Gennareniello, una commedia di Eduardo De Filippo, si recitava quella sera a Napoli, nel sottoscala di un dopolavoro ferroviario, dicentesi teatro off, con pubblico, alcuni in vestaglia e ciabatte, altri in sontuosi tailleur di velluto nero e calze ramificanti, con rose, su splendide dècolletè nere.
Pubblico indigeno ed esterno, venuto per l'occasione.
Un trionfo.
Io, ogni tanto mi svegliavo, e, fra sonno e dormiveglia, la rivelazione.
Come dice Flaiano, nello Spettatore addormentato, sono questi i momenti che squarciano il velo fra noi e il testo, fra noi e noi.
Gennareniello, sul palco, con in mano un foglio, stava seducendo, a suo modo, una donna, leggendo un suo scritto.
Ve lo leggo?- diceva, dopo aver preso da una tasca il foglio e senza aspettare leggeva, amando quello che leggeva, senza curarsi se la malcapitata volesse o meno sentire quel suo canto dell'anima.
L'ingenuità del personaggio sarà facile oggetto di scherno da altri più scafati e lo scritto sarà motivo di ridicolo, non già di stima.
Ridendo amaramente e scherzosa, io, sveglia, promettevo alla mia amica che mai più avrei estratto dalla borsa un foglio ed avrei letto, a conoscenti e non, quello che avevo scritto la mattina.
Ridemmo molto, infatti, io della mia scoperta, lei del suo elegante tailleur, tutte e due capitate in una confusione di termini.
Lei si era vestita per andare a teatro, e non nel sottoscala, io, in quel sottoscala, avevo capito cosa succede se ci prendiamo troppo di una passione.
Scivoliamo nel ridicolo.
Così chiusi per sempre l'esperienza del foglio.
Ippolita Luzzo
mercoledì 28 gennaio 2015
domenica 25 gennaio 2015
Giorno della memoria- Patrick Modiano
Patrick
Modiano- Se perdo te non perdo te
Dora Bruder
Scomparsa
due volte. 31 dicembre 1941 e morta ad Auschwitz nel 1944
Modiano
racconta l’orrore raccontando se stesso, il suo rapporto vuoto con genitore, il
suo essere solo con la sua scrittura, i suoi occhi che vedono oltre le carte,
la burocrazia, il numero.
“Ci vuole
tempo per riportare alla luce ciò che è stato cancellato. Sussistono tracce in
alcuni registri e si ignora dove siano nascosti, quali custodi veglino su di
essi e se quei custodi accetteranno di mostrarli. Può anche darsi che ne
abbiano semplicemente dimenticato l’esistenza."
Si dice che
i luoghi serbano una lieve impronta delle persone che li hanno abitati.
Impronta, segno incavato o in rilievo. Per Dora Bruder e genitori, Modiano
dice: incavato.
“Ignorerò
per sempre come passava le giornate, dove si nascondeva, in compagnia di chi si
trovava durante l’inverno della sua prima fuga…
È il suo
segreto. Povero e prezioso segreto che i carnefici, le ordinanze, le autorità
d’occupazione, il Deposito, le caserme, i campi, la Storia, il tempo – tutto
ciò che insozza e involge – non sono riusciti a rubarle.”
Nella storia
dell’intolleranza e delle faide sociali, inutili, senza senso , ma
tremendamente sanguinose e feroci bisogna ricordare una semplice frase.
Del libro di
Jean Genet “ Il miracolo della rosa” Modiano cita questa“ Quel bambino mi
faceva capire che la vera sostanza dell’argot parigino è una mesta tenerezza”
riferita ora ai bambini che nascono in Italia da nazionalità diversa e parlano
italiano essendo stranieri, riferito a Dora, a tutti i bimbi ebrei, polacchi
oppure palestinesi, che parlavano e parlano con l’accento parigino usando
termini di argot di cui Genet sente mesta tenerezza.
Tenerezza
nel ricordare.
