Un giornalista di frontiera così Gian Lorenzo Franzì presenta agli alunni e alla Dirigente nella sala convegni dell'Istituto Tecnico Valentino De Fazio di Lamezia Terme Paride Leporace. Un giornalista di grande sensibilità difficilmente in uno schema, in un ruolo.
Un anarchico in senso positivo, un amante della libertà, Paride Leporace che inizia e termina il suo intervento con l'esortazione "Ricordare è resistere"
Suo compito fu allora nel 2008 indagare sulla memoria dei giudici uccisi e di cui si era perso il ricordo, in una Italia che, stante ai numeri, non era un paese normale, anzi sembrava quasi un paese sudamericano. Numeri di guerra civile attraversarono gli anni di cui si occupa nel libro Paride Leporace, numeri da brividi.
Indagare la memoria dunque per essere saggi, per capire gli sbagli, per imparare e conoscere. Riflessione necessaria, puntualizzò la Dirigente, in una scuola poliedrica che deve inseguire le potenzialità degli alunni.
Nel mio pezzo e nel parlare di Paride trovo quella consonanza di significati che vanno dal messaggio, fatto proprio lunedì sera a Paride, del figlio del giudice scomparso Paolo Adinolfi al mio inconsapevole cucire il filo del discorso proprio sulla figura di un giudice scomparso per sempre ad un uomo che ora testimonia quel sacrificio.
Nei venti anni della nascita di Città del Sole, la casa editrice che lo ha ristampato, ci piace pensare che un libro vive perché ha un senso e che questo libro sarà portato sulle scene di tanti teatri italiani per resistere ricordando.
Da Città del Sole Edizione "Pubblicato per la prima volta nel 20 dalla Newton Compton, il libro esce in una nuova edizione rivista e ampliata alla luce delle nuove risultanze investigative con la casa editrice Città del Sole. Tra il 1969 e il 1994 sono stati ventisette, di cui uno scomparso, gli uomini di giustizia che hanno perso la vita perché hanno scelto di fare bene il loro dovere"
Nel maggio del 2011, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano decideva per la Quarta giornata della memoria fissata nel giorno della morte di Aldo Moro, di omaggiare tutti i magistrati con un opuscolo "Nel loro segno" contenente ampi passi di questo libro.
Un libro che dovrebbe essere studiato come testo scolastico e che oggi vorrei presentare unendo il primo ed ultimo episodio.
Voglio ricordare uno stesso episodio che fa da collante al libro.
Nel pomeriggio di settembre del 1970 il giornalista Mauro De Mauro va a parlare col procuratore Scaglione per dare delle rivelazioni importanti. Tornato al giornale "L'Ora" di Palermo, il giornalista disse al collega di sentirsi sollevato. Sparirà dopo pochi giorni. Il 5 maggio del 71 verrà ucciso il procuratore Scaglione portando con sé il segreto di cosa De Mauro gli abbia raccontato.
Inizia e termina nello stesso modo il libro.
Paolo Adinolfi magistrato chiamato a gestire un fallimento a Roma, rivela anche lui di essere in possesso di documenti che avrebbero fatto crollare il Tribunale di Roma e presenta denuncia di irregolarità alla Procura Della Repubblica.
Sparirà e quel che ci resta di questa lettura civile e sofferta è quello straniamento che prende nel vedere di quante nebbie sono avvolte i Palazzi della Giustizia e di quanto lavoro abbiano fatto alcuni giudici per diradarle ed altri giudici per crearle.
Giudici che indagano e condannano e giudici che assolvono e tolgono condanne, (famoso il giudice Carnevale, della suprema Corte di Cassazione), rendendo vano il lavoro precedente.
Una tela di Penelope in cui persero la vita coloro che, trovandosi nella situazione di decidere, non volsero la testa, ma applicarono le leggi. Non sono eroi i giudici morti, sono vittime, prima che della violenza, dell'isolamento in cui dovranno lavorare.
C'è un altro grande tema che attraversa tutto il libro ed è quello della fiducia, fiducia che permette lo svelamento della verità, fiducia riposta da alcuni giudici nelle istituzioni, fiducia riposta da alcuni cittadini nei giudici, fiducia che Rita Atria riponeva in Borsellino e vede saltare in aria quel giorno di luglio de 1992 e anche lei si suicida oppure la suicidano buttandola da un balcone. Ed anche Borsellino gli ultimi giorni della sua vita dirà" Qualcuno mi ha tradito"
Storie di sangue e di veleni, storie che ci consegnano una Italia sempre più triste e senza fiducia, eppure nonostante questa grande tristezza il sangue di questi giudici sembra chiedere sempre quella verità che ci renderà liberi, in uno Stato che abbia a cuore la moralità e la politica strumento di utilità sociale.
