mercoledì 4 settembre 2024

Il carcere chiamato matrimonio




Il carcere e la cuccia, pezzo del 2011

Quelle unioni chiamate matrimonio

La bugia come finzione in due

La vedo palpabile sul viso di una lei, che ingurgitando corna su corna manifeste, coram populo, diventa malvagità e malizia nei confronti di altra donna, solitaria e sorridente.

Ucciderebbe l’altra, la sporcherebbe, per il solo motivo che l’altra le ricorda quello che lei non saprebbe mai essere. Libera.

Carcere e cuccia i matrimoni di molti, per esseri infelici e teatranti, un tirare a campare con obblighi e appuntamenti.  I vostri raduni ai matrimoni altrui, della zia, della cugina, del vostro mondo mondano. I battesimi e le comunioni, le feste di laurea, i compleanni, poi la sfilata forse ci sta. 

Al braccio portate un vostro ninnolo, marito o moglie, per l’occasione, lui intanto sacramenta oppure occhieggia, l’altra vorrebbe essere lontana da lì.

Chissà perché poi si chiami tutto questo-Stare insieme- 

Vite tagliate- scrive Maria Gabriella De Santis, vite bugiarde, che tradiscono certo perché è umano tradire, nessuno può stare per sempre immobile  su un sentimento che è movimento, su un desiderio che padroni non ha.

Vite tagliate con un coltello che mozzi la testa e il pensiero, che scolleghi per sempre il vero dal falso, che uccida quella fiducia che in noi sta.

Carcere e cuccia diventa una casa, dovere e peso sono i figli, da coccolare e da torturare, per fare scontare proprio ai più piccoli di esser la causa della prigionia.

Vite tagliate vissute osservando con  vera malvagità chi si ritaglia in solitudine un vero momento di libertà. Quella verità che il tradimento mai vi darà.

Ippolita luzzo

Pezzi dal passato 


 

sabato 31 agosto 2024

La beffa dei funerali

 


Ai funerali di mia madre tutta la Chiesa del Convento di Sant'Sant'Antonio era affollata di gente accorsa per essere presente alle esequie. Parenti delle più lontane contrade, vicini di casa e lontani vicini di casa, conoscenti e amici nuovi o non più nuovi, storici, insomma moltissime persone beneducate vennero, ci salutarono sulla porta della chiesa prima e dopo la funzione e poi sparirono. 

Mai visti durante tutti gli anni in cui mia madre non poteva uscire più, mai visti nonostante mamma ne desiderasse la presenza, mai visti dopo, quando il vuoto dell'assenza di mia madre avrebbe in un certo qual modo suggerito loro un minimo di afflato umano. 

Mi chiedo spesso il perché siano venuti al funerale, mi chiedo spesso a cosa serva questa recita a soggetto, un rito privo di ogni fratellanza, uno stringere le mani e dirsi condoglianze

Condoglianze di che? con chi si sono condogliati costoro e per quanto tempo, per il tempo che durò la messa. 

Sono sempre più lontana da queste pantomime che mi sembrano anche offensive, residui ormai di tempi trascorsi quando il lutto si protraeva in qualche chiacchierata in casa del defunto, quando ancora esistevano le visite ai parenti. 

Nella dissoluzione di ogni arcaico simbolo del passato anche il funerale divenne una beffa, e recentemente un funerale di un giovane uomo fu celebrato con palloncini lanciati in cielo, con una coreografia ormai simile in battesimi matrimoni e compleanni. 

Sono rimasti i palloncini bianchi blu a librarsi in cielo, in volo su e più su, un palloncino e via, poi questi scoppieranno e ricadranno giù come una pezza slabbrata, sporcando inevitabilmente il tutto 

Ippolita Luzzo     

venerdì 23 agosto 2024

Quel lunghissimo gambo di rosa di Franco Costabile


Oggi entriamo ufficialmente sotto il segno della Vergine, il segno zodiacale mio e di Franco Costabile, essendo lui nato il 27 agosto del 1924 ed io il 13 settembre del '54.
Ricorre questo anno il centenario della nascita di un poeta morto a Roma per suo volere il 14 aprile del 1965, ricorre il centenario e pertanto nella sua città di nascita si è costituito un comitato affinché si organizzino eventi in suo ricordo.