Dopo la
catastrofe dello sterminio, dei campi di concentramento, delle divisioni fra
razze, dei forni, degli esperimenti, del collettivo partecipare a riti di pulizia
etnica, dopo…
Tutto
cancellato nella Parigi disegnata dallo scrittore, i quartieri, i luoghi della
scomparsa di Dora, delle retate, dello smistamento.
“ Mi sono
detto che nessuno ricorda più niente. Dietro il muro si stendeva una no man’s land, una zona di vuoto e di
oblio…
Eppure sotto
quella spessa coltre di amnesia si sentiva qualcosa, di quando in quando,
un’eco lontano, soffocata, anche se nessuno sarebbe stato in grado di dire
cosa, con precisione.
Era come
trovarsi all’orlo di un campo magnetico, senza pendolo per captarne le onde.”
Tutto resta
fra le strade come un sussurro.
La
solitudine permette di ascoltare il fruscio dei suoni, delle parole di chi non
c’è più, la solitudine permette a sconosciuti di invadere i nostri pensieri e
dialogare con noi, oltre il tempo, oltre il sensibile, con un respiro.
Da cosa
scappava Dora, si chiede Modiano, parlando di lui, lui è Dora.
Che cosa ci
induce a scappare, oppure a nasconderci? Vediamo cosa scrive Modiano: “ Sembra
però che ciò che ci spinge a fuggire
d’improvviso sia un giorno di grigiore e di freddo che ci fa provare una
solitudine ancora più acuta è la sensazione di una morsa che si chiude”
Ora Modiano
dice una cosa che dico io, che diciamo tanti:” Come molti altri prima di me,
credo nelle coincidenze e talvolta a un dono di veggenza nei romanzieri… e la
parola dono non è il termine giusto, dal momento che suggerisce una sorta di
superiorità. No, si tratta di qualcosa che fa parte del mestiere: gli sforzi di
immaginazione, necessari a questo mestiere, il bisogno di fissare la mente su
piccoli particolari…” questa tensione può suscitare fugaci intuizioni
concernenti fatti passati o futuri, come scrive il dizionario alla voce <
Veggenza>
E questo
pomeriggio di domenica, siamo di nuovo in inverno, il 25 gennaio del 2015,
passato con Dora Bruder, con Modiano, in una commozione di simili, di
appartenenza a fughe solitarie, di appartenere ai disegni della storia che ci
chiedono sempre una azione, ignorando noi il fine.
Un libro
grande nel suo essere vuoto di fatti e sull’abisso dove molti parteciparono per
annientare categorie, etnie, linguaggi, famiglie.
Un orrore
così grande che ci regalò altri settanta anni di pace. Terrorizzati.
Riusciremo
ancora a preservarci? L’augurio che mi faccio e che si saranno fatti al Nobel
consegnandolo nelle mani di Modiano.
La solitudine
Non ho scelto io la solitudine
La solitudine ha scelto me
Ho tentato di allontanarla,
ogni giorno
ho tentato.
Lei è ritornata da me,
sempre più forte.
Guardo mia mamma, stanca di tutta una solitudine antica, continua, senza un solo giorno di felicità, una solitudine di noia, di giorni senza aria, costretta alla cura dei suoi familiari, di chi l'ha carcerata, di chi l'ha soffocata, di chi l'ha impaurita.
Guardo mio fratello, mio padre, incarcerati dalle loro stesse circonvoluzioni.
Uno, disfatto da cotanto padre, l'altro, deluso da cotanto figlio.
Una lotta continua fra un debole ed un arrogante, fra un bambino e un bambino,
due bambini malati e fragili, un equilibrio che sembra sempre che stia pericolando in bilico fra sanità e follia.
Guardo mia sorella, saggia, propositiva e sfiancante, con tutto un carico di attenzioni verso casa, verso loro, verso tutti, un voler colmare il mare della disattenzione, con abnegazione, su piccoli, infinitesimali gesti quotidiani.
Una vita fatta di anni, giorni, ore, minuti, senza relazioni, senza visite, senza fuori, senza niente.
Invidiata.
