Il film della nostra vita.
Per immagini si fissano i momenti salienti di una amicizia, di un amore, i momenti di un nostro vissuto che, come dice Flaiano "nella nostra vita sono tre o quattro i giorni che contano, gli altri servono per fare volume."
Come un'eclissi solare racconta proprio così, svolgendo la pellicola della memoria, una amicizia finita, eppure vicinissima. Lui, l'amico della voce narrante, è seduto ad un tavolo dello stesso bar, ignaro, non si è accorto, supponiamo, di averlo accanto.
Tutto ruota sul perché l'amicizia finisca, sui motivi, se mai ce ne furono, portando tutti noi lettori ad immedesimarci su quel momento che è successo uguale nella nostra vita.
Quel momento in cui l'amicizia finisce e passa il tempo, ti rivedi, forse, e sei un'estranea, come un'eclissi solare. Il sole non c'è più.
Nel libro sembra che poi si possa ancora intercettare un messaggio, si lascia infatti il compito alla scrittura di far da tramite, di passare un testimone, il compito sacro del foglio, del dire, una lettera, un messaggio, una scritta dovunque essa sia, basta che diradi l'eclissi. Quando lui dirà ciao, c'è scritto nel prologo, il braccio di colui che narra colpisce la tazzina di caffè e lui tenta di bloccarla per non farla frantumare in mille pezzi. Eppure la tazza cade e nel cadere, sospesa nel tempo, cadono tutti i pensieri, tutti le situazioni, tutto il dirsi dei giorni.
In una produzione letteraria poco incline alla riflessione apprezzo il racconto di David che sa svolgere il tema di sentimenti comuni a tutti, nei momenti del farsi, del frantumarsi.
David Valentini partecipa a redazione@spaghettiwriters.it e ci invita sulla piattaforma dove un gruppo di affermati gourmet assaggerà e impiatterà nel loro sito le proposte letterarie.
Lui scrive i suoi racconti che vi invito a leggere. Saranno motivo di confronto con amiche e con chi ancora crede a legami affettuosi, fermi al tempo dell'adolescenza, oppure semplicemente a legami come risorsa, un tempo da accarezzare come ricordo.
Ippolita Luzzo
lunedì 13 febbraio 2017
sabato 11 febbraio 2017
Dimmi come like e ti dirò chi sei
Dimmi come lecchi, così ho tradotto io "like" dall'inglese, in senso affettuoso eh!, quella leccatina di colore blu oltremare sui vari post di social vari, per avere in contraccambio un po' d'affetto, di considerazione o semplicemente per sentirsi di far parte dello stesso sentire.
Dimmi come like e ti dirò chi sei.
Una mia amica, di un tempo che fu, pigiava e pigiava like compulsivi dicendomi "Questo serve, questo può essere utile" senza aprire i link proposti, senza leggere i post.
Like frenetici dettati dal suo voler raggiungere presto e subito il letterato, l'editore, la libreria, il festival letterario, l'intervista del primo che l'avrebbe appellata "scrittrice"
Io metto like ossessivi, sempre alle stesse persone, come in un immaginario discorso, come se il like fosse un intercalare, io e loro, seduti a quel tavolo di fantasia chiamato discorso.
Ogni tanto mi vergogno di tanto assillare e ritraggo la mano. Sembro una stalker.
Lo scrittore locale, lo vedo, mette like a tutti, tutti gli scrittori nazionali, li stima sicuramente, e pensa che loro forse poi vedranno anche lui.
Il cortigiano cortese mette like di cortesia, di adulazione alle donne ben vestite e pettinate, queste accettano tanto degnazione, essendo anche loro cortesi, e giocano alle dame ed ai cavalieri a colpi di like.
Frustrati nel loro vivere amori sbilenchi e senza più vita si rifugiano nella galanteria per distrarsi un po'. Male non fanno.
Mettono like fra loro, di rinforzo li chiamo io, gli appartenenti ad associazioni, tribù e scuole.
Spirito di corpo esige il rispetto del rito del like.
Se non lo metti sei fuori.
Like che ci dice chi noi siamo, poveri, illusi e in cerca di quel che noi stesso aduliamo.
Usando il like come una clava, un'accetta, uno sfregio, a quella lo metto e a te no, come litigio, te lo do e te lo tolgo, il like che noi mettiamo ci si ritorce contro in una immagine misera di un luogo che rapporti non ha.
Like di controllo sociale e amicale. Una mia conoscente mi confessò di dover mettere like a tutte le fotografie postate da una sua compaesana pena la rottura di ogni rapporto.
Era diventato uno stress. La sua compaesana spiava ogni sua mossa e se lei avesse messo altri like e non a lei inimicizia certa. Un incubo. Il like come dovere. La donna ne era così stanca che si affacciò sempre più raramente sul social.
Like che mettiamo e like che pretendiamo come fosse un dovere.
Se il like mettiamo vuol dire che viviamo, se il like mettiamo vuol dire che ancora desideriamo essere almeno per qualcuno, almeno per uno, pur anche e solo un semplice like.
Noi siamo un like, noi siamo i like che mettiamo.
Ippolita Luzzo
Dimmi come like e ti dirò chi sei.
Una mia amica, di un tempo che fu, pigiava e pigiava like compulsivi dicendomi "Questo serve, questo può essere utile" senza aprire i link proposti, senza leggere i post.
Like frenetici dettati dal suo voler raggiungere presto e subito il letterato, l'editore, la libreria, il festival letterario, l'intervista del primo che l'avrebbe appellata "scrittrice"
Io metto like ossessivi, sempre alle stesse persone, come in un immaginario discorso, come se il like fosse un intercalare, io e loro, seduti a quel tavolo di fantasia chiamato discorso.