La casa editrice Rubbettino ha pubblicato questo anno il volume La rosa nel bicchiere, tutte le poesie di Franco Costabile con prefazione di Aldo Nove e poesie disperse e nota biografica a cura di Giovanni Mazzei

Dice Aldo Nove nella sua prefazione «…la perdita di un mondo che progressivamente Costabile ci racconta ha certo la Calabria come punto di vista, come indissolubile legame natale, ma che si sposta lungo l’asse di un intero continente ed oltre, fino a raccogliere nel proprio respiro preciso e affannoso l’intero mondo e i suoi prometeici errori di prospettiva»

 Durante questo anno molti studiosi o anche semplici lettori si sono applicati con esiti più o meno accettabili a produrre opere che fossero attestati di stima nei riguardi del poeta e alcuni con esiti esilaranti altri con esiti quasi offensivi verso il poeta stesso, rimpicciolito e ricondotto a poeta locale, quando lui dal suo paese ne conservava solo l'eco dell'ingiustizia, della povertà, delle offese. 

Aveva il poeta altri grandi amici poeti che lo stimavano, da Felice Mastroianni a Pina Majone Mauro, ed io ho avuto il piacere di sentire sia da Pina che da Serenella Mastroianni, nipote di Felice, testimonianze dirette sulla vita di un poeta che abitava a Roma, insegnava a Roma, aveva le sue amicizie a Roma e scriveva su importanti riviste letterarie romane e nazionali. 

Ritrovo dal 2015 ma risale ancora prima un mio appunto su una conversazione con Serenella Mastroianni. Lei mi raccontava che Costabile rideva spesso quando insieme allo zio passeggiavano. Era una risata sopra le righe, a volta sciocca, una risata di commento, a volte stridula. "Come la tua" aggiungeva la mia amica Serenella. Ed io capivo perfettamente cosa lei volesse dire, cosa Costabile volesse esprimere con questa risata nella quale è racchiuso tutto lo sconcerto di alcune situazioni, di alcuni rapporti, di un vivere che acchiapparlo non puoi perché fugge da tutte le parti, di esseri umani pavidi e aggressivi che alzano la voce per imporre scemenze abissali contro i quali, contro le quali, solo ridere noi possiamo. 

Oggi lui, proprio per questa comunanza di amorosi sensi, come direbbe Foscolo, e forte di questa comunanza di risata, mi consegna una rosa dal gambo lungo, lunghissimo, pieno di spine, un gambo con cui fustigare tutti coloro che in occasione del centenario vorrebbero ridurre il poeta ad un pupazzo, ad un raccoglitore di rose e garofani, ad un poeta ad uso e consumo locale di vino, di pasta, di affettati e mettiamo pure qualche rutto via. 

Lui mi consegna il gambo e mi dice di essere decisa e di continuare a fustigare fino al silenzio fino al modo di essere lui libero da ogni ricordo https://fb.watch/u86IknfWrP/

Ippolita Luzzo


Quadro di Amedeo de Benedictis nel Regno della Litweb   

 

martedì 13 agosto 2024

Aveva le mani d'oro L'omaggio a Peppino Leo


 Sono qui con accanto un gioiello, un omaggio in oro purissimo, già la copertina è realizzata a mano con un allestimento bodoniano, un metodo di rilegatura antico e la carta crespa riveste il dorso. Infatti  oro è la carta Fedrigoni Sirio Perla Aurum 300gr che conferisce al tutto un effetto dorato e luminoso, proprio dell’oggetto prezioso. 

É un libro donatomi da Emilio Leo, dopo una serata ospiti del Lanificio Leo a parlare di un altro libro altrettanto unico e inusuale: Della morte non puoi parlarne, o della gioia di Alessandro Chidichimo.