Una conoscenza importante quindi di come siano esistiti tra noi uomini di cui essere fieri, che non ebbero una vita facile all'interno del loro stesso luogo lavorativo, che furono anche osteggiati e che però continuarono a perseguire i loro obiettivi anche ben consci dei pericoli che correvano.
"Tieni un diario", consigliava Rocco Chinnici a Falcone e teneva una agenda scomparsa il giudice Borsellino ed ognuno di noi dovrebbe tenere un diario dove annotare ciò che potrà essere importante come difesa. Nella grande confusione che sono i confini non netti fra illegalità e legalità, fra collusione di politica, voti e mafia, guardiamo a questi esempi di giudici in silenzio quasi religioso onorando una memoria che ci appartiene.
Ippolita Luzzo
Paride Leporace Presidente della Lucana Film Commission. Ha fondato «il Quotidiano della Calabria» e «Calabria Ora». Ha dedicato numerosi reportage a eclatanti casi di cronaca nera italiana.
domenica 5 febbraio 2017
venerdì 3 febbraio 2017
Francesco Polopoli in Conversazione gioachimita: il pensiero nell'attualità.
Siamo alla fine della conferenza all'Uniter di Lamezia Terme ed aprendo il medaglione con simbolo gioachimita che Francesco ha appeso al collo leggiamo: Nos esse quasi nani super humeros gigantum insidentes noi siamo come nani sulle spalle di giganti, possiamo vedere più cose di loro e più lontane perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti.
Francesco Polopoli, docente di latino e greco presso il liceo classico di San Giovanni in Fiore è uno studioso di Gioacchino da Fiore, membro del “Centro internazionale di studi gioachimiti”
Gioacchino da Fiore, abate, teologo, nato a Celico, 1130 circa e morto a Pietrafitta, 30 marzo 1202, figura profetica e attuale del quale Francesco stasera ci ha proposto alcuni documentari sulla vita insieme ad una sua personale rilettura delle tavole miniate del Liber figurarum.
Senza appunti scrivo di ciò che mi è rimasto di una lezione elettrica fatta da un professore in t-shirt che inizia col raccontarci una sua esperienza a Bergamo, dove era stato incaricato dalla Provincia di studiare le forme dialettali con derivazioni dal latino.
Significato, significante, segni, ogni parola è una storia, così come la goccia che in bergamasco vuol dire niente.
Nella piacevolezza del suo essere docente ringrazia un alunno che ha tradotto in inglese il suo lavoro presentato di recente all'Università Cattolica di Milano. Studenti: fiori che daranno frutto, ci dice lui.
Legge un pensiero del Cardinale Ruini sul Logos che appartiene a Gioacchino da Fiore, logos che si compenetra nella Charitas, così come la Charitas di San Francesco si compenetra nel logos. Compenetrazione di intelletto e cuore.
Dai cistercensi ai Florensi la via umanistica di Gioacchino da Fiore. da qui a novecento anni fa.
Un intellettuale, un profeta, Gioacchino da Fiore, conosciuto da Leonzio Pilato e studiato da Dante, da Petrarca, come colui che vide prima.
Un grande umanista, lo definisce stasera Francesco Polopoli, un uomo che ricercava nella lingua, nell'origine delle parole, il senso, un uomo che univa l'antico col nuovo che fiorisce. Iure Vetere. L'antico col nuovo, perché nulla si può conoscere di nuovo se prima non si conosce la rete intricata delle parole con i simboli , le derivazioni di molti linguaggi. In questa affascinante ricerca io stessa mi esalto perché l'etimologia è veramente la più bella delle avventure e spalanca la comprensione di ogni gesto umano. Spiega infatti via via Francesco il significato di misericordia, di religione, di cerebrum, cervello, fatto di cera, malleabile eppure che giudica, ma ogni parola è fantastica e la lingua è una rete, che permise a Gioacchino, conoscitore di più lingue di avviare quel nuovo umanesimo proiettato nel futuro.
Un clochard del suo tempo, Gioacchino viene definito stasera e amen fedeltà alla sovranità di Dio, partendo dalla lingua semitica da destra verso sinistra e poi da sinistra verso destra, leggendo segno per segno, come sapeva leggere Gioacchino.
