Luzzo, laureata in filosofia con tesi su Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà. 

Da giugno 2012 scrive sul blog “Il Regno della Litweb di Ippolita Luzzo” quasi un giornale di cui lei è editorialista, direttrice e cronista. Col suo blog indaga e legge ogni momento letterario ed artistico per lei autentico interpretando in modo originale il senso del testo.
Ha vinto il premio Parole Erranti il 5 agosto 2013 a Cropani, nell’ambito dei Poeti a duello, X Festivaletteratura della Calabria.

Nel 2016 ha vinto il concorso “Blog e Circoli letterari” indetto da Radio Libri nell’ambito di Più Libri più liberi al Palazzo dei Congressi a Roma.
Nel  2017  e 2018 fa parte della giuria del Premio Brancati.
Il 6 ottobre 2018 vince il Premio Comisso #15righe, dedicato alle migliori recensioni dei libri finalisti.
Sempre ad ottobre 2018 il suo blog è stato inserito dal sito Correzione di Bozze fra i Lit-blog e le riviste online nazionali che si occupano di letteratura.
Fa parte, fin dal primo momento, della giuria scelta per la Classifica di Qualità dalla rivista L’Indiscreto.
Dal 2019 fino al 2023  Il Regno della Litweb collabora con Il Premio Comisso 15 Righe nella giuria di valutazione delle recensioni sui libri in concorso.

Nel 2021 è Presidente di giuria del concorso Sperimentare il Sud 

Dal  2022 è in giuria nel Premio Malerba

Collabora come giurata al Premio Muricello e al Premio Nautilus

 Nel 2023 riceve il premio alla cultura per la divulgazione letteraria nella  prima edizione del premio nazionale di poesia “Calabria – Veneto” a Civita CS



Ha pubblicato con la Casa Editrice Città del Sole Pezzi dal regno della Litweb nel 2018, la Dareide nel 2020, Il primo pezzo non si scorda mai nel 2022
Scrive su giornali e riviste on line e cartacei.
Molti suoi pezzi stanno nelle cartellette degli autori che, fidandosi, le mandano i loro scritti.
Nella libertà di lettura.

Ippolita Luzzo 

sabato 20 luglio 2024

La storia dei Ferrise e della gassosa al caffè

18 marzo 2011


La storia dei Ferrise e della loro fabbrica

Una saga, un romanzo che risale alla fine del 1800.

Una famiglia numerosa, due maschi  Bruno e Vincenzo, tre femmine.

Bruno nato nel 1870 e Giovanna Provenzano nata nel 1893 si sposano nel 1912.

Vincenzo, il fratello piccolo è andato a lavorare fuori, a Portici, vicino Napoli e da lì era ritornato a  Nicastro.

Vincenzo porta con sé una nuova bevanda al caffè, gassata, contenuta in una bottiglia con la pallina. Con questa nuova idea mette su nel 1904 una piccola fabbrica nel Largo Angotti. Lavoravano tutti lì, la fabbrica è a conduzione familiare, Bruno Ferrise e Giovanni Torchia, marito di una sorella di Bruno, ed il piccolo Pietro De Sarro, figlio di un’altra sorella il cui marito era emigrato in America.

Bruno Ferrise morirà giovane nel 1919, per un tumore in bocca, dopo essere stato più volte operato a Napoli dal chirurgo Dattilo, di origini lamettine e parente quindi del nostro Don Vittorio Dattilo.

Bruno lascia la moglie Giovanna di appena venticinque anni con due figli piccoli e uno ancora in grembo. Bruno o Ninnuzzo, come familiarmente verrà chiamato poi, nascerà quaranta giorni dopo la morte del papà .Le famiglie vivevano allora tutti insieme. Tutti sotto lo stesso tetto. Tutti in pochi spazi. Sembrerebbe assurdo oggi che case ampie e comode non bastano a pochi e scontrosi abitanti.

Nel 1936 la fabbrica si trasferisce nei magazzini comprati da Vincenzo Ferrise dal barone Stocco, siti nell’omonima piazza Stocco ora Via San Giovanni. 

