martedì 13 settembre 2016

Una grande solitudine

A volte rido e ridendo e guidando mi dico:- Ho la lebbra. Abbiamo la lebbra nella mia famiglia e tutti ci rifuggono come appestati. Ridendo me lo dico e poi aggiungo una pernacchia ai cari abitanti, ai cari parenti  del paesello.  Così si spiega tutto. Si spiega il fatto che venga lasciata morire di indifferenza la mia mamma che un angelo è stata, ha scodellato parmigiane e carciofi al forno, fatto taralli e focacce ripiene, bottiglie di salsa e trasformato maiali  in salsicce per ognuno che lo chiedesse, sempre col sorriso sulle labbra. Forse è la cosa che mi fa più rabbia, forse è questa mia impotenza nel non riuscire a regalarle gli affetti e le relazioni che le spetterebbero. Non mi posso sostituire al parentado scomparso, a vicini scomparsi, ad una vita che non le è stata concessa. Poi dicono che il destino venga in eredità proprio dalle mamme e noi abbiamo ereditato la stessa magnifica indifferenza. Lo dico brutale a mia sorella, imponendole uno stop, una rotta in cui non può seguirmi. Al destino non si sfugge, nemmeno se aneli quel mondo fatto di incontri, di chiacchiere, di amicizie, che sembra regalato a tutti meno che a te. Poi guardo gli altri che escono a due a due. A due a due, due fratelli passeggiano sempre insieme, a due a due, ci sono le coppie francobollo, a due a due, ecco le amiche sempre quelle, da secoli, escono in due. Sono altri modi di essere, altri pianeti, e non mi interessano, ne sento la claustrofobia.    
Alcuni dicono che non si è soli nemmeno con la faccia rivolta al muro in un carcere di isolamento, nelle celle di  circa 6 per 8 piedi di dimensione (circa 1,80 x 2,40 metri), con pareti in acciaio o in mattoni, con sbarre in acciaio verso il corridoio esterno.
Non si è soli in ospedale, in una sala operatoria, mentre i chirurghi tagliano via un pezzo alla volta. 
Si dice che si è soli in mezzo agli altri, nei convegni, nelle feste organizzate, nel momento del successo. Vero anche questo.
La solitudine, averla o non averla, è un regalo o una condanna, un destino l'ho chiamata io, " Una solitudine come destino"
 Una solitudine corporea e non mentale, una solitudine che sembra un muro altissimo da scavalcare.  
Nel destino che ci è stato dato non contano gli sforzi che si fanno, conta la fortuna, il consenso, la chiamata.
Quel che noi possiamo fare è trovare un modo per beffare il destino, ridendo della lebbra, ridendo di quello che ci viene regalato e ridendo di quello che non ci viene regalato. E fatela una telefonata a mia mamma ogni tanto, mi verrebbe da esclamare! Pezzi di .....