Leggendo capiamo e guardiamo le tavole disegnate da Gioacchino da Fiore, le tre età, l'età del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo con il pensiero rivolto a quei monti della Sila, alla confluenza di fiumi, al possibile incontro già vagheggiato fra popolo ebraico e popolo cristiano, a Francesco che raccoglie e conserva studi su studi per ridonarceli nella splendida nuova alba del secondo millennio. Finiamo nei cerchi di Gioacchino, ognuno col suo colore, verde azzurro e rosso e in tutti i colori che Gaudì ci regala sulla t-shirt di Francesco nel grande medaglione della conoscenza.
Ippolita Luzzo
Francesco Polopoli, docente di latino e greco presso il liceo classico di San Giovanni in Fiore è uno studioso di Gioacchino da Fiore, membro del “Centro internazionale di studi gioachimiti”
Gioacchino da Fiore, abate, teologo, nato a Celico, 1130 circa e morto a Pietrafitta, 30 marzo 1202, figura profetica e attuale del quale Francesco stasera ci ha proposto alcuni documentari sulla vita insieme ad una sua personale rilettura delle tavole miniate del Liber figurarum.
Senza appunti scrivo di ciò che mi è rimasto di una lezione elettrica fatta da un professore in t-shirt che inizia col raccontarci una sua esperienza a Bergamo, dove era stato incaricato dalla Provincia di studiare le forme dialettali con derivazioni dal latino.
Significato, significante, segni, ogni parola è una storia, così come la goccia che in bergamasco vuol dire niente.
Nella piacevolezza del suo essere docente ringrazia un alunno che ha tradotto in inglese il suo lavoro presentato di recente all'Università Cattolica di Milano. Studenti: fiori che daranno frutto, ci dice lui.
Legge un pensiero del Cardinale Ruini sul Logos che appartiene a Gioacchino da Fiore, logos che si compenetra nella Charitas, così come la Charitas di San Francesco si compenetra nel logos. Compenetrazione di intelletto e cuore.
Dai cistercensi ai Florensi la via umanistica di Gioacchino da Fiore. da qui a novecento anni fa.
Un intellettuale, un profeta, Gioacchino da Fiore, conosciuto da Leonzio Pilato e studiato da Dante, da Petrarca, come colui che vide prima.
Un grande umanista, lo definisce stasera Francesco Polopoli, un uomo che ricercava nella lingua, nell'origine delle parole, il senso, un uomo che univa l'antico col nuovo che fiorisce. Iure Vetere. L'antico col nuovo, perché nulla si può conoscere di nuovo se prima non si conosce la rete intricata delle parole con i simboli , le derivazioni di molti linguaggi. In questa affascinante ricerca io stessa mi esalto perché l'etimologia è veramente la più bella delle avventure e spalanca la comprensione di ogni gesto umano. Spiega infatti via via Francesco il significato di misericordia, di religione, di cerebrum, cervello, fatto di cera, malleabile eppure che giudica, ma ogni parola è fantastica e la lingua è una rete, che permise a Gioacchino, conoscitore di più lingue di avviare quel nuovo umanesimo proiettato nel futuro.
Un clochard del suo tempo, Gioacchino viene definito stasera e amen fedeltà alla sovranità di Dio, partendo dalla lingua semitica da destra verso sinistra e poi da sinistra verso destra, leggendo segno per segno, come sapeva leggere Gioacchino.
Leggendo capiamo e guardiamo le tavole disegnate da Gioacchino da Fiore, le tre età, l'età del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo con il pensiero rivolto a quei monti della Sila, alla confluenza di fiumi, al possibile incontro già vagheggiato fra popolo ebraico e popolo cristiano, a Francesco che raccoglie e conserva studi su studi per ridonarceli nella splendida nuova alba del secondo millennio. Finiamo nei cerchi di Gioacchino, ognuno col suo colore, verde azzurro e rosso e in tutti i colori che Gaudì ci regala sulla t-shirt di Francesco nel grande medaglione della conoscenza.
Ippolita Luzzo
giovedì 2 febbraio 2017
Emozione è il Teatro Ragazzi
Emozione è, disse il sindaco di Lamezia Terme stamattina, emozione assistere alle rappresentazioni del teatro ragazzi che da trenta anni si svolgono nella piana con la partecipazione sempre numerosissima degli alunni delle scuole del comprensorio.
Questo anno con la direzione artistica di PierPaolo Bonaccurso la stagione inizierà giorno 8 febbraio per poi fare giorno 3 aprile Pinocchio Testadura con Greta Belometti e la regia di Piero Bonaccurso.