 Aveva le mani d’oro, il libro nasce dall'amicizia fra Emilio Leo e Prashanth Cattaneo che ne ha curato la pubblicazione, con interviste, storia e le biografie dei protagonisti, edita da Rubbettino editore e stampata in Rubbettino print, nel 2022, nel centenario della nascita di Peppino Leo. Un libro 10,5×14,8, un formato che si tiene in una mano come un piccolo oggetto prezioso, un gioiello.

 Aveva le mani d'oro nasce come progetto di arte e design dall’incontro tra l’artista Pino Deodato e la storia di Giuseppe Leo detto Peppino, nato nel 1922, imprenditore che ha dedicato la sua vita al lanificio di famiglia 

Pino Deodato ha dipinto un’opera che raffigura Giuseppe Leo nella gestualità rituale del filare e del tessere che ha ricordato fino agli ultimi giorni della sua vita quasi centenaria. 

L’opera è stata poi riprodotta dal figlio di Peppino, Emilio Salvatore Leo – attuale proprietario e direttore creativo del Lanificio Leo – su un copricuscino per l’area living della casa usando una tecnica di maglieria jacquard. La Galleria Melesi di Lecco ne ha creato un’esposizione

Ma ritorniamo al libro, all'interno  in carta smooth, tutto sembra carezzevole e già si vuol bene a ciò che leggeremo, a ciò che vedremo, fotografie delle opere create da Pino Deodato, fotografie di Peppino Leo accanto ai suoi telai, le mani di Peppino ed Emilio fra innovazione e conservazione. 

La storia del Lanificio Leo, fondata nel 1873 a Carlopoli da Antonio Leo e nel 1935 trasferita a Soveria Mannelli da Emilio Leo, il nonno dell'attuale proprietario. Il luogo è diventato un museo dinamico, e nel 1997 fino al 2007 ha ospitato Dinamismi Museali. Festival di Pensiero Contemporaneo. Il festival  è giunto alla finale del Premio Guggengheim ed ha vinto il premio Cultura di Gestione di Federculture.

 Nel 2008 Emilio Leo e i suoi collaboratori riattivano con macchinari di nuova generazione il parco macchine storico rinnovando la tradizione dell'azienda con il design.

Nel libro vi è l'intervista ad Emilio Leo, che vi invito a cercare, a leggere e che si conclude con l'augurio per tutti di "costruire delle cose" essere felici di ciò che si può fare. Un po'  il concetto di Epitteto, lo stoico citato durante il nostro incontro, su ciò che possiamo con la nostra volontà e su ciò che non riguarda la nostra volontà. 

Vorrei anch'io finire questo mio pezzo riassuntivo con il pensiero di Ettore Sottsass, riportato da Prashanth Cattaneo nell'introduzione, che coincide con il modo di pensare di Peppino Leo, la vita coincide con il mestiere che si svolge, unito alle persone che si amano e all'essere contenti. 

"Io sono rimasto con questa idea: l'idea che si può identificare l'esistenza passando il tempo a immaginare un ambiente artificiale, immaginarlo con tutto quello che può aiutare me e gli altri a vivere, a ritrovarsi, a disegnarsi, a mostrarsi al mondo e poi, più o meno, per quanto si può, a essere contenti"

E dal regno immaginario della Litweb, un'astrazione mentale che ha reso possibile creazione e incontri, non si può che essere d'accordo con Peppino, con Emilio, con Ettore Sottsass e con Epitteto.