Avevano un casale a tre piani con un giardino sul fiume .La casa risuonava nella sua infanzia del suono del pianoforte comprato dal papà a Napoli per far studiare musica ai ragazzi. Un papà che amava leggere e ascoltare musica.

Vincenzo, rimasto vedovo nel 1927 di Consolatina Fedele ed avendo perso anche il figlio morto appena nato, abitava con una signora che badava alla casa. Da lei ebbe tre figli che poi ebbero tutti il suo cognome 

 Nel 1942 sposa la vedova del fratello la signora Giovanna Provenzano. Una donna energica, una donna capace di affrontare e risolvere le tante traversie della vita inventandosi di volta in volta un lavoro per tenere con dignità e coraggio la sua famiglia. Il telaio le aveva permesso prima di essere autonoma ora lavorerà nei locali della fabbrica Ferrise e gestirà una trattoria adiacente e di loro proprietà. Sempre  lei sarà vista come il punto di riferimento per parenti e nipoti. 

Eredi della fabbrica alla morte di Vincenzo resteranno i tre fratelli: Vincenzo, Domenico e Ninnuzzo, figli di Bruno insieme con Domenico, Mimì, figlio dello zio Vincenzo, che rimane proprietario degli immobili.

Nel 1962-3, poiché Mimì si dissocia e disdice il contratto di fitto ai cugini, la fabbrica si sposta in via San Giovanni, dove ora vi è un negozio di mobili.

Chiamato mastro Giuseppe Dattilo i locali verranno restaurati e all’inaugurazione ci sarà la benedizione per mano del vescovo Moietta, il vescovo che nella sua brevissima ma intensa permanenza a Nicastro ha suscitato col suo amore e con la sua parola entusiasmo e calore nella popolazione.

Era l’aprile del '61, e lui  giovane e fiducioso, veniva accolto nella nostra città in festa. 

Sembra vederla la folla in piazza Bovio, in via San Giovanni, i macchinari lucidi, il nastro trasportatore dove le bottiglie capovolte venivano fissate su dei perni e poi in fila venivano lavate, la spuma, la nuova bevanda che Vincenzo, ora di 94 anni e sempre in gamba, preparava.

Quando Vincenzo, ora è lui che racconta, preparava insieme al fratello Bruno, lo zucchero caramellato che dava sapore, colore e schiuma alla gazzosa, e litri e litri di caffè alla napoletana per la gazzosa al caffè, via San Giovanni, Largo Angotti, Via Indipendenza, profumavano di caffè.

Accanto  vi era il bar dei Ferrise, gestito da Domenico, ed ora dal fratello Battista, tuttora il punto di ritrovo imprescindibile per tanti, per molti altri durante la tredicina di Sant’Antonio. La piazza antistante pulsava di vita energizzata dall’aroma del caffè. Si racconta che l’aroma era così forte da creare in una signora che abitava di fronte vere tachicardie, eccitazioni del cuore troppo forti, una patologia causata da un profumo inebriante. Quasi un luogo arabo.

Poi la tredicina, terminava con la processione di Sant’Antonio, il Santo, allora ed ora, si fermava in via San Giovanni, entrava nella fabbrica che non c’è più e lì veniva incoronato, i portantini venivano dissetati per primi e poi bevande per tutti, lo spumone usciva a fiotti dai sifoni per la banda, i fedeli, le autorità. Una festa di popolo.

Nel 1977 la fabbrica Ferrise chiuse e consegnò i suoi  macchinari antichi, un salmatore a colonna, un tiraggio riempimento sifone, un tiraggio riempimento meccanico, al museo delle arti, che allora era in piazza Bovio, una volta piazza Mercato, la piazza delle terrecotte.

Ora i nostri ragazzi ritornano spesso in questa piazza e si riuniscono, ascoltano musica, chiacchierano e di nuovo nell’aria vibrazioni  di vita cittadina.

