domenica 3 novembre 2024

3 novembre 2021 La lettura è uno spazio aperto


 A chi mi dice che ho solo contatti rispondo con la stima di chi mi stima e con le mie parole sull’agenda insieme a voi. 

“La lettura è uno spazio aperto. Nello spazio aperto gli occhi vedono, l’immaginazione crea, un dialogo può nascere fra le parole scritte e le immagini create. La lettura è uno spazio aperto, non facciamolo diventare spazio chiuso.” 

Ippolita Luzzo su Agenda Perrone Edizione. 

venerdì 1 novembre 2024

1 novembre 2015 /2 novembre 2024


Morto da molti anni il fratello di papà che andava ogni giorno a trovarli, si sedeva accanto al camino e diceva: Chiovi, e chiovi chiovi, quando chiovi un sicca nente.- Piove, e piove piove, quando piove non secca nulla. 

Morto da anni il fratello di mamma che ogni tanto andava a raccontare sue stralunate avventure da bevitore e suonatore di mandolino.

Morto da troppi anni mio nonno unica intelligenza ironica che io mi porto appresso e morta la nonna con le sue favole

ora andare a casa dei miei cari ogni giorno solo per riscrivere i proverbi di mio padre e le umiliazioni di mia madre, le difficoltà di un fratello e il mortorio di fondo che sussurra 

Ciò scrivevo allora e stamani al 2 novembre 2024 mi ritrovo sui tasti del perduto stare senza nessuno più in quella casa. 

Anche i mobili presero i tarli, e giacciono sotto teli trasparenti in attesa di guarire.

Un 2 novembre di passaggio su questa terra soleggiata e strana, su questa terra che ci sopporta da vivi e da morti senza eternità.

Restano però i tasti per scriverne ancora di passaggi e di paesaggi, di fiori e lumini, di lampade votive. 

Ippolita Luzzo 


martedì 29 ottobre 2024

Parthenope di Paolo Sorrentino


Cosa stai pensando? è questa la domanda ripetuta più volte nel film Parthenope di Paolo Sorrentino. Senza risposta, come succede a tutti noi quando chiediamo a chi ci sta vicino cosa stia pensando. 
Cosa sto pensando io però cercherò di dirvelo partendo dal mito, da quella sirena Parthenope, sorella di Ligheia e Leucosia, che attirava i marinai col canto per farli naufragare e non essendo riuscita nell'intento con Ulisse, ella con le sorelle si suicida, gettandosi in mare. Darà vita alla città di Partenope il suo corpo spiaggiato sul golfo di Napoli, mentre Ligea raggiungerà il golfo di Lamezia Terme, mia città, e Leucosia nel golfo di Paestum.
 Questo è ciò che riferisco spulciando nei ricordi e su internet, ma poi inizia la magia del cinema e Parthenope nasce dalle acque come io vi ho immortalato direttamente dallo schermo. 
Ora seguiamo la storia che ha pensato Paolo Sorrentino, con le colonne sonore di Gino Paoli, Che Cosa c'è, c'è che mi sono innamorato di te, e di Riccardo Cocciante Era già tutto previsto. 
 E ce lo vediamo il film ridacchiando sulle caricature, sul bel mondo di ville, villone, lusso, bellezza, corteggiamenti, e intanto fra un tuffo e un altro il tuffo mortale del fratello di Parthenope. 
Chissà cosa stava pensando! Innamorato e sconfitto dal suo amore per la sorella, per l'amico, tradito dall'amico.  
Sicuramente ciò che sta pensando lo dice lo scrittore John Cheveer, lo dice nei racconti che Parthenope legge e lo dice a lei, nel loro incontro in albergo "Ci sono gli scrittori a variare la monotonia delle parole"
Un film sul pensiero, sul pensiero che vola e va dagli anni cinquanta al 2023, sul tempo che vola e va, sul fantasticare per sopravvivere su amori e dolori. 
E nel mentre il primo tempo era pur sempre un gran da fare, nel secondo giriamo in tondo nel torbido connubio di due fanciulli obbligati a concepire per siglare un patto di unione fra due famiglie camorristiche, cose che avvengono realmente anche se non così scenografiche, giriamo in tondo ai miracoli, al sangue di San Gennaro, giriamo in tondo nell'università chiedendoci cosa stanno pensando quei docenti, Marotta in testa, cosa stanno pensando gli alunni, e come si arriva velocemente sembra al finale, alla pensione, alla festa della pensione di Parthenope che come tutti i docenti lascia l'aula fra i saluti dei suoi alunni. 