Pinocchio dunque e sono il gatto e la volpe, l'illustrazione di Leo Mattioli, nella locandina, a suggerire che il gatto e la volpe ci accompagneranno nel nostro cammino dall'infanzia all'età adulta.
Pinocchio dunque e sono il gatto e la volpe, l'illustrazione di Leo Mattioli, nella locandina, a suggerire che il gatto e la volpe ci accompagneranno nel nostro cammino dall'infanzia all'età adulta.
Nel presentare la stagione Giovanna Villella ha parlato di compito educativo del teatro, un compito civile che va ben oltre il testo, regole per imparare a saper stare in un teatro fin dalla età più piccola, regole su come stare seduti, su come saper stare in silenzio e stare insieme agli altri.
Regole fondamentali per creare cittadini che abbiano a cuore la loro città e il luogo delle meraviglie chiamato Teatro.
PierPaolo Bonaccurso ha ripreso l'importanza del teatro dal punto di vista del gesto, della postura, da come bisogna camminare, muoversi, per imparare lo spazio e vederlo.
Regole fondamentali per creare cittadini che abbiano a cuore la loro città e il luogo delle meraviglie chiamato Teatro.
PierPaolo Bonaccurso ha ripreso l'importanza del teatro dal punto di vista del gesto, della postura, da come bisogna camminare, muoversi, per imparare lo spazio e vederlo.
Importantissimo momento quello di Piero Bonaccurso che è tornato a sollecitare al Sindaco l'utilizzo di almeno un teatro, che diventi teatro ragazzi, un teatro abitato dalle compagnie, che sia fruibile per laboratori, che possa ospitare le compagnie, immaginando anche luoghi dove le compagnie di fuori possano essere ospitati. Desideri possibili se si riesce ad attingere ai fondi per il teatro.
domenica 29 gennaio 2017
ITALIA di Fabio Massimo Franceschelli. Il buco rosso di una danza macabra
ITALIA "infine altri, pochi, si sentiranno tristi perché l'ostentazione delle merci, dei loro colori, forme, voci, profumi, ammiccamenti e invadenze, conferma in essi che il consumo è una qualità del tempo e più si consuma e più si invecchia e più si produce e più si muore. Saranno costoro gli eredi di un'Italia antica che da qualche vive ancora, nei ricordi di ricordi altri, affiora nei libri che divorano ogni giorno"
Edito dalla DelVecchioEditore, da un editore come il Manuzio dei nostri tempi, nella collana Formelunghe, il libro finalista al Premio Calvino di questo anno, viene presentato con una copertina di colori, celeste e giallo, una spirale che va verso un buco rosso. "Una danza macabra. Tutta l'arte che ho dentro"
Il libro di Fabio Massimo Franceschelli nella sospensione del tempo in un Centro Commerciale dove pochi avvertono il disagio.
La sospensione prima della valanga, la sospensione prima che l'aereo si infili nei grattacieli di Manhattan, la sospensione prima che il proiettile arrivi al centro e squassi tutto facendo zampillare il sangue. Una sospensione aleggia nelle pagine e nel senso di Italia romanzo a racconti. Ogni personaggio è un racconto di una storia sospesa che aspetta non sa cosa. Siamo fermi tutti all'aereo dell'undici settembre e così sono ferma allo zaino, ai due zaini. Anche gli zaini mi sembrano un motivo. Italia è un nome, il nome di una donna molto anziana forse italoamericana che ha mantenuto il suo dialetto e lo ha infarcito di termini americani un po' storpiati. Siamo in un Centro Commerciale. Nella mia cocciuta opposizione a questi luoghi conduco una battaglia solitaria di cancellazione e mai andrei se non fosse per le Multisale che ci permettono di vedere i film con bellissimi mega schermi. So però che molti usano i Centri commerciali come luoghi reali e vi trascorrono il loro tempo illudendosi di abitare uno spazio vivente. Cattedrale si chiama il Centro Commerciale di Fabio. Ed è in questa congerie di negozi che si svolge la rappresentazione di Italia, la scena, il palcoscenico brulicante di individui poi scelti uno per uno nella folla restringendo dall'alto lo sguardo su di loro. Si sente il rumore di sottofondo e si sente a volte la non linearità, mica sono lineari i gesti di chi non sa di essere nell'obiettivo di uno zoom. Così tendiamo orecchio alle chiacchiere, ai pensieri ed alle supposizioni, ai progetti che fanno i personaggi che via via incontriamo scorrendo le pagine di Italia. Mentre stiamo fermi e sospesi in attesa della pallottola iniziale già sparata. Siamo fermi al buco.