Intanto la storia della gazzosa continuava con un'altra ditta, La De Sarro&Torchia che ormai non c'è più

Ippolita Luzzo 


venerdì 21 giugno 2024

Andrea Caterini Sparring Partner


Il termine a che fare con il pugilato e trovo conferma nel significato "compagno [partner] di allenamento» [sparring, gerundio di to spar «allenarsi nel pugilato»]), pugile che allena un altro pugile boxando con lui. 
Il protagonista sceglie di ritornare nella palestra frequentata da ragazzo in un momento della sua vita di "stagnazione". Succede a tutti di non avere più sicurezze, succede a tutti di sentirsi senza entusiasmo e decidere di andarsene nel paese, nel quartiere cercando una "resurrezione della carne." una resurrezione. 

Ritorna in cantina a prendere la borsa di un tempo, i guantoni Leone, e ritrova in palestra Alberto che lo abbraccia. Ormai Alberto è diventato un maestro però sempre guarda al suo amico ritrovato come un fratello.

 Il ritorno nella seconda ripresa: lui guarda nel tempo come l'allenamento rimetta in tono il fisico, e ora sente Alberto chiedergli di aiutare i ragazzi della palestra, di essere il loro sparring partner. Aveva accettato e da quella sera era cambiato tutto. 

Memorie di un uomo attraverso il ring, si racconta lo scioglimento di un nodo, una trasformazione, la nuova vita. Arriverà una nuova allieva, arriverà dai boschi del Carso ma io non vi racconterò altro per non sciupare la bella lettura di questo libro pensoso e riflessivo, di questa storia raccontata in prima persona, con grande partecipazione trasmessa a noi lettori. 

Riesce questo libro a farmi sedere di nuovo al computer, dopo tanto tempo che non scrivo, riesce anche a farmi combattere il mio momento di stagnazione e mi scuote spingendomi a cercare anch'io quella valigia di fogli, nel mio caso, abbandonati. Una vera malia. 

Andrea Caterini pubblica per S-Confini Sparring Partner, una collana di letteratura ibrida diretta da Fabrizio Coscia per Editoriale Scientifica.

 Sono libri di memorie, tra il diario e il reportage, ma sembrano ben interpretare quella commistione di genere di questi nostri tempi. 

"La nona ripresa ci si gioca la vita," voglio rileggermi il momento in cui non si sente la fatica, in cui sentiamo tutti la possibilità di farcela. 

Una scrittura limpida e avvolgente vi prenderà e vi farà salire sul ring della vita.

 Ringraziando Andrea Caterini, a lui gli applausi di tutta la Litweb 

Ippolita Luzzo 


Andrea Caterini (Roma, 1981), è scrittore e critico letterario. Ha pubblicato diversi romanzi, tra cui Giordano (Fazi, 2014, Premio Volponi) e Vita di un romanzo (Castelvecchi, 2018). Tra i saggi si ricordano La preghiera della letteratura (Fazi, 2016, Premio Prata per la Saggistica), Ritratti e paesaggi. Il romanzo moderno (Castelvecchi, 2019, Premio Città delle Rose per la Saggistica) e L’oblio della figura. Nella stanza di Giorgio Morandi (Sillabe, 2020). Il suo ultimo libro è Ritorno in Italia (Vallecchi, 2022). Ha introdotto numerosi autori europei dell’Ottocento e del Novecento: Henry James, Marcel Proust, Virginia Woolf, Hermann Broch, Irène Némirovsky, Joseph Roth. Ha inoltre commentato Il sogno di un uomo ridicolo di Fëdor Dostoevskij (Ianieri, 2015). Nel 2018 gli è stato assegnato il Premio Bonura per la Critica Militante Under 40. Lavora come autore Rai di programmi di viaggio.


venerdì 14 giugno 2024

Lidia Popolano su Pezzi nel 2020


Lei lo chiama zibaldone, nel linguaggio arcaico una vivanda composta da svariati ingredienti, una costante nella cucina povera di tutti i Paesi; nel linguaggio letterario invece un quaderno di appunti e abbozzi riportati senza ordine.