Film da vedere e rivedere perché mi sfuggì molto altro nella eterna domanda sul Cosa stai pensando   

Ippolita Luzzo 




I Luoghi 

 La maestosa residenza di Posillipo dove Sorrentino ha girato il suo ultimo film fu acquistata nel 1882 dal deputato catanzarese Achille Fazzari che vi ospitò Garibaldi. Villa Lauro, la monumentale residenza di Posillipo dove Paolo Sorrentino ha girato Parthenope.

https://www.italyformovies.it/film-serie-tv-games/detail/7393/parthenope Nelle riprese sono stati coinvolti il centro della città partenopea, via San Carlo, il quartiere Santa Lucia, il lungomare di Caracciolo e quello di via Partenope, tra la spiaggia della rotonda Diaz e Castel dell’Ovo, la sede dell’Università Federico II, la Certosa di San Martino. Un set blindatissimo per 10 settimane che ha fatto incassare a Napoli 6 milioni di euro, tra canoni al Comune, alloggi di cast e troupe, compensi per le maestranze locali. La produzione si è anche presa carico delle spese di raccolta rifiuti straordinaria e degli agenti schierati per impedire l’accesso dei curiosi, ha pulito dai graffiti la scogliera della rotonda Diaz e il colonnato della galleria Umberto.


Fanno parte del set a Napoli una nave azzurro-fosforescente, la stessa usata dai tifosi napoletani per festeggiare lo scudetto del 2023, che in un ciak notturno si muove in direzione del Borgo Marinari e di Castel dell’Ovo; un camion per la disinfestazione utilizzato ai tempi del colera del 1973; un maestoso e barocco carro trascinato da cavalli che accompagna un corteo funebre; un camion della nettezza urbana arancione e giallo, sul modello di quelli che giravano per la città negli anni Settanta.

Oltre Napoli le location del film comprendono Capri, testimone di una perfetta e spensierata estate da ragazzi. Con i suoi spettacolari Faraglioni osservati dal parco dei Giardini di Agusto, e le rive, tra cui la spiaggia del Faro di Punta Carena ad Anacapri. Set anche a Genova, dove sono stati ricostruiti alcuni vicoli della Napoli storica. Per gli interni il regista ha scelto una casa a Posillipo.  Da Italy for movies

domenica 27 ottobre 2024

27 ottobre 2015 Aspettare ad un binario morto

 


Aspettare ad un binario morto. 

Era questa la frase adolescenziale che caricata di nero campeggiava sulle prime pagine di un diario scolastico. 

Stava lì ad indicare quell'inerzia e quel momento in cui ogni persona si sarà trovata negli anni della scuola. 


Poi aspettando aspettando il tempo finisce e

 anche se il treno non passerà

chi aspetta avrà per forza trovato il modo

 per trascorrere l'attesa con un libro in mano

Ippolita Luzzo 

venerdì 25 ottobre 2024

25 ottobre 2021 Buon Autunno

 Ritorniamoci così

come un pensiero autunnale

da far cadere come una foglia secca dall’albero. 


Le corna stanno sulla testa di chi le fa.

È inutile che si sposti il gesto di uno sulla testa di un’altra.

Chi tradisce, se  tradisce, è sempre responsabile verso se stesso di un atto che può o non può essere un tradimento. Per esempio può essere invece un inizio di una relazione importante.

Così anche le scortesie rimangono a chi le fa, sono la cifra della minutaglia che avvolge la mente di chi vorrebbe nuocere.

Chi cancella volutamente un mio intervento, chi impedisce che io possa intervistare un mio caro amico perché non ho tesserino, cade come foglia gialla dall’albero della perdonanza.