Mi invidiano la mamma ancora in vita, i facentesi parenti, me lo dice dal fruttivendolo, incontrandomi, la lontana cugina plurimaritata, al ritorno dai campi da sci, me lo dice a voce alta:- Beata te, che hai tua mamma autonoma, che esce, mentre la mia è paralizzata e devo farle spesa!- Mi dice
Io ribatto che la sua mamma ha una badante notte e giorno ma lei, lei mi invidia.
Mi invidiano tutte questa mamma che a novanta anni fa cruciverba ed è lucida, carina, affabile, un lenimento al vivere, eppure ora tanto stanca.
Me lo dicono a voce alta, quelle rarissime volte, in decennali, in cui incontro il parentame.
Un parentame che mia madre ha sempre accolto al suo tavolo, e che si è pulito il muso, dissociante.
Un parentame sconosciuto e formicolante, che non vedremo ai nostri funerali, strettamente solitari, come abbiamo vissuto.
Nessun amico ha avuto il mio papà, almeno noi non lo sappiamo, lui andava solo al campo sportivo, la domenica, misurato, seguiva le partite, non usciva se non per lavorare.
Alcune vicine aveva la mia mamma, ora sono tutte morte.
Nessun vicino, vicino casa mia. Svuotato il centro storico di un paese.
Solo la Chiesa accoglie mio fratello, i suoi riti, il coro, la messa domenicale.
La solitudine ci ha scelto come nucleo familiare, come entità personale, facendosi beffa del nostro essere sociali
Facendosi beffa del nostro voler vivere ed amare
Del nostro smisurato impegno a vivere una vita che sia normale
La solitudine ha scelto me
Ho tentato di allontanarla,
ogni giorno
ho tentato.
Lei è ritornata da me,
sempre più forte.
Guardo mia mamma, stanca di tutta una solitudine antica, continua, senza un solo giorno di felicità, una solitudine di noia, di giorni senza aria, costretta alla cura dei suoi familiari, di chi l'ha carcerata, di chi l'ha soffocata, di chi l'ha impaurita.
Guardo mio fratello, mio padre, incarcerati dalle loro stesse circonvoluzioni.
Uno, disfatto da cotanto padre, l'altro, deluso da cotanto figlio.
Una lotta continua fra un debole ed un arrogante, fra un bambino e un bambino,
due bambini malati e fragili, un equilibrio che sembra sempre che stia pericolando in bilico fra sanità e follia.
Guardo mia sorella, saggia, propositiva e sfiancante, con tutto un carico di attenzioni verso casa, verso loro, verso tutti, un voler colmare il mare della disattenzione, con abnegazione, su piccoli, infinitesimali gesti quotidiani.
Una vita fatta di anni, giorni, ore, minuti, senza relazioni, senza visite, senza fuori, senza niente.
Invidiata.
Mi invidiano la mamma ancora in vita, i facentesi parenti, me lo dice dal fruttivendolo, incontrandomi, la lontana cugina plurimaritata, al ritorno dai campi da sci, me lo dice a voce alta:- Beata te, che hai tua mamma autonoma, che esce, mentre la mia è paralizzata e devo farle spesa!- Mi dice
Io ribatto che la sua mamma ha una badante notte e giorno ma lei, lei mi invidia.
Mi invidiano tutte questa mamma che a novanta anni fa cruciverba ed è lucida, carina, affabile, un lenimento al vivere, eppure ora tanto stanca.
Me lo dicono a voce alta, quelle rarissime volte, in decennali, in cui incontro il parentame.
Un parentame che mia madre ha sempre accolto al suo tavolo, e che si è pulito il muso, dissociante.
Un parentame sconosciuto e formicolante, che non vedremo ai nostri funerali, strettamente solitari, come abbiamo vissuto.
Nessun amico ha avuto il mio papà, almeno noi non lo sappiamo, lui andava solo al campo sportivo, la domenica, misurato, seguiva le partite, non usciva se non per lavorare.
Alcune vicine aveva la mia mamma, ora sono tutte morte.
Nessun vicino, vicino casa mia. Svuotato il centro storico di un paese.
Solo la Chiesa accoglie mio fratello, i suoi riti, il coro, la messa domenicale.