"Il male è una categoria dello spirito ed è una categoria della Storia. Secondo i santi Agostino e Tommaso il male si definisce in termine di deficienza di bene" ma Fabio dissente e vede il bene come momentanea assenza del male. "Il male si è distratto un attimo, si è assentato qui, per andare lì, ma appena ha finito qui tornerà lì. Il bene è un vuoto provvisorio, molto provvisorio, di male."
non c'è rete e non c'è futuro e Italia incontra la luce, in un altro luogo.
Un libro a cui ho messo tante orecchiette alle pagine ed ora vado a rileggermelo ascoltando un frastuono di storie comuni, il frastuono dei destini di una moltitudine vista dalla postazione della lettura. Nella sospensione.
Siamo fermi al buco del proiettile.
Ippolita Luzzo
Edito dalla DelVecchioEditore, da un editore come il Manuzio dei nostri tempi, nella collana Formelunghe, il libro finalista al Premio Calvino di questo anno, viene presentato con una copertina di colori, celeste e giallo, una spirale che va verso un buco rosso. "Una danza macabra. Tutta l'arte che ho dentro"
Il libro di Fabio Massimo Franceschelli nella sospensione del tempo in un Centro Commerciale dove pochi avvertono il disagio.
La sospensione prima della valanga, la sospensione prima che l'aereo si infili nei grattacieli di Manhattan, la sospensione prima che il proiettile arrivi al centro e squassi tutto facendo zampillare il sangue. Una sospensione aleggia nelle pagine e nel senso di Italia romanzo a racconti. Ogni personaggio è un racconto di una storia sospesa che aspetta non sa cosa. Siamo fermi tutti all'aereo dell'undici settembre e così sono ferma allo zaino, ai due zaini. Anche gli zaini mi sembrano un motivo. Italia è un nome, il nome di una donna molto anziana forse italoamericana che ha mantenuto il suo dialetto e lo ha infarcito di termini americani un po' storpiati. Siamo in un Centro Commerciale. Nella mia cocciuta opposizione a questi luoghi conduco una battaglia solitaria di cancellazione e mai andrei se non fosse per le Multisale che ci permettono di vedere i film con bellissimi mega schermi. So però che molti usano i Centri commerciali come luoghi reali e vi trascorrono il loro tempo illudendosi di abitare uno spazio vivente. Cattedrale si chiama il Centro Commerciale di Fabio. Ed è in questa congerie di negozi che si svolge la rappresentazione di Italia, la scena, il palcoscenico brulicante di individui poi scelti uno per uno nella folla restringendo dall'alto lo sguardo su di loro. Si sente il rumore di sottofondo e si sente a volte la non linearità, mica sono lineari i gesti di chi non sa di essere nell'obiettivo di uno zoom. Così tendiamo orecchio alle chiacchiere, ai pensieri ed alle supposizioni, ai progetti che fanno i personaggi che via via incontriamo scorrendo le pagine di Italia. Mentre stiamo fermi e sospesi in attesa della pallottola iniziale già sparata. Siamo fermi al buco.
"Il male è una categoria dello spirito ed è una categoria della Storia. Secondo i santi Agostino e Tommaso il male si definisce in termine di deficienza di bene" ma Fabio dissente e vede il bene come momentanea assenza del male. "Il male si è distratto un attimo, si è assentato qui, per andare lì, ma appena ha finito qui tornerà lì. Il bene è un vuoto provvisorio, molto provvisorio, di male."
non c'è rete e non c'è futuro e Italia incontra la luce, in un altro luogo.
Un libro a cui ho messo tante orecchiette alle pagine ed ora vado a rileggermelo ascoltando un frastuono di storie comuni, il frastuono dei destini di una moltitudine vista dalla postazione della lettura. Nella sospensione.
Siamo fermi al buco del proiettile.
Ippolita Luzzo
sabato 28 gennaio 2017
La La Land
Oscar ai colori, alle automobili, alle autostrade, Oscar a Los Angeles, alle luci, al panorama, Oscar al jazz, ai locali, Oscar alla buona fede, all'entusiasmo, a Parigi. Los Angeles premia sé stessa.