Ognuno di noi è quello che dimostra coi gesti e non quello che vuol far passare con parole varie e ne è responsabile. Buon autunno 🍂

Ippolita Luzzo 

mercoledì 9 ottobre 2024

Intervista a Vito Di Battista Il buon uso della distanza


 Intervista a Vito di Battista da Ippolita Luzzo 18 gennaio 2024

Il buon uso della distanza


[Ippolita Luzzo] Ho conosciuto Vito di Battista penso nel 2018 poco dopo dell’uscita del suo libro “L’ultima diva dice addio”, un fascinoso racconto diventato il libro del mese del nostro gruppo lettura di allora. Vito è stato nostro ospite a Lamezia presso la libreria Mondadori e ne ricordo la gentilezza e la competenza. 

Ora sono presa moltissimo dalla lettura di questo suo secondo romanzo, “Il buon uso della distanza”. Quando di un libro io mi innamoro stranamente non so più parlarne perché perdo proprio la distanza. 

Ora però provo a dirvi le tante parole che vorrei. Intanto lo spunto iniziale del racconto è una storia vera. È esistito uno scrittore, a Parigi, Romain Gary, che ad un certo punto per avere di nuovo successo è dovuto ricorrere ad uno pseudonimo e con quello ritornare in cima al gradimento del pubblico. «Ho creato Émile Ajar per nostalgia della giovinezza, degli inizi, per riprovare l’emozione del primo libro», scrive,in una lettera all’editore, Romain Gary, autore del libro “La vita davanti a sé”. 

Su questo autore Vito di Battista aveva fatto la tesi di laurea per la triennale e si era innamorato di questa storia. La riprende immaginando un altro scrittore, nato a Firenze da padre francese misterioso e da madre fiorentina. Lui, Pierre Renard, decide dopo gli studi di lasciare Firenze per andare a Parigi e lì lo incontriamo in una casa editrice dove lavora. Qui entra in gioco un imponderabile destino che chiameremo Madame. Madame propone a Pierre un accordo: lo pagherà per continuare a scrivere romanzi a patto che lui li scriva in anonimato, scegliendo sempre nuovi pseudonimi, da sembrare sempre nuovi esordi, e nei romanzi dovranno esserci dei riferimenti in cui lei, Madame, si possa ritrovare perché sono scaturiti dalle sue lettere. Il protagonista è titubante ma poi accetta. Aggiungo un brevissimo passo del libro per immergerci nella storia e chiedere a Vito se lui avrebbe accettato il patto. 

«“Si scrive per colmare una lacuna” ha detto a un certo punto, evitando di incrociare il mio sguardo. “Per rimediare a una distanza, per compensare uno squilibrio naturale verso il mondo che non si lascia dire. Non si può fare altro che questo, allora: stare alla larga dalla verità, ma avvicinarsi quanto più ci è consentito. Non esiste altro modo di trattare il mondo. Un mondo che, come la verità è come tutti noi, è nato senza parole”». 

Dal libro di Vito di Battista “Il buon uso della distanza”.


[Vito di Battista] D’istinto ti direi che sì, avrei accettato quel patto, e proprio per i motivi per cui lo accetta Pierre: non per il successo (che resta sempre un’incognita), ma per l’abbaglio di una libertà paradossale, del poter tornare continuamente all’inizio, del non farsi toccare da giudizi e pre-giudizi. Togliendo se stessi dall’equazione, ci si può illudere di mettere al centro solo le parole: un atto all’apparenza privo di ego, poiché si rinuncia al riconoscimento diretto, ma che forse è una scelta profondamente egoriferita, e per tutti i motivi di cui sopra. Poi però mi pongo da solo un’altra domanda: quello che intesse Pierre per far sì che questo patto abbia delle conseguenze, che entri davvero in azione, era indispensabile? Era l’unico modo possibile? E a questa domanda non esiste altra risposta se non quella del romanzo, ovvero la traiettoria sempre più perversa e oppressiva in cui Pierre si ritrova coinvolto. Con questo orizzonte in mente, la mia risposta allora cambia e diventa: “No, non avrei accettato quel patto”. Facendo una media fra gli opposti, mi sembra allora che l’unica risposta sensata alla tua domanda iniziale sia: “Non lo so”.