È entrambe le cose, Pezzi di Ippolita Luzzo. Vi compaiono in ordine casuale frammenti di riflessioni filosofiche, filastrocche, considerazioni sulle cosiddette giornate europee o mondiali dedicate all’amicizia o ad altre ricorrenze, tra queste inserirei anche il Pezzo sul Natale, anche se questo non è il suo titolo. E ancora, poesie, citazioni e recensioni. Ogni appunto riporta la data e questo aiuta ad orientarsi per caratterizzare quel frammento. A volte si tratta di episodi di vita comune, incontri, pomeriggi con amiche o con la sorella, si tratta di telefonate a conoscenze o a vecchie amicizie. C’è anche un fantasma di uomo, seduto accanto al posto di guida ad ascoltare le vicende letterarie di Ippolita o in casa a gustare un caffè virtuale di cui sembra persino di sentire l’odore.


Ma tutto questo mondo, questi tratti di penna, ricopiati al computer, non sono più frammenti, non sono più piccoli cenni sonori di uno strumento che viene accordato, sono una sinfonia potente, sono una sonata di organo in una cattedrale, se hai avuto la fortuna di entrare nel mondo di questa piccola donna, fortissima e delicata a un tempo, se hai attraversato le stanze di quel suo castello fatto di ambienti, ma più ancora di disimpegni. Se sei passato per quelle scale dove filtra il sole e illumina il quadro donato dall’artista che con quel dono ha dato valore al suo apprezzamento o la cesta colma di buste gialle che hanno contenuto i libri che le sono stati spediti in lettura. Sono buste flosce o strappate, impossibili da riusare, impossibili da cestinare. Sono lì perché buttarle sarebbe perdere la traccia della trepidazione con cui sono state riempite con il libro o il faldone della bozza, con cui sono state incollate e lasciate sul desk dello sportello postale, là dove era impossibile ritirarle una volta trovato il coraggio di spedirle. E poi i libri e la memoria degli incontri e dei pasti cucinati e consumati con gli amici, delle serate con le guance arrossate e gli occhi lucidi nella scoperta incredula che l’amicizia esiste, che l’amore esiste e illuminano la vita anche quando hanno breve durata.


Questo, tutto questo non sarebbe stato evidente per me se non avessi avuto l’immensa fortuna di entrare nella dimora di famiglia e di stringere la mano della dolce madre. Ah, gli occhi di una madre posati sui tuoi per leggere il tuo affetto per la figlia! Ah, quale regalo prezioso e immortale, indispensabile per comprendere le parole amare che descrivono le donne del sud che hanno visto rapinare la loro adolescenza e rinchiuderla in una vita di sacrificio, dono per eterni e irriconoscenti uomini-bambini, coccolati e viziati nella loro fragilità egoistica.


Questo, tutto questo non sarebbe stato evidente se non avessi visto un paese violentato, sventrato, artificiosamente assimilato a un’entità locale inesistente. Privato del suo nobile nome e con esso, della sua storia. Un paese che fa da sfondo a ogni amarezza e ogni sogno di riscatto della Calabria offesa e dimenticata anche nel presente. Persino nel presente.


Tutto questo non è uno zibaldone. Sarebbe uno scempio immaginare una raccolta “Pezzi due” con i frammenti scritti da Ippolita Luzzo dopo il 2018. Non è uno zibaldone, Pezzi. È un romanzo. È il romanzo di una vita dapprima dimenticata nella disillusione e poi ritrovata nella missione di tessitura del tessuto culturale di un popolo, senza occuparsi o preoccuparsi di darsene il merito. La tessitura di un ordito fine e robusto che non contempla definizioni strutturali, che non chiede riconoscimenti, che unisce in un canto ritmato e sonoro le voci di scrittori stimati e i loro lavori, nati da quelle buste gialle teneramente conservate. Un ordito che non ha volutamente cercato un’impossibile trama. Un romanzo senza trama.


Lei lo chiama zibaldone, ma per me Pezzi è un romanzo contemporaneo.