Oscar 2017 ad un musical che inizia come un musical, con le automobili incolonnate nel traffico e tutti ballano e cantano come negli ingorghi veri. Molto carina la scena. Inizio della storia con un dito alzato, ma lei alza il dito oppure me lo sono inventato? la storia esile è sempre l'incontro scontro fra due giovani e belli che all'inizio si scontrano e poi si incontrano innamorandosi e sostenendo uno l'entusiasmo dell'altro. Comunque una storia inesistente, non hanno più storie da raccontare gli sceneggiatori di Los Angeles se non quella sempre uguale dell'individuo che deve coltivare il suo sogno, che non deve mai smettere di crederci, che deve poi dimenticare chi lo ha aiutato, e che darà emozioni perché un bel giorno arriverà Bill Gates, e siate folli, i sognatori sono tutti folli. Questa la trama di La La Land sviluppata con variazioni sul tema minime, apprezzabile e innovativo l'amore che tutti cercano nella vita, l'amore nello sguardo delle stelle e poi l'amore per la musica, per il jazz.
I protagonisti non esistono in realtà, esiste il messaggio, la strada, quello che si insegue, il successo, quello che avrà solo l'un per cento della popolazione mondiale mentre il resto degli abitanti saranno fortunati se, come il protagonista maschile, potranno farsi due polpette al forno nella solitudine di una casa e suonare nel locale la musica che si ama.
Nel sottotesto ci stanno gli altri, tutti gli altri, che verranno oscurati perché i tacchi vincono sulle scarpe del tip tap e sarà su tacchi vertiginosi che la protagonista arriverà alla fine a casa cinque anni dopo da un marito e da una figlia nella sua domus di attrice.
Lei ha vinto. Ha vinto il Cinema.
Peccato che il messaggio di lei sia non ringraziare, sia lasciare indietro e non guardare indietro, non andare a dire due parole due a chi prima è stato vicino. In effetti il mercato vuole solo questo, non guardare indietro, andare avanti e...
Film carino perché siamo stanchi di pugni in faccia, di contumelie e di sgambetti, siamo però anche stanchi di sogni, emozioni e imperativi categorici.
Quello che mi impensierisce è una cosa che verificherò, sempre all'alba di tempi terribili il cinema ci offre il musical.
"La collina voglia scalare, in cima voglio arrivare"
La collina di Los Angeles ha una cima? sulla collina di Hollywood
Oscar sarà questo anno a La La Land dal mio antico Lallalà
Oscar 2017 ad un musical che inizia come un musical, con le automobili incolonnate nel traffico e tutti ballano e cantano come negli ingorghi veri. Molto carina la scena. Inizio della storia con un dito alzato, ma lei alza il dito oppure me lo sono inventato? la storia esile è sempre l'incontro scontro fra due giovani e belli che all'inizio si scontrano e poi si incontrano innamorandosi e sostenendo uno l'entusiasmo dell'altro. Comunque una storia inesistente, non hanno più storie da raccontare gli sceneggiatori di Los Angeles se non quella sempre uguale dell'individuo che deve coltivare il suo sogno, che non deve mai smettere di crederci, che deve poi dimenticare chi lo ha aiutato, e che darà emozioni perché un bel giorno arriverà Bill Gates, e siate folli, i sognatori sono tutti folli. Questa la trama di La La Land sviluppata con variazioni sul tema minime, apprezzabile e innovativo l'amore che tutti cercano nella vita, l'amore nello sguardo delle stelle e poi l'amore per la musica, per il jazz.
I protagonisti non esistono in realtà, esiste il messaggio, la strada, quello che si insegue, il successo, quello che avrà solo l'un per cento della popolazione mondiale mentre il resto degli abitanti saranno fortunati se, come il protagonista maschile, potranno farsi due polpette al forno nella solitudine di una casa e suonare nel locale la musica che si ama.
Nel sottotesto ci stanno gli altri, tutti gli altri, che verranno oscurati perché i tacchi vincono sulle scarpe del tip tap e sarà su tacchi vertiginosi che la protagonista arriverà alla fine a casa cinque anni dopo da un marito e da una figlia nella sua domus di attrice.
Lei ha vinto. Ha vinto il Cinema.
Peccato che il messaggio di lei sia non ringraziare, sia lasciare indietro e non guardare indietro, non andare a dire due parole due a chi prima è stato vicino. In effetti il mercato vuole solo questo, non guardare indietro, andare avanti e...
Film carino perché siamo stanchi di pugni in faccia, di contumelie e di sgambetti, siamo però anche stanchi di sogni, emozioni e imperativi categorici.
Quello che mi impensierisce è una cosa che verificherò, sempre all'alba di tempi terribili il cinema ci offre il musical.