domenica 11 settembre 2016

"Tutti gli altri" di Francesca Matteoni

I libri della casa editrice Tunuè sono corporei al tatto, hanno una carta porosa e più spessa, come pelle, respirano e colorano come ingialliti dal tempo le nostre letture. Anche l'odore è l'odore della pelle, ho fatto la prova, annusando la mia pelle e poi avvicinando i libri al viso. Affondando nel libro col naso. Soddisfatti i sensi, l'olfatto e la vista, con bellissime copertine colorate di verde pieno, di arancio, di nero, con un disegno centrale, apri e ritrovi all'interno quel segno, ripetuto tante e tante volte, affinché sia ben chiaro di cosa si parlerà. Con un segno si può dire tanto. Un serpente, un coniglio, un bimbo rovesciato, a testa in giù. 
Leggo Tutti gli altri di Francesca Matteoni. 
Il verde bosco di Francesca Matteoni, un verde muschio, sembra il tappeto su cui stendere i giocattoli, i ricordi, gli amici e farli vedere al nuovo amico, il lettore, con un gesto affettuoso, come se si volesse far parte di quel ricordo anche al nuovo arrivato.
Così seduta sul tappeto di Francesca con i suoi racconti. Tutti gli altri. Orientamento ha per titolo quel che ho sentito mio, per quel che ho scritto anche io, in un mio pezzo breve. Il tempo è circolare. Ho continuato a leggere i racconti facendo cerchi sui titoli, Tiziano, Daniele, sono diventati miei amici, come se li conoscessi. Alce e il suo finale, qui in The Moose, l'alce, la Bishop, sempre cara che ci ha insegnato in un'altra sua poesia a saper perdere."Una partenza. Un ritorno. La consapevolezza indicibile che ovunque noi possiamo andare... c'è una memoria che resta fissa, che non ha fretta, ci attende sul limite delle cose e le ricompone, come se mai ci fossimo dispersi."
Ogni racconto un pezzo in mano e immaginiamoci così, nel suo modo, nella sua vita, con quel gatto che vorremmo noi adottare per salvarlo da Angela, con quel coniglio lanciato via nel bosco, una morte che sarà cibo nel bosco.  Racconti che conservano del personale, donato con la cura del momento amato, l'incontro con Pippi Calzelunghe, la ragazza di Akela, e poi Angiaq...la storia di un aborto. 
Mi sono spesso sorpresa perché alcune donne  raccontino o scrivano su quel momento in cui... ed ho trovato qui risposta. L'angiaq si ferma," come tutto ciò che ha ferocia e giustizia non muore con la morte, al contrario resiste."
Una serie di racconti che sembrano presi da un ripostiglio, dal cassetto della memoria, dal luogo più caro e scritti con la perfezione dell'essere dentro le cose.
Racconti che già amo.  
Mi sorprendo a pensare che non ho finito di parlare di "Tutti gli altri" perché nel mio immaginario il libro  sta come un amico con cui ho trascorso questa soleggiata e solitaria domenica di settembre ai tasti neri che mi fanno compagnia.  

venerdì 9 settembre 2016

Anche il profondo sud si è arreso

Come in Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca...
Guido per andare in centro, salendo via Marconi e vedo appeso sulla porta dell'edicola questo titolo a grandi caratteri. Mi fermo e lo fotografo, mi ricorda un mio pezzo di alcuni anni fa, e i numeri evidenziano quel che scrissi allora: 
Anche il profondo sud  si è arreso                    23 gennaio 2012 
Anche il profondo sud, come il profondo nord, vive in case vuote, con vicini sconosciuti, con parenti lontani, con figli unici, con genitori separati, senza tavolate, senza quartiere, nel traffico, negli incontri occasionali, al computer.
Anche il profondo sud, come il profondo nord, affida  genitori anziani, ammalati, a badanti ucraine, moldave, russe,  a case di riposo, ad ospedali.
Anche il profondo sud vede le strade sempre più vuote, i centri commerciali sempre più pieni di occhi persi  che non guardano più.
Anche il profondo sud mangia da solo, in case ampie, mangia da solo, seduto al  tavolo di una cucina piccola, grande, col televisore ad alto volume, con in mano un cellulare.
Anche il profondo sud non ricorda più il suo passato, butta  infelice i  pezzi più cari, i mobili antichi, i quadri, le lettere, svuota le case dei genitori, donando a stranieri il comò, il cuscino, il vecchio piattino sbreccato oramai.
Anche il profondo sud non conserva più, come potrebbe? Non sa più nemmeno cosa riporre via.
Mamma, dov'è il mio diario, dove sono i quaderni, i libri, i vestiti, le scarpe?
Li abbiamo buttati 
Abbiamo buttato la nostra ricchezza ed ora poveri, deboli ed indifesi, smarriti, cerchiamo una ragione.
Smarriti ma pieni di boria, di supponenza, convinti che ancora ci tocchi in sorte un mondo migliore, sputiamo convinti su quello che abbiamo, ritenendolo poco, indegno del nostro sentire, ritenendo tutto inferiore, non come noi.
Non abbiamo più una misura, non abbiamo un amico con cui litigare, un fratello da strattonare, un marito, una moglie da sopportare.
Non abbiamo l’altro con cui rapportarci e smarrendo il fenomeno altro abbiamo smarrito il nostro fenomeno. Lo dicevano gli strutturalisti, lo dico anch'io, lo dice pure mia sorella, senza conoscere Levi Strauss!
Poi incattiviti, al nord come al sud, diciamo che proprio non ne possiamo più, che siamo soli, che siamo incompresi, che nessuno ci ama, mentre con la bocca, ancora piegata, stiamo in realtà dicendo a tutti che noi non li amiamo, che non li sopportiamo, che, se potessimo, manderemmo tutti al diavolo, il lavoro, i colleghi, i cognati, il nostro, il vostro, il loro.
Abbiamo ragione, ho sicuro ragione, noi  siamo diversi… ma diversi da chi? Al sud più a sud si sta soli lo stesso che in Svezia, in Finlandia, in Norvegia e Danimarca.
Al sud come al nord
Chiedo scusa, oggi ventitré  gennaio, secondo il calendario cinese, inizia l’anno nuovo. Buon anno