[Ippolita Luzzo] Continuo chiedendo e ricordando a Vito ciò che scrivevo nel 2018 sul suo libro “L’ultima diva dice addio”. Credo che ci sia già in embrione qualcosa di presente e sviluppato nel “Il buon uso della distanza”, vero? «L'ultima diva, nel romanzo di Vito, è la memoria. Ciò che noi facciamo con la memoria, cosa raccontiamo e come quando vogliamo essere ricordati, cosa vogliamo ricordare e tutte le trasformazioni con cui rielaboriamo i fatti. La memoria ultima dea.

In Foscolo era la spes, la speranza, ultima dea, qui, nel libro di Vito è la memoria. Una memoria circolare che ritorna spesso su alcuni dettagli. Sono infatti i dettagli a dare le epifanie, le rivelazioni. Un affresco a pennellate ripetute, questo il libro di Vito, originale e inusuale, una spennellata sulla memoria dimenticata attraverso un pretesto immaginifico e cinematografico, la biografia di una diva del cinema ormai ritiratasi a vita privata.» 

Madame somiglia alla diva del libro precedente?


[Vito di Battista] Madame somiglia a quella diva, Molly Buck, in quanto personaggio che inventa Pierre. Così deve essere per via del loro patto. Perché in realtà – lì dove la “realtà” è il gioco meta-letterario che soggiace un po’ a tutto – anche “L’ultima diva dice addio” è uno dei romanzi di Pierre, solo che ne “Il buon uso della distanza” ha un altro titolo, che era il mio titolo di lavorazione al tempo. Pierre lo scrive in omaggio a Claire, uno dei personaggi di “Il buon uso della distanza”, dandole un altro nome e immaginando per lei un futuro da grande attrice ritiratasi a vita privata. Quindi Madame somiglia a Molly Buck, ma Claire è Molly Buck. Ed è come se, sempre dalla prospettiva di questo gioco, io fossi un altro degli pseudonimi di Pierre. Ho pubblicato due romanzi con il mio nome sopra, ma nel mondo della finzione letteraria entrambi questi romanzi sono opere sue, e questo è forse l’unico vero punto di contatto che esiste fra me in quanto persona e Pierre in quanto personaggio.


[Ippolita Luzzo] Ed adesso entriamo nel mondo dell’editoria, nel mondo dove ogni sgambetto è lecito, nel mondo dove si decide chi pubblicare e chi osannare, chi recensire sulle pagine più importanti, sulle televisioni, e farne un caso editoriale. Qui il libro si articola e ci regala uno spaccato veritiero di come e quando si decide e perché si decide, di chi ricatta chi, di chi odia chi, magari senza motivo oppure con un motivo lontanissimo nel tempo. Nel mondo intellettuale gli odi e i rancori restano fermi al primo momento di lettura, di incontro. Un quadro che Pierre Renard ci regala con esattezza. Quanto è vicino vero ce lo dirà Vito, per me è proprio come lo leggerete nel libro.


[Vito di Battista] Pierre vede e vive un mondo come tanti, anzi come tutti, che è fatto di compromessi, di bassezze, ma anche di intenti positivi e di genuinità. Si cala però soprattutto nel male che c’è, e lo fa per i propri scopi o spinto dalle ramificazioni involontarie del progetto che vuole portare avanti. E il male chiama sempre il male, in editoria come ovunque. Tutto sta a cosa si decide di farne, di questo male; come scardinarlo o sfruttarlo, ignorarlo o alimentarlo. Fino a che punto farsi contagiare o cercare un equilibrio, più o meno a distanza di sicurezza. Riguardo quanto sia veritiero ciò che si legge nel romanzo, potrei dirti che lo è totalmente, che ogni dettaglio e ogni episodio sono ispirati da fatti reali o ne sono una fedele ricostruzione, oppure che al contrario è un’invenzione, una menzogna esagerata per fini puramente narrativi. Non credo importi molto quale sia la mia verità, in tal senso, e lo credo perché una risposta netta sarebbe comunque solo la mia prospettiva e darebbe un’altra chiave di lettura alla storia, ne sposterebbe le coordinate in un campo di analisi che è molto più complesso e va oltre la storia in sé, oltre lo spazio che ci è concesso qui o anche semplicemente la mia esperienza in merito. Credo invece che a importare sia quanto ciò che si legge nel romanzo risulti plausibile, e poi ognuno trarrà le proprie deduzioni da questa plausibilità. Il tuo ritenerlo aderente al vero mi fa piacere soprattutto per questo motivo: dalla tua prospettiva, la plausibilità che ho cercato di raccontare ha funzionato perché è parsa reale, a prescindere da quanto lo sia davvero.