"La collina voglia scalare, in cima voglio arrivare"
La collina di Los Angeles ha una cima? sulla collina di Hollywood
Oscar sarà questo anno a La La Land dal mio antico Lallalà
venerdì 27 gennaio 2017
Gli Yanomani
Gli Yanomani 2 gennaio 2012
Quell'anno che mi fissai con la tribù degli Yanomani.
Insegnavo a Monterosso, in una prima media e facevo storia, o meglio avrei dovuto, ma non potevo.
Quell'anno esistevano solo le tribù amazzoniche, il loro mondo, perché si erano fermati, perché vivevano ancora in un periodo astorico senza progresso, senza divenire.
"Erano cretini?" mi domandava qualcuno
"Sicuramente" si rispondeva da solo "Sono inferiori, ma sì, ma sì" diceva quello, compiaciuto, a tavola, di tanta evoluzione, di tanta comodità.
"Noi occidentali siamo progrediti, noi siamo migliori" e poi continuava "Cos'è l’intelligenza? è sicuramente un popolo non intelligente"
Questo fra un primo ed un buon caffè.
Ed io ribattevo con tutto lo strutturalismo, con la filosofia dell’essere che loro avevano introiettato e noi no, noi eravamo figli del divenire mentre loro erano andati nel profondo dell’incontro fra uomo e natura e noi avevamo scisso per sempre il nostro legame beoti e incoscienti di vivere ormai nel migliori dei mondi.
Così andavo a scuola e quella tribù da ottobre a dicembre fu ben studiata, usi costumi, linguaggio, suddivisioni in uomini e donne, le donne vivevano solo tra loro.
Avevano capito prima di noi, semplicemente loro sapevano che niente dovevano dire agli uomini, noi ancora caparbie proprio non lo vogliamo capire. Gli uomini, certo, giocavano con i piccoli, quando tornavano dai loro giri, si dondolavano sulle amache, stanchi dalle cacce a piedi, dopo aver inseguito per molto tempo la scimmia, il tapiro, le tarantole e le termiti.
Studiammo il rapporto violento, aggressivo, dell’uomo civile nei loro confronti, il lento e veloce asservimento di un mondo ai biechi bisogni dell’uomo moderno.
Arrivammo a Natale ed io mi accorsi con vero terrore che non avevo fatto né fiabe, né favole, né pleocene e nemmeno sumeri ma avevo spiegato la favola nera dell’oppressione sul diverso, sull'altro da noi.
Nel salutarmi, però, i genitori, venuti agli incontri del primo trimestre, erano sorpresi ma tanto felici, si erano proprio sentiti coinvolti a ricercare cartine geografiche, a rivedere foreste pluviali, a considerare un mondo diverso fatto di riti e danze tribali.
Un mondo popolato da anime, dovunque, negli alberi, nei fiori, nei loro animali, di anime vive che sono con noi.
Ne fui sollevata ma al ritorno a gennaio ripresi il libro di testo e velocemente spiegai gli Assiri, i Fenici, gli Etruschi, gli Ebrei per poi rifermarmi su Greci e Romani.
Ma che meraviglia! Ma che assurdità!
Un duplice mondo, un mondo affannato ed uno fermo, un divenire ed uno stare immobile, un essere per sempre, così come lo chiamava il mio professore di storia della filosofia.
Quell'anno che mi fissai con la tribù degli Yanomani.
Insegnavo a Monterosso, in una prima media e facevo storia, o meglio avrei dovuto, ma non potevo.
Quell'anno esistevano solo le tribù amazzoniche, il loro mondo, perché si erano fermati, perché vivevano ancora in un periodo astorico senza progresso, senza divenire.
"Erano cretini?" mi domandava qualcuno
"Sicuramente" si rispondeva da solo "Sono inferiori, ma sì, ma sì" diceva quello, compiaciuto, a tavola, di tanta evoluzione, di tanta comodità.
"Noi occidentali siamo progrediti, noi siamo migliori" e poi continuava "Cos'è l’intelligenza? è sicuramente un popolo non intelligente"
Questo fra un primo ed un buon caffè.
Ed io ribattevo con tutto lo strutturalismo, con la filosofia dell’essere che loro avevano introiettato e noi no, noi eravamo figli del divenire mentre loro erano andati nel profondo dell’incontro fra uomo e natura e noi avevamo scisso per sempre il nostro legame beoti e incoscienti di vivere ormai nel migliori dei mondi.
Così andavo a scuola e quella tribù da ottobre a dicembre fu ben studiata, usi costumi, linguaggio, suddivisioni in uomini e donne, le donne vivevano solo tra loro.