La solitudine ci ha scelto come nucleo familiare, come entità personale, facendosi beffa del nostro essere sociali
Facendosi beffa del nostro voler vivere ed amare
Del nostro smisurato impegno a vivere una vita che sia normale
Ippolita Luzzo
sabato 24 gennaio 2015
Gegè dopo Mogol, uguali
Gegé
Telesforo.
Dopo Mogol lui, con il complesso d’inferiorità
che non farà mai dire quanto sia stato
utile, per entrambi, incontro con Lucio Battisti, Mogol, e Renzo Arbore per lui.
Anzi, Renzo
Arbore trattato come un coetaneo, mentre lui, Telesforo è nato
a Foggia, 14 ottobre 1961 e Renzo
a Foggia, 24 giugno 1937.
Tutto alla
pari, nulla su Renzo. Lo chiamò, lo portò a fare il presentatore e lui, oh,
lui, aveva già fatto altro.
Così si
evince da conversazione lunghissima su un palco con conduttore a volte
visibilmente a disagio, vedendosi sdoganare due palle, per ben due volte, e canne e cannoni, che artisti si fanno per
dare di più.
Veramente
fuori da eleganza, lontanissimo da
Renzo, che è e resta il vero genio innovatore.
Inizia
dicendo che a Foggia si sta male, malissimo, ultima città per tenore di vita,
penultima.
Continua
dicendo che è la mentalità sbagliata al sud e che però lui fece palestra per pugilato,
forse con Carofiglio?, e questo servì a difendersi ad Harlem.
Lui si sente
Afroamericano di Foggia, la città diventò il suo parafulmine ed ha incontrato,
lui di Foggia, Myles Davis e Ray Charles, il resto, io, non conoscendo, non
ricordo.
Insomma lui
un grande diventò, con questa passione per la musica, assorbita a casa, dal suo
papà, architetto, cultore di jazz, che gli regalò una batteria, a pezzi,
un pezzo alla volta.
Un uomo
fortunato, da sesto piano.
Marcello Balistrieri- Angelo e pittore
Marcello Balistrieri é un
funambolo, piacerebbe molto a Daniela Rabia, che di funambolismi e di equilibri
ne fa vita e sul filo teso fra realtà e immaginazione cammina.
Marcello
Balistrieri piacerebbe molto a Gianluca Pitari che di vertigine è il poeta.
La voluttuosità della vertigine, per te, Marcello, é il dipinto, per Gianluca é il verso.
La voluttuosità della vertigine, per te, Marcello, é il dipinto, per Gianluca é il verso.
Piace molto a me che sento una vertigine, nell'euforia, nell'essere
rapita da fantasia, nell'ebbrezza da astemia che gira e gira come una trottola
il gioco che ci incanta.
Marcello ha capito tutto e non ha capito niente, lui
vive altrove.
Nel mondo dove stiamo, mica comodi ci stiamo, noi siamo proprio
nessuno, noi siamo dei bambini, noi ci divertiamo e siamo sorridenti.
Ci
incazziamo se qualcuno ci distrae con futili pensieri,- quanto costano queste scarpe
e dove le hai comprate, che prepariamo oggi per cena e per il giorno?-
Lui ha
già trasformato il mondo che era prima, lo ha bello sciorinato su tela e con
colori.
Tutti possono guardare, anche sullo stesso quadro, in tanti si guardano
dentro e sono proprio dentro.
Ci stanno infatti lì, seduti ai tavoli, i suoi
amici cari, la moglie e i suoi oggetti, il mondo che lui ha in testa.
Un vero
illusionista, un grande giocoliere che fa volare in alto piatti e
personaggi.
Giochiamo insieme, dai, sei sempre il tuo bambino, sei sempre fuori,
in giro a traballare un po'... sul traballante mondo che rutilante va.
venerdì 23 gennaio 2015
L'ubbidienza è fra gli ideali nobili della politica- Domenico Marcella dixit
Toto Presidente impazza sulle pagine di Facebook
Oggi un attore, un cantante, un presentatore.