martedì 6 settembre 2016

Dalla parte della radice: Marco Luppi

Il libro rosso di Marco Luppi,
Eretica Edizioni, abita casa mia da alcuni giorni. Viene con me al mare, mi guarda dal tavolo di cucina preparare i pomodori interi, svuotati al centro e riempiti con fiori di zucca, poggiati nel tegame e sotto un fuoco acceso, una fiamma bassa, bassissima. 
Il libro rosso di Marco Luppi sale con me le scale e dorme fra i tanti libri nel lato vuoto del letto matrimoniale, un lato abitatissimo di versi, racconti, saggi, storie.
Dalla parte della radice di Marco Luppi mi era venuto incontro sui profili del social dove ci leggiamo in tanti, fra simili, e poi ci scegliamo, dove ognuno si costruisce un social a sua immagine e somiglianza. 
Versi che mi passavano dalla home, insieme con il viso del poeta, insieme con altri versi, in un discorrere amabile e attento su di noi, attraverso i tanti altri che abbiamo in noi. 
Versi su versi conosce Marco.
Eccolo citare “Un uomo vale quanto le cose che ama”.
Saul Bellow, La resa dei conti. 
Poi Marco aggiunge Per la precisione:
«Com’è che diceva un tale che ho conosciuto? – disse Wilhelm. – «Un uomo vale quanto le cose che ama».
Saul Bellow, La resa dei conti.
“Ognuno vale quanto le cose a cui dà importanza”.
Marco Aurelio"
In lui la citazione è un dialogo. 
Leggo la prefazione di Pier Damiano Ori, lui stesso raffinato poeta, sua l'opera "Occhio e Orecchio" da poco in libreria, e non posso che non essere d'accordo sul suo incipit. Poesia di pensiero e di indignazione dice Pier Damiano Ori dei versi di Marco Luppi. 
Mi innamoro di una nota d'autore, forse perché già avevo letto una plaquette nella quale Massimo Celani aveva scritto " La distanza di noi stessi" e anche Marco scrive che "Le persone sono luoghi lontani dalle coordinate in cui si trovano" e illusi,  nel credere coordinate quel tavolo e quel luogo corporeo abitato, già facciamo "una solida delimitazione dei corpi"dice Kafka. Spaventosa cosa. 
Compito dunque della poesia è infrangere la solida delimitazione dei corpi, per saltare il cerchio, per saltare il fosso, per saltare un gradino, per saltare ciò che con il corpo io non potrei. 
Le persone sono luoghi lontani, lontane da noi, certo, ma anche lontane dal loro appartenere a quello spazio che occupano. Essere tutti lontani dallo spazio occupato affinché nemmeno la solitudine possa raggiungerci, questa la consapevolezza con i versi in mano.
" Siamo versi scritti di un foglietto stropicciato" scrive Marco Luppi "che da sempre qualcun altro porta a sua insaputa nelle tasche." Ricordo una sera con Neri Marcorè. Presentando la sua vita, il cinema, le imitazioni, lui disse uguale. Ed io mi portai nella tasca la poesia che ci recitò alla fine.
"Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell'altro,
e dirà: Siedi qui. Mangia."
dal libro "Mappa del nuovo mondo" di Derek Walcott
Nella tasca ti porteremo, scrissi di ritorno a casa e  ciò che ci portiamo nelle tasche, ognuno di noi, di un altro ancora, siamo noi.
Mi piace leggere in Marco, come lui stesso scrive " Nel portagioie la veggenza della fantasia, nel poco, nel niente di cose di poco conto"
Mi piace leggere in Marco "Le cose che non mi piacciono, le cose che mi piacciono"
Essere amici nel verso di poesia civile, comporta una protesta, una riflessione, una tensione morale, e simile sembra "la tassidermia del verbo e dei ricordi."
Si può, con un verso in testa, andare fieri "Contento di non essere convinto, convinto di non essere contento." Impegno e lotta per preservare l'individualità di ognuno di noi, come regalo, come "medaglioni in cerchi d'albero al centro"
Dalla parte della radice " I poeti raschiano il fondo della vita che lasciano" " Mai sullo stesso piano" " Adducendo amore"
Nel suo primo libro di poesia gli enunciati che lo accompagneranno per versi e versi, con le scarpe ben allacciate per consentirgli di raggiungerci, quando vuole. 
     