[Ippolita Luzzo] “Il buon uso della distanza” ci invita ad usare bene la distanza, anche dall’ossessione della scrittura, anche dalle critiche feroci o dagli elogi entusiastici, e ci aiuterà poi a trovare il bandolo come farà Pierre Renard nella sua storia raccontata con uno stile originale e affabulante. Nelle sue lettere a Madame ho ritrovato una mia lontanissima corrispondenza con un autore che avrebbe voluto avere successo, e le nostre e-mail ormai chissà chi le leggerà. Resteranno le e-mail come le lettere di una volta nei cassetti e saranno ritrovate oppure scompariranno nel nulla di un ricordo estinto? Me lo domando e te lo domando essendo appunto il tuo un libro di lettere inviate, di lettere che compongono una storia umana che riguarda sempre due persone, chi scrive e chi legge, chi risponde e chi ne farà un romanzo. 


[Vito di Battista] In una qualche misura, forse meno affascinante ma solo per via di un gusto rétro, sì, resteranno, o comunque potrebbero farlo. Alla fine, ciò che ha una qualche ragione che vada oltre resta sempre, o quasi sempre, o scalpita per riuscirci. In potenza, tutto quello che ci riguarda può rimanere e, per un tempo più o meno limitato, dire ancora qualcosa. Il problema è che gran parte delle cose di cui ci circondiamo perde di senso nel momento in cui non c’è più una voce che le spieghi, che le racconti. Le parole, che siano in forma di lettera o di e-mail, per fortuna si raccontano da sole. Bastano a loro stesse. E uno dei grandi paradossi di Pierre sta forse proprio in questo: mette in piedi ricatti, sotterfugi, vendette, ma quello a cui mira è che le parole, un giorno, quando tutti i ricatti e i sotterfugi e le vendette saranno dimenticati poiché nessuno potrà più raccontarli, possano restare perché bastano a loro stesse. In un punto nel romanzo Colette, la maîtresse di un bordello illegale, dice a Pierre che «deve passare del tempo prima di raccattare cosa resta fra le macerie», che «il grano deve morire prima di diventare un tozzo di pane». Pierre (citando Gide) le chiede di rimando: «E se il grano non muore?». Colette risponde che allora ci si dovrà accontentare «degli avanzi della sera prima». Sta qui, forse, la risposta alla tua domanda. Il presente scivola presto via e si fa futuro per diventare passato. Ed è il passato che rimane, solo che non possiamo sapere in che misura accadrà, non a priori. Non possiamo saperlo quando è ancora presente ma non si è ancora fatto futuro. Decidono il tempo e la distanza, il caso e le circostanze. Noi, come Pierre e Madame, per il momento possiamo solo scrivere, e come Pierre possiamo cercare di fare un buon uso della distanza e delle opportunità. Lui forse ci è riuscito, forse no, sicuramente non del tutto, e la sua sorte in quanto personaggio racconta questo tentativo. Il tentativo di dare valore alle macerie del futuro e non alle ossessioni, alle critiche e ai giochi di potere del presente, per quanto siano indispensabili anche loro. Forse purtroppo.