Ippolita Luzzo 

 


 


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sabato 3 agosto 2024

Non muoio neanche se mi ammazzano di Letizia Cuzzola

 


Letizia Cuzzola in “Non muoio neanche se mi ammazzano” riprende il titolo della biografia di Giovannino Guareschi  e ricostruisce la storia del nonno Vittorio e di 650 mila uomini prigionieri nei campi di concentramento in Germania. Il libro nato da una documentata ricerca, restituisce un pezzo di storia italiana rimossa: quella degli IMI (Militari Italiani Internati) che dopo la firma dell'Armistizio furono fatti prigionieri dai nazisti e internati nei campi di prigionia. Uno di questi soldati era Vittorio Cuppari, nonno di Letizia

 Nelle diverse interviste rilasciate  Letizia racconta: “Stavo scrivendo un altro libro e per caso ho ritrovato l’Arbeitsbucher di mio nonno, Vittorio Cuppari. In famiglia sapevamo che era stato prigioniero durante la Seconda guerra mondiale ma ne ignoravamo i dettagli. Ho iniziato ad approfondire più per curiosità che per altro. Poi ho trovato il libretto di lavoro del nonno in Germania e episodi mai   menzionati dalla Storia ufficiale mi hanno portato a chiedere informazioni in decine di Archivi di Stato, a partire da quello di Reggio Calabria a finire al Museo dell’Olocausto di Los Angeles, passando per il Bundesarchiv di Berlino e le Nazioni Unite a New York. Man mano documento dopo documento si raccontava una storia diversa da quella studiata a scuola. C’erano 650mila uomini che, quando Badoglio annunciò l’Armistizio, erano schierati sui confini esteri e vennero catturati dai Nazisti restando prigionieri per due anni nei campi di concentramento in Germania, ma che sfuggivano agli elenchi ufficiali per un accordo fra Hitler e Mussolini, e mio nonno era uno di questi. Con quell’accordo erano stati classificati non come prigionieri di guerra – quindi “tutelati” dalla Convenzione di Ginevra del 1929 –, ma come Internati Militari Italiani. Erano sospesi in questa condizione e spesso venivano chiamati a rispondere all’offerta di passare fra le fila dell’esercito tedesco o della Repubblica di Salò, ma per due anni risposero un no netto, senza ripensamenti, pur sapendo che avrebbe significato restare in campo di concentramento con tutte le conseguenze del caso. Subirono l’isolamento, le torture, i lavori forzati pur di restare fedeli alla divisa che indossavano». 

A Letizia il nonno le ha suggerito cosa e come scrivere, dove trovare i documenti, dove le testimonianze, così com’è successo a Raffaele Mangano col suo amico Leone nel libro La riga sulla emme, così come è successo ad Emanuele Trevi con Due vite, la vita di Rocco Carbone, di Pia Peri. Succede qualche volta che la scrittura diventi quello strumento per aprire la porta fra i viventi e chi non c’è più. La scrittura come opportunità per continuare a vivere qui, conoscendo la vicenda umana universale del nonno di Letizia Cuzzola.     

 Anche lo scrittore Guareschi fu uno di questi soldati italiani e lui poi raccontò che era stato fatto prigioniero dai tedeschi dopo l'otto settembre e marciava incolonnato, affamato e straccione in un' oscura landa polacca. Ai bordi della strada c'era una mamma con un bambino piccolo che stava mangiando una mela. Incoraggiato dalla madre il bimbo si diresse verso questi poveracci ed offrì la mela proprio a Guareschi che prendendola in mano vide i segni dei dentini sul frutto e gli venne in mente suo figlio, anche lui piccolissimo e, scacciando i pensieri di morte che attanagliavano ognuno di questi disgraziati, disse "non muoio neanche se mi ammazzano". 

Questa è la paternità.

Accurata ricostruzione storica, come se il nonno vivo accanto a lei le raccontasse, e anche l'autrice conferma di aver avuto la sensazione di essere un tramite. 

Un libro da amare

Ippolita Luzzo 



venerdì 2 agosto 2024

Nella libertà di lettura

 




Biografia 2024 Nella libertà di lettura.

Ippolita Luzzo, laureata in filosofia con tesi su Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà. 