   

lunedì 5 settembre 2016

I versi che amo: Miscellanea da Frontiera di Pina Majone Mauro

Frontiera di Pina Majone Mauro 
                                            

Per lungo tempo appagati e felici          pag121
Bagnammo nel miele il pane dell’esilio
Oggi però remiamo all'incontrario
Nel mare della nostra indifferenza
Per ritornare dove abbiamo lasciato
Appese al muro le nostre chitarre
Non è ricca la pesca ma stasera            pag122
Dopo una mensa odorosa di mare
Possiamo riaprire le finestre
Ad una notte da reinventare
Ad un mattino che s’indora di sole
Mentre io comincio con l’intitolare
Al vostro ritorno l’ultimo mio canto
...
Solo tornando s’impara a non partire                             

Ognuno ha il suo tempo e la sua storia     pag33
Ma noi del sud non nascemmo vincenti
Se la storia non ignora se stessa               pag34
Mai più saliremo sui treni dell’esilio                                  

Il ritorno è un circuito della mente              pag73
Che ripassa per vie dimenticate
E s’incatena al canto notturno
Di chi grida al cielo sottovoce
Un nome mai scordato che si perde
Mare via di sale  per anime in fuga      pag159
Dal proprio nome  dalla propria fame  
Bentornati alla casa alla foce               pag74
Bentornati al fiume della vita            

Torniamo insieme meglio se siamo in tanti  pag145
Al mare alla casa al campo che lasciammo          
Nell’asfittico spazio del destino  pag185

Ritorno cavalcando la speranza pag230

Mare unico celeste paradiso  pag231
In questo sud oscuro come l’inferno

Mare solcato dagli scafi insanguinati

Là dove il fato sbarrò la tua strada

Là io ti attendo in anima e dolore pag 231 

Anima che non sa dove cercarsi pag 232

lunedì 29 agosto 2016

Il teatro cerca casa

Conferenza stampa di TeatrOltre stamani.

Al Museo della memoria, in occasione dei quarant'anni di Teatrop, Pierpaolo Bonaccurso legge Un brano di Jerzy Grotowski che termina con queste parole "Trovare un luogo dove tale essere in comune sia possibile..." 
Nelle stanze del museo quaranta tavole tematiche sono sintesi di una contaminazione voluta da chi nel teatro crede come progetto.

Fra le foto questa di Gianni Piricò, scomparso da pochi anni, fra i fondatori di teatrop, alter ego di Piero.  
Al tavolo della conferenza stampa, insieme al sindaco e all'assessore, a Giovanna Villella, responsabile  della rassegna Lamezia Summertime, Pierpaolo con Piero Bonaccurso, suo papà, e Ivan Falvod'Urso raccontano storia e teatro, da Claudio Remondi e Riccardo Caporossi, artisti eretici del teatro italiano che hanno contribuito a rinnovare con i loro allestimenti, di sapore beckettiano, quasi sempre "muti" e  ripresi da Teatrop nel loro primo spettacolo " Sacco (1973)"