Vito di Battista è nato nel 1986 in un paese d’Abruzzo a trecento gradini sul mare e vive a Bologna. Nel 2012 è stato selezionato per il Cantiere di Scritture Giovani del Festivaletteratura di Mantova. Agente letterario, editor e traduttore, ha scritto su “Futura”, la newsletter del “Corriere della Sera”, e su “Nuovi Argomenti”. Il suo primo romanzo, uscito nel 2018, è L’ultima diva dice addio. 


domenica 6 ottobre 2024

"Via del popolo" Il cronometro di zio Nicola di Saverio La Ruina



Lamezia Terme, 5 ottobre 2024, Teatro Comunale Grandinetti, nell'ambito della rassegna "Calabria Teatro" con la direzione artistica di Nico Morelli e Diego Ruiz stasera Saverio La Ruina vincitore di 5 Premi UBU, l'ultimo, nel 2023, per il "Miglior nuovo testo italiano" proprio con "Via del Popolo"

Saverio La Ruina ci ha raccontato l'infanzia e l'adolescenza, ci ha raccontato Castrovillari e Via del popolo negli anni settanta, ci ha raccontato suo padre e suo madre, il bar e il futuro, la storia di tutti, la guerra, l'emigrazione, il '68, le canzoni.

Cosa ne faremo noi degli anni, ci chiediamo guidando verso casa con in testa il cronometro di zio Nicola in dono a Saverio che stasera sul palco del Teatro Grandinetti ha bloccato e poi sbloccato ogni qual volta voleva giocare la partita, le tante partite con cui si affronta la vita. Noi e il tempo, il tempo è il nostro mutamento individuale mentre intorno a noi muta il nostro quartiere, la città, le ideologie, la musica, il cinema.

Il tempo è il mutamento, partono gli zii per Rio de Janeiro, ne restano solo due o tre a Castrovillari, la città dove si erano spostati i sette fratelli La Ruina dai monti verso la pianura. Siamo negli anni settanta Saverio ha tredici anni e mentre il padre avvia il bar e compra casa e mentre il mondo sembra un’avventura, non sarà un’avventura ma una cosa tremendamente seria, il mutamento sembra essere una effervescenza.

Ripercorriamo con Saverio La Ruina dai suoi quattro anni ad oggi, nella quasi vicinanza d’età, i momenti salienti del nostro vissuto, il Living Teathre, la musica i Procol Harum A Whiter Shade of Pale, i Creedence Clearwater Revival, e nel buio sento sussurrare ancora quel tempo che vive nei gesti di Saverio.

Gli anni settanta scompaiono con la morte di Aldo Moro, con il sacrificio di Aldo Moro, agnello sacrificale offerto agli dei per consentire un regime sempre più disonesto. Una sconfitta irrimediabile. Morì un po’ tutto con Aldo Moro. Morì la fiducia nel sentirci decisivi.

E nel mentre Saverio cresce, dà il primo bacio e i genitori imbiancano e il padre una sera non torna più a casa. La mamma chiama Saverio preoccupata, il papà di Saverio ha 84 anni. Lo cercano, lo cercano ripercorrendo Via del Popolo, la via che poi finisce su via Roma, la via dove sta il Bar Rio, il bar dei ciuati, così era soprannominato il bar del papà di Saverio.

Ripercorriamo ogni attività commerciale su via del popolo, quando la via pulsava di vita, ed ora tutto viene relegato agli orridi centri commerciali, luoghi di non sense, ripercorriamo con in mano il cronometro di Saverio e partecipiamo alla sua ricerca, alla ricerca del padre, alla angoscia della madre.

Ma ritorneremo presto alla prima scena e dove stava Saverio nella prima scena? Stava nel cimitero a far visita ai morti, davanti alla lapide di chi non gli permetteva di poter assaggiare una pastarella, e quelle pastarelle negate restano nel languore della felicità assaggiata poi nelle tante paste offerte nel bar del Rio, continua in un dialogo con il suo papà, un dialogo che ancora un ultima domanda ci sta. Finisce Saverio il tempo della recita, nel mentre gli applausi, nel mentre la commozione, nel mentre e nel mutamento di un tempo che è già passato.


Ma cosa ne faremo noi di questi anni, aspettando Saverio per abbracciarlo come negli anni passati, abbracciando il passato, il presente e il mutamento, abbracciando il teatro amato amatissimo, il teatro vero

Ippolita Luzzo