Da giugno 2012 scrive sul blog “Il Regno della Litweb di Ippolita Luzzo” quasi un giornale di cui lei è editorialista, direttrice e cronista. Col suo blog indaga e legge ogni momento letterario ed artistico per lei autentico interpretando in modo originale il senso del testo.
Ha vinto il premio Parole Erranti il 5 agosto 2013 a Cropani, nell’ambito dei Poeti a duello, X Festivaletteratura della Calabria.

Nel 2016 ha vinto il concorso “Blog e Circoli letterari” indetto da Radio Libri nell’ambito di Più Libri più liberi al Palazzo dei Congressi a Roma.
Nel  2017  e 2018 fa parte della giuria del Premio Brancati.
Il 6 ottobre 2018 vince il Premio Comisso #15righe, dedicato alle migliori recensioni dei libri finalisti.
Sempre ad ottobre 2018 il suo blog è stato inserito dal sito Correzione di Bozze fra i Lit-blog e le riviste online nazionali che si occupano di letteratura.
Fa parte, fin dal primo momento, della giuria scelta per la Classifica di Qualità dalla rivista L’Indiscreto.
Dal 2019 fino al 2023  Il Regno della Litweb collabora con Il Premio Comisso 15 Righe nella giuria di valutazione delle recensioni sui libri in concorso.

Nel 2021 è Presidente di giuria del concorso Sperimentare il Sud 

Dal  2022 è in giuria nel Premio Malerba

Collabora come giurata al Premio Muricello e al Premio Nautilus

 Nel 2023 riceve il premio alla cultura per la divulgazione letteraria nella  prima edizione del premio nazionale di poesia “Calabria – Veneto” a Civita CS



Ha pubblicato con la Casa Editrice Città del Sole Pezzi dal regno della Litweb nel 2018, la Dareide nel 2020, Il primo pezzo non si scorda mai nel 2022
Scrive su giornali e riviste on line e cartacei.
Molti suoi pezzi stanno nelle cartellette degli autori che, fidandosi, le mandano i loro scritti.
Nella libertà di lettura.

Ippolita Luzzo 

sabato 20 luglio 2024

La storia dei Ferrise e della gassosa al caffè

18 marzo 2011


La storia dei Ferrise e della loro fabbrica

Una saga, un romanzo che risale alla fine del 1800.

Una famiglia numerosa, due maschi  Bruno e Vincenzo, tre femmine.

Bruno nato nel 1870 e Giovanna Provenzano nata nel 1893 si sposano nel 1912.

Vincenzo, il fratello piccolo è andato a lavorare fuori, a Portici, vicino Napoli e da lì era ritornato a  Nicastro.

Vincenzo porta con sé una nuova bevanda al caffè, gassata, contenuta in una bottiglia con la pallina. Con questa nuova idea mette su nel 1904 una piccola fabbrica nel Largo Angotti. Lavoravano tutti lì, la fabbrica è a conduzione familiare, Bruno Ferrise e Giovanni Torchia, marito di una sorella di Bruno, ed il piccolo Pietro De Sarro, figlio di un’altra sorella il cui marito era emigrato in America.

Bruno Ferrise morirà giovane nel 1919, per un tumore in bocca, dopo essere stato più volte operato a Napoli dal chirurgo Dattilo, di origini lamettine e parente quindi del nostro Don Vittorio Dattilo.

Bruno lascia la moglie Giovanna di appena venticinque anni con due figli piccoli e uno ancora in grembo. Bruno o Ninnuzzo, come familiarmente verrà chiamato poi, nascerà quaranta giorni dopo la morte del papà .Le famiglie vivevano allora tutti insieme. Tutti sotto lo stesso tetto. Tutti in pochi spazi. Sembrerebbe assurdo oggi che case ampie e comode non bastano a pochi e scontrosi abitanti.

Nel 1936 la fabbrica si trasferisce nei magazzini comprati da Vincenzo Ferrise dal barone Stocco, siti nell’omonima piazza Stocco ora Via San Giovanni. 