E poi ci hanno mandato via... racconta Ivan, dalla prima performance nel piano terra dell'allora Liceo Classico ai vari traslochi fino al Politeama Costabile, ed ora senza casa. Un teatro senza teatro. Un recente bando, una recente gara, ha privato della sede chi si occupava di teatro e ha imposto loro di dover pagare per presentare uno spettacolo. Rimaste senza dimora, di fatto l'esito del bando penalizza le compagnie presenti sul territorio. A Lamezia gli spazi esistono, diamoli a chi fa teatro, creiamo la residenza teatrale, con la partecipazione delle compagnie storiche e conosciute in Italia e all'estero, Teatrop, Scenari visibili, compagnie che potrebbero insieme rilanciare un teatro amatissimo in città. Nel festeggiare i quarant'anni del teatrop, ora diretto da Pierpaolo Bonaccurso, vediamo i volti giovani degli alunni dei laboratori, del liceo Scientifico, come  Nicola Muraca, del liceo Classico, vincitori del premio nazionale  Gerione, vediamo una città, sempre attenta e culturalmente sensibile, che non vuole essere più delusa.
I teatri devono vivere in una buona casa. 
Accanto a me Alessandra Caruso, altro giovane volto da tempo nel Teatrop. Sono in tanti stamani in una affollata conferenza stampa, a rivedere gli spettacoli teatrali  e a  rivedersi. 
Nella foto iniziale Pierpaolo Bonaccurso con una forbice in mano aspetta per il taglio del nastro della mostra. Un taglio di contaminazione al teatro che c'è. 
Inizia la rassegna Teatroltre, festival di teatro in strada, un programma con artisti internazionali per le strade della città. Applausi  

domenica 28 agosto 2016

Viaggio in Giordania

Giugno 2010
Appunti di Viaggio in Giordania  con la Golden Helm

Il viaggio che non ho fatto. 
Il viaggio che ho fatto. 
Ne dovevo fare uno e ne ho fatto un altro, totalmente diverso, ma reale, pratico, duro. 
Non culturale, come sghignazzando o enfatizzando si usa questo aggettivo, 
un aggettivo che connota, ora, il vuoto della conoscenza, della consapevolezza critica, della coscienza di una diversità. 
Tutto è uguale… In  questo viaggio melassa la storia è annullata, gli individui inesistenti, la capo scostante e indifferente, la guida, scelta per l’uopo, non ha colpe.
 Eppure questo vagare senza senso da un albergo ad un altro comincia a piacermi, a darmi il polso di un malessere che pervade il nostro tempo. 
Guardo e scopro affinità, tristezze e malinconie negli occhi di alcuni,  sofferenze per  come la vita li abbia cambiati, ci abbia  cambiato, solitudini risolte o nascoste col cibo, con l’acquisto continuo e reiterato di piccoli oggetti da portare via, da regalare poi come un  obbligo ottemperato.  Sento, percepisco una rassegnazione, una accettazione, una obbedienza alla vita, in generale, e al capo, in questo viaggio, senza scatti, prona,
eppure questi posti avrebbero dovuto essere visitati con la coscienza di viaggiare nel tempo a recuperare le origini del nostro cammino umano.