Avevano capito prima di noi, semplicemente loro sapevano che niente dovevano dire agli uomini, noi ancora caparbie proprio non lo vogliamo capire. Gli uomini, certo, giocavano con i piccoli, quando tornavano dai loro giri, si dondolavano sulle amache, stanchi dalle cacce a piedi, dopo aver inseguito per molto tempo la scimmia, il tapiro, le tarantole e le termiti.
Studiammo il rapporto violento, aggressivo, dell’uomo civile nei loro confronti, il lento e veloce asservimento di un mondo ai biechi bisogni dell’uomo moderno.
Arrivammo a Natale ed io mi accorsi con vero terrore che non avevo fatto né fiabe, né favole, né pleocene e nemmeno sumeri ma avevo spiegato la favola nera dell’oppressione sul diverso, sull'altro da noi.
Nel salutarmi, però, i genitori, venuti agli incontri del primo trimestre, erano sorpresi ma tanto felici, si erano proprio sentiti coinvolti a ricercare cartine geografiche, a rivedere foreste pluviali, a considerare un mondo diverso fatto di riti e danze tribali.
Un mondo popolato da anime, dovunque, negli alberi, nei fiori, nei loro animali, di anime vive che sono con noi.
Ne fui sollevata ma al ritorno a gennaio ripresi il libro di testo e velocemente spiegai gli Assiri, i Fenici, gli Etruschi, gli Ebrei per poi rifermarmi su Greci e Romani.
Ma che meraviglia! Ma che assurdità!
Un duplice mondo, un mondo affannato ed uno fermo, un divenire ed uno stare immobile, un essere per sempre, così come lo chiamava il mio professore di storia della filosofia.
Quel filo spinato
Quel filo spinato che di continuo viene rimesso ad Auschwitz, risistemato per fare scena e consentire le fotografie alle scolaresche e ai turisti un selfie migliore è ciò che di orrore non è più capace. Sbiadito perché ne siamo lontani.
Eppure ne siamo troppo vicini se solo sapessimo vedere quanti fili spinati ormai accerchiano i nostri pensieri.
Fili spinati che limitano un campo, un podere, una casa, un territorio, una nazione.
Fili e poi muri, altissimi muri per arginare l'esodo ci sono sempre stati.
Siamo ignavi che stanno a guardare finché sono gli altri a crepare per noi, finché tu ti butti in un canalone e muori sentendoti chiamare "Africa" e "nero", a Venezia succede, e certo tu ti vuoi suicidare ma nessuno grida "Aiutatelo", possibile?
Possibile anche che una slavina copra un albergo e qualcuno telefoni per avvertire e si senta rispondere che è una bufala, controlleremo, senza però controllare davvero.
Sul filo spinato dal Messico, da tempo esistente, non si potrà più andare negli Stati Uniti, faranno una grande muraglia che si vedrà fin dalla luna e questo porterà progresso e una vera felicità.
Sul filo spinato della memoria anche in Italia si incita alla guerra civile, l'un contro l'altro armato, affinché l'odio purifichi e sterzi verso una guerra e non verso la comprensione.
Sul filo spinato di una memoria che sanguina e brucia, che rabbia fa, sul filo spinato dell'ignoranza ci stiamo bucando le dita e strappando i vestiti.
Ippolita Luzzo
Eppure ne siamo troppo vicini se solo sapessimo vedere quanti fili spinati ormai accerchiano i nostri pensieri.
Fili spinati che limitano un campo, un podere, una casa, un territorio, una nazione.
Fili e poi muri, altissimi muri per arginare l'esodo ci sono sempre stati.
Siamo ignavi che stanno a guardare finché sono gli altri a crepare per noi, finché tu ti butti in un canalone e muori sentendoti chiamare "Africa" e "nero", a Venezia succede, e certo tu ti vuoi suicidare ma nessuno grida "Aiutatelo", possibile?
Possibile anche che una slavina copra un albergo e qualcuno telefoni per avvertire e si senta rispondere che è una bufala, controlleremo, senza però controllare davvero.
Sul filo spinato dal Messico, da tempo esistente, non si potrà più andare negli Stati Uniti, faranno una grande muraglia che si vedrà fin dalla luna e questo porterà progresso e una vera felicità.
Sul filo spinato della memoria anche in Italia si incita alla guerra civile, l'un contro l'altro armato, affinché l'odio purifichi e sterzi verso una guerra e non verso la comprensione.
Sul filo spinato di una memoria che sanguina e brucia, che rabbia fa, sul filo spinato dell'ignoranza ci stiamo bucando le dita e strappando i vestiti.
Ippolita Luzzo
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