Avevano un casale a tre piani con un giardino sul fiume .La casa risuonava nella sua infanzia del suono del pianoforte comprato dal papà a Napoli per far studiare musica ai ragazzi. Un papà che amava leggere e ascoltare musica.

Vincenzo, rimasto vedovo nel 1927 di Consolatina Fedele ed avendo perso anche il figlio morto appena nato, abitava con una signora che badava alla casa. Da lei ebbe tre figli che poi ebbero tutti il suo cognome 

 Nel 1942 sposa la vedova del fratello la signora Giovanna Provenzano. Una donna energica, una donna capace di affrontare e risolvere le tante traversie della vita inventandosi di volta in volta un lavoro per tenere con dignità e coraggio la sua famiglia. Il telaio le aveva permesso prima di essere autonoma ora lavorerà nei locali della fabbrica Ferrise e gestirà una trattoria adiacente e di loro proprietà. Sempre  lei sarà vista come il punto di riferimento per parenti e nipoti. 

Eredi della fabbrica alla morte di Vincenzo resteranno i tre fratelli: Vincenzo, Domenico e Ninnuzzo, figli di Bruno insieme con Domenico, Mimì, figlio dello zio Vincenzo, che rimane proprietario degli immobili.

Nel 1962-3, poiché Mimì si dissocia e disdice il contratto di fitto ai cugini, la fabbrica si sposta in via San Giovanni, dove ora vi è un negozio di mobili.

Chiamato mastro Giuseppe Dattilo i locali verranno restaurati e all’inaugurazione ci sarà la benedizione per mano del vescovo Moietta, il vescovo che nella sua brevissima ma intensa permanenza a Nicastro ha suscitato col suo amore e con la sua parola entusiasmo e calore nella popolazione.

Era l’aprile del '61, e lui  giovane e fiducioso, veniva accolto nella nostra città in festa. 

Sembra vederla la folla in piazza Bovio, in via San Giovanni, i macchinari lucidi, il nastro trasportatore dove le bottiglie capovolte venivano fissate su dei perni e poi in fila venivano lavate, la spuma, la nuova bevanda che Vincenzo, ora di 94 anni e sempre in gamba, preparava.

Quando Vincenzo, ora è lui che racconta, preparava insieme al fratello Bruno, lo zucchero caramellato che dava sapore, colore e schiuma alla gazzosa, e litri e litri di caffè alla napoletana per la gazzosa al caffè, via San Giovanni, Largo Angotti, Via Indipendenza, profumavano di caffè.

Accanto  vi era il bar dei Ferrise, gestito da Domenico, ed ora dal fratello Battista, tuttora il punto di ritrovo imprescindibile per tanti, per molti altri durante la tredicina di Sant’Antonio. La piazza antistante pulsava di vita energizzata dall’aroma del caffè. Si racconta che l’aroma era così forte da creare in una signora che abitava di fronte vere tachicardie, eccitazioni del cuore troppo forti, una patologia causata da un profumo inebriante. Quasi un luogo arabo.

Poi la tredicina, terminava con la processione di Sant’Antonio, il Santo, allora ed ora, si fermava in via San Giovanni, entrava nella fabbrica che non c’è più e lì veniva incoronato, i portantini venivano dissetati per primi e poi bevande per tutti, lo spumone usciva a fiotti dai sifoni per la banda, i fedeli, le autorità. Una festa di popolo.

Nel 1977 la fabbrica Ferrise chiuse e consegnò i suoi  macchinari antichi, un salmatore a colonna, un tiraggio riempimento sifone, un tiraggio riempimento meccanico, al museo delle arti, che allora era in piazza Bovio, una volta piazza Mercato, la piazza delle terrecotte.

Ora i nostri ragazzi ritornano spesso in questa piazza e si riuniscono, ascoltano musica, chiacchierano e di nuovo nell’aria vibrazioni  di vita cittadina.

Intanto la storia della gazzosa continuava con un'altra ditta, La De Sarro&Torchia che ormai non c'è più

Ippolita Luzzo