Oggi la città dei nabatei! Che meraviglia! Rosa, scavata nella roccia, dimenticata, la città che nel terzo secolo avanti Cristo era vivace,  fiorente ed ora non c’è più. 
Un viaggio non si fa solo per vedere, abbiamo cinque sensi, possiamo usarli e sicuramente, al di là dell’inganno di un viaggio promesso sulla carta da una agenzia di viaggio e non mantenuto, questo viaggio avrà la sua personalità, il suo personalissimo valore.                                                                                                                                                                                                                    Un viaggio non è un viaggio se non ci sono smarrimenti, imprevisti, ritardi, equivoci, litigi, intolleranze, delusioni.
Un viaggio non è un viaggio senza stupore, meraviglia, fascinazione di luoghi. 
Un viaggio non è un viaggio se gli occhi della mente non si abituano a vedere le differenze, le somiglianze, a sentirne il contatto e il profondo baratro fra mondi diversi. 
Se viaggiare è questo, allora, nonostante tutto, ho viaggiato.
Stimoli diversi- dicevo. Ostacoli superati con facilità, per ora. 
Prima sera: stanza ermeticamente chiusa, aria condizionata, difficoltà respiratorie.
Risposta secca, dura del capo - te ne vai
Io, decisa, ferma- Sì, me ne vado-
Non smarrita davanti alla aggressione, alla indifferenza, ma consapevole che era l’unica risposta che io sapessi dare. Forse non quella giusta.
 Perché è il capogruppo che si fa carico dei problemi del suo torpedone. Qui è diverso. 
Poi un principe, il cugino del re, come nelle favole, comprende e fa aprire una suite  reale con terrazzo, la fa pulire e risolve, per quella sera, si badi bene.
 Rimane quindi  valido l’imperativo e il consiglio di andare ad acquistare subito il biglietto di ritorno. -Dove?
-Sono affari tuoi
- E un   sussurrio … non  avrà i soldi … non ha ancora dato la mancia!
Si scoprirà, in seguito, molto in seguito, che le finestre degli altri alberghi si aprono tutte. 
Come? Si scoprirà facilmente, banalmente, telefonando, se telefonando … 
Ma la nostra capa, senza una erre da mettere dove si vuole, come mi suggerisce MeriLou, non sa.
Tante le cose che non sa, scopriremo più tardi, malgrado i suoi innumerevoli viaggi.
 Ma, forse, il suo è l’atteggiamento giusto, responsabilizza l’altro, lo riporta all'ordine e alla disciplina, lo ignora per lungo tempo e lo blandisce solo al passaggio del fogliettino che pubblicizza l’ennesimo tour.
Merylou perde il bastone, la Kapo si gira dall’altra parte, qualcuno cade, noie!
Vai a Petra e vuoi vedere il monumento più importante,- è lontano - è la sua risposta - non c’è tempo-  E così siamo andati a Petra senza esserci stati, come se fossimo andati a Roma senza vedere il Colosseo.
Ma lei, prostrata da una raucedine fastidiosa, probabilmente sintomo di qualcosa di più serio, non raccoglie, è una lastra, e si è scelta una guida all’uopo. Docile, inconsistente, senza contenuti, asmatico, stanco, l’uomo guida è affiancato dal responsabile del Garden Travel, nervoso e diseducato, diabetico e infelice, che per fortuna, va via subito. Mi è sembrato di essere su Scherzi a parte.
Era un bel viaggio sulla carta, ma la carta è solo un pezzo di carta. 
Qui ora ho visto alberghi confortevoli e lussuosi, ottimo cibo, e per caso, ma questo non era incluso nel programma, una compagna di camera gradevole, acuta, sorniona, una presenza piacevolissima, una miss Marple giovane, una Elisabeth di Ragione e sentimento, più adulta, una camperista, quindi abituata a gestire con poco spazio, poca roba le sue esigenze.
Io le sarò sembrata  con troppi bisogni, di docce, di riposo, di cibo. Eccessiva, dicono i miei cari. Comunque è andata bene. Questo era un optional. Lo pagherò a parte. Non all’agenzia di viaggi, però, ma alla nostra cara amica comune che, lungimirante, ci ha messo insieme. 
Resta, comunque negli occhi lo scenario rupestre e infinito del deserto del Wadi Rum.