Domani una donna, due donne, tre donne, un tris,
Le Gorgoni, una trimurti, Medusa che ci pietrificherà.
Toto presidente impazza sui giornali stampati
sulle trasmissioni radio e televisive, cantando in coro: Rodotà,Veltroni, Bonino, Finoccharo, stamani.
Un Amaro del capo ci farà digerire.
Un toto presidente amarissimo con Emma in cura
e non potrebbe, eppure Pannella dice che può.
Unica e sola, che ubbidiente non sarebbe,
deve ubbidire ad una chemioterapia, ad una cura che tempo richiede.
Domenico stamane scrive così su un suo commento,
il vero titolo che deve avere un presidente:
Essere ubbidiente ideale nobile della politica.-
Essere ubbidiente a chi ti paga, non a chi ti vota,
che ormai tu li voti e loro vanno da un'altra parte,
essendo uno solo il comandamento.
Credere ubbidire e combattere,
disse qualcuno mandando una nazione al macello.
Credere ubbididire e mandare tutto e tutti a puttane,
dicono ora i nostri rappresentanti
nel termine bieco di comprare ed essere comprati.
Da presidenti e da umile gente
Oggi un attore, un cantante, un presentatore.
Domani una donna, due donne, tre donne, un tris,
Le Gorgoni, una trimurti, Medusa che ci pietrificherà.
Toto presidente impazza sui giornali stampati
sulle trasmissioni radio e televisive, cantando in coro: Rodotà,Veltroni, Bonino, Finoccharo, stamani.
Un Amaro del capo ci farà digerire.
Un toto presidente amarissimo con Emma in cura
e non potrebbe, eppure Pannella dice che può.
Unica e sola, che ubbidiente non sarebbe,
deve ubbidire ad una chemioterapia, ad una cura che tempo richiede.
Domenico stamane scrive così su un suo commento,
il vero titolo che deve avere un presidente:
Essere ubbidiente ideale nobile della politica.-
Essere ubbidiente a chi ti paga, non a chi ti vota,
che ormai tu li voti e loro vanno da un'altra parte,
essendo uno solo il comandamento.
Credere ubbidire e combattere,
disse qualcuno mandando una nazione al macello.
Credere ubbididire e mandare tutto e tutti a puttane,
dicono ora i nostri rappresentanti
nel termine bieco di comprare ed essere comprati.
Da presidenti e da umile gente
giovedì 22 gennaio 2015
Inconsapevoli
Il 2014
inconsapevole- Settembre
Ed anche
questa è fatta- fece Tala, soddisfatta, poggiando il microfono di radio 204 la
sera del 15 settembre.
Aveva
parlato sciolta di umane responsabilità al ribasso, in quel luogo che è la
nostra società, sempre pronti a scrollare sugli altri colpe e j’accuse. Un
mondo in cui apparenza e sostanza navigano sulla stessa superficie, senza
approfondire mai il senso e la ragione della notizia. Era stata proprio brava, poi in collegamento
finale aveva chiamato, senza più sentirla dalla sera del tredici, quell’idiota
che aveva messo in contatto i due personaggi per realizzare la mostra, che era
argomento della trasmissione.
L’aveva
presentata come una Sgarbi in gonnella, una che parlava male degli altri, e
poi, non dandole nessun spazio nel collegamento, aveva messo in luce quanto
fosse imbranata, distratta, incompetente.
Ora a fine
puntata poteva dirsi soddisfatta.
Avrebbe
completamente ignorato questa inutile persona, non istituzionale, non capace di
lavorare in gruppo, assente ai riti della sottomissione.
Buffa.
Buffa con
quel cappello in testa sbilenco, buffa nel suo ridere tagliente, amaro e
condannante.
Come se già
sapesse cosa io farò- continuò Tala, infastidita, perché, piano piano, la
soddisfazione di averla distrutta si rivelava poca cosa.
Certo non l’avrebbe
rivista più, avrebbe buttato qui e là qualche osservazione malevole, ma di
tutta questa sua vittoria non ne sentiva il gusto.
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