Il nostro scorrazzare su scassate quattro per quattro  nel laboratorio di uno scultore senza limiti e confini, uno scultore, un architetto, un disegnatore insuperabile. 
Lo spettacoloso della natura basterà da solo a ripagarci di tutte le noie della villeggiatura.
Ci ripagherà e sentiremo il desiderio di voler ritornare ancora in un deserto vero perché lì ci sentiremo meno soli del nostro permanere nel deserto quotidiano fatto di incontri e vicinanze.                                                                                                                                                                                                                                                    Ristorante giordano Giovedì. Accanto a me una tavolata di uomini- giovani- tutti-  tranne uno due tre forse i capi che portano a pranzo gli operai, i dipendenti. 
Mangiano silenziosi, a volte sorridono, concentrati. Due splendidi occhi assorti. Riprendono a mangiare. Sono pranzi di lavoro. Non  si dicono niente. I subalterni temono il capo e stanno composti, sottomessi, il capo guarda, si intrattiene con gli altri anziani- capi 
Alcuni indossano la giacca, altri portano i baffi, avranno la donna a casa, con i piccoli.
 Dedicheranno un pensiero a questa donna, una attenzione in altri giorni, capiranno che esiste anche l’altra, chissà!
Intanto cosa sanno di loro, al di là del possedere un orifizio dove immettere cibo, mettere lo stuzzicadenti, tenerlo ben dritto, stretto.
Fanno foto di gruppo, mi ricordano altre fotografie, di altri uomini, che mangiano, che bevono, lontani con la mente, con il cuore, con il corpo, da un corpo che saltuariamente li ospita, lontani anche da se stessi. 
Cosa pensano, oltre al lavoro, oltre alla pancia, alla tasca, al dominio, non so.
 Eppure vedo da un altro lato uomini con le mogli, una di queste velata e coperta interamente di nero, uomini, alcuni attenti, altri seccati, alcuni generosi, altri dediti. Allora esistono altre categorie di uomini che non si annoiano con figli e mogli, non sempre almeno, che sanno ritagliare del tempo anche per la compagna, che diventa sorella, amica, compagna di un cammino umano difficile senza di lei, senza di lui!
Un cammino senza eredità di affetti non ha senso. Ma anche così, se guardo intorno a me, anche così, se si ha interesse verso i nostri simili, possiamo cancellare tavolate di soli maschi e dirigerci leggere verso la conoscenza di chi ha il piacere di conoscerci.
 Giordania che non ho visto, il viaggio che non ho fatto, eppure resta di tutto questo una profondità saziante. Questo solo possiamo dire:- ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Sono bulimici, i nostri compagni di viaggio, bulimici e annoiati, ripetono che non ne possono più di viaggi, ma già si preparano a scorrere il foglietto del prossimo che la capo gli fa pervenire sollecita sotto gli occhi. Sono appena ritornati, alcuni di loro, pronti a ripartire.
La mia alter ego mi rimanda una immagine discorsiva, descrittiva, analitica, organizzata di un modo di vivere che facilmente non  può essere che condiviso. 
Mi invita a studiare gli uomini del luogo, i loro sguardi, il modo di parlare, la loro cortesia, la benevolenza verso un turismo che sicuramente porterà  benessere e posti di lavoro.
Oltre c’è lo scambio di un ciao in arabo, di un vocabolario italiano-arabo, raro in questo paese sotto il dominio inglese, un vocabolario da rilanciare, una occasione
LE PROMESSE NON  MANTENUTE. - Oggi potrete fare un giro in barca e vedrete i fondali del Mar Rosso, la barriera corallina, i pesci più colorati, più diversi, uno spettacolo al  costo di venti euro.-
Mi propongo alla escursione, ho letto che ad Aqaba c’è un parco marino, esiste veramente quello che viene promesso. Così in venti seguiamo fiduciosi fino al porto la guida che ci fa salire su barconi sconnessi e luridi, con oblò scarsamente trasparenti. 
Guidati da uomini scortesi, veniamo fatti girare per tutto il tempo nel porto fra puzza di petrolio e navi ancorate, ci indicano, con scherno, l’unico pesce che per caso passa inavvertitamente da lì.
Gli unici pesci che abbiamo visto erano stampati sulla mia borsa Braccialini, sul foulard in tinta, sul portachiavi a strisce, bianchi e neri e non a caso l’unico pesce che abbiamo avvistato era a strisce bianco nero. Renato era contento lo stesso! Era il pesce della Juventus! 
Ritorniamo all’albergo, ed eccetto me, tutti giustificano la guida che certo sapeva quello che non avremmo visto e certo sa cosa avremmo dovuto vedere.
 Un luogo bellissimo che potremo ammirare guardando i documentari sulla barriera corallina di Aqaba, la più settentrionale di tutte le barriere. 
Ma ora dovrò dire di tutte le altre promesse non mantenute, quest’ultima non era inserita nel programma. 
Non abbiamo visto Amman, la Cittadella, il Museo che conserva alcuni rotoli del mar Morto, la Moschea, il tempio di Ercole, o per  essere precisi,  ci siamo passati, tutto molto fuggitivo, l’esposizione, la visita, in fretta,  non c’era tempo, c’era l’appuntamento al suk o da uno scultore. Questi,   gentilissimo, ci ha ricevuto in casa, e prima a fare acquisti e poi in una vera casa araba a mangiare e a bere the – caffè arabo con cardamone – frutta - e poi lo scultore ci regala - tutti gli arabi sono generosi!- statuine di modesta fattura che tiene lì in mostra nel portico antistante. Non c’è tempo nemmeno il giorno dopo e viene cancellata la visita ad Umm Qais, l’antica Gadara, una delle decapoli romane, troppo simile a Jerash, evidentemente, dove di controvoglia veniamo lasciati per un’ora o meno.
D’altronde come dicono alcuni  romani di Roma del nostro tour, loro vivono a Roma, cosa importa del decumano, del cardo, del teatro che non vediamo, di ogni struttura che ricorda loro i fori imperiali che ogni giorno hanno sotto gli occhi. 
Cara mia compagna di stanza abbiamo fatto un bel viaggio, ma sulla tua guida Lonely Planet, ogni giorno avidamente leggevamo quello che non avremmo visto e nascondevamo diplomaticamente la nostra delusione, essendoci accorti che, per quasi tutti gli altri componenti del tour, era quello il migliore dei viaggi possibili. 
Questo che non è stato un tour culturale, è stato invece un tour gastronomico- alberghiero. Ben cinque le strutture visitate. Tutte cinque stelle. Lussuose, megagalattiche, con cibi curati, ottima cucina, dolci superlativi, sempre colazione abbondante, pranzo- cena, sempre super nutriti, ben satolli, siamo rientrati a casa con due o tre chili in più!
REGENCY PALACE
Ho dormito dove dormì Poirot e Jacqueline Kennedy 
E scrivo. A Petra
Nulla è per sempre.
Una frase banale nella sua ovvietà.
Allora perché noi, umani, continuiamo a chiedere ai nostri pensieri, ai nostri affetti, ai nostri progetti una eternità inesistente?
Avrei voluto mettere la crisalide sotto una boccia di vetro per impedirle di mettere le ali, di trasformarsi, di essere altro, avrei voluto  per sempre la mia adolescenza, mia mamma giovane, mia nonna che raccontava le favole, mia sorella giocare a basket lanciando il suo pallone contro un divieto d’accesso, avrei voluto, per sempre, sentimenti ondeggianti e sway, come la nota canzone, barcollanti. -Mi amerai per sempre?- E’ una banalità, ma può essere vera se poi aggiungi- finché sarà possibile-  finché avrò vita- finché tu lo permetterai- 
Poi si scoprirà che il sentimento è univoco, poi si scoprirà che per sempre è un bellissimo sogno, come un bellissimo tesoro celato alla vista degli altri da portare con noi in  quei pochi istanti di confine tra la vita e la morte,. 
Quando attraverseremo la barriera porteremo con noi per sempre pochissimo e moltissimo, nei flash finali, il sorriso di nostro figlio, se c’è stato, la pazienza di mamma, la sollecitudine di sorella, e un grande amore e rimpianto. 
Non  so proprio per sempre come sarà. Le persone entrano ed escono dal nostro spazio vitale dandoci testimonianze diverse. 
Come attori, anche noi, pronunciamo battute e andiamo avanti, come attori mal diretti improvvisiamo, poi, ogni tanto, stanchi del logorio di battute stantie e ripetute, scambiamo i logori fogli del copione con altri già recitati.
Nel cerebrale delle mie costruzioni mentali le parole di libri letti prendono forma e vita, le faccio mie e nel giorno che nasce nuove frasi appaiono confortanti. 
Nulla è per sempre, tutto è diverso, e chissà perché mi viene in mente Petra rosa, vista dal Siq, scomparsa, ritrovata, visitata, troppo poco. Irrimediabilmente sciupata ed amata nel tempo.
Giugno 2010