Ogni tanto mi vergogno di tanto assillare e ritraggo la mano. Sembro una stalker.
Lo scrittore locale, lo vedo, mette like a tutti, tutti gli scrittori nazionali, li stima sicuramente, e pensa che loro forse poi vedranno anche lui.
Il cortigiano cortese mette like di cortesia, di adulazione alle donne ben vestite e pettinate, queste accettano tanto degnazione, essendo anche loro cortesi, e giocano alle dame ed ai cavalieri a colpi di like.
Frustrati nel loro vivere amori sbilenchi e senza più vita si rifugiano nella galanteria per distrarsi un po'. Male non fanno.
Mettono like fra loro, di rinforzo li chiamo io, gli appartenenti ad associazioni, tribù e scuole.
Spirito di corpo esige il rispetto del rito del like.
Se non lo metti sei fuori.
Like che ci dice chi noi siamo, poveri, illusi e in cerca di quel che noi stesso aduliamo.
Usando il like come una clava, un'accetta, uno sfregio, a quella lo metto e a te no, come litigio, te lo do e te lo tolgo, il like che noi mettiamo ci si ritorce contro in una immagine misera di un luogo che rapporti non ha.
Like di controllo sociale e amicale. Una mia conoscente mi confessò di dover mettere like a tutte le fotografie postate da una sua compaesana pena la rottura di ogni rapporto.
Era diventato uno stress. La sua compaesana spiava ogni sua mossa e se lei avesse messo altri like e non a lei inimicizia certa. Un incubo. Il like come dovere. La donna ne era così stanca che si affacciò sempre più raramente sul social.
Like che mettiamo e like che pretendiamo come fosse un dovere.
Se il like mettiamo vuol dire che viviamo, se il like mettiamo vuol dire che ancora desideriamo essere almeno per qualcuno, almeno per uno, pur anche e solo un semplice like.
Noi siamo un like, noi siamo i like che mettiamo.
Ippolita Luzzo
Una amicizia da spaesati. Daniel Cundari e Mauro Minervino
Excrucior da Catullo a Gregory Corso nell'incendio e oltre.
Daniel sta leggendo a Mauro la poesia di Catullo quando arrivo nella libreria Ubik. "Odi et amo Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior." Odio e amo Per quale motivo io faccia ciò, forse ti chiederai. Non so, ma sento che ciò avviene e ne sono tormentato.
Excrucior, forma passiva di un sottomettersi senza volontà.
Sono tormentato dall'ambivalenza di un sentire che mi attraversa, così direbbe per me Catullo.
Ambivalenza nella serata alla Ubik di Catanzaro Lido dove Nunzio Belcaro ospita e presenta Daniel Cundari poeta di una poesia strutturata, poeta di tre lingue, nel fascino della subordinazione totale alla poesia.
Mauro Minervino, amico e compagno di viaggio in "Stradario di uno spaesato" aveva già scritto di Daniel, nella somiglianza fra lui e l'altro, due spaesati eppure così legati alle radici, al paese d'origine. L'autenticità, la registrazione di passaggi nella visione dei luoghi, la lingua degli affetti, la forza del dialetto, sono questi i legami in comune.
La necessità di raccontare un paese, i luoghi, la vicina di casa Giuseppina, attraverso il gesto, con il corpo.
Una poesia recitata con la voce e con il gesto, per produrre disturbo, con il dialetto del luogo, fissata in un luogo, Cuti, il paese di Daniel da cui poi è andato via per vivere in Spagna, a Granada.
L'incendio e oltre di Daniel Cundari, per Mauro Minervino sono le ceneri che lascia il fuoco e domanda:"Cosa resta di un incendio se non la lingua?"
Accompagnato dal basso di Sasà Calabrese, Daniel Cundari inizia una miscellanea di versi in dialetto di Cuti, un dialetto primitivo, reinventato. Ho preso appunti sui versi che non riporto, non ho abilità nel trascrivere il dialetto, posso però raccontarvi la trasformazione, quasi una levitazione, in Daniel, man mano che si inoltra nei sentieri poetici.
Gesti e voce, corpo e movimento, fremiti e sussulti, eppure disciplina e professionalità, una somiglianza ai poeti che poi lui citerà in un attimo, Gregory Corso, i poeti della beat generation, e l'ossessione come possessione di un verso vivo. Respirato e gettato, accompagnato e regalato.
Il vento, le allucinazioni di Don Chisciotte, la luce, l'esorcismo contro le possessioni, la poesia di Simone Tommasiello, affetto da SLA, e dettata a Daniel attraverso il movimento degli occhi, dalla prigione del corpo, e tra "timpi e valluni", quante volte io avrei voluto cambiare il mondo con una parola, dal quartiere Sacromonte di Granada a tutti i quartieri dei nostri paesi ormai semplici agglomerati e non più quartieri, quante volte il "jetta sangue e abballa" che non vi racconterò.
Excrucior
Ippolita Luzzo
Daniel sta leggendo a Mauro la poesia di Catullo quando arrivo nella libreria Ubik. "Odi et amo Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior." Odio e amo Per quale motivo io faccia ciò, forse ti chiederai. Non so, ma sento che ciò avviene e ne sono tormentato.
Excrucior, forma passiva di un sottomettersi senza volontà.
Sono tormentato dall'ambivalenza di un sentire che mi attraversa, così direbbe per me Catullo.
Ambivalenza nella serata alla Ubik di Catanzaro Lido dove Nunzio Belcaro ospita e presenta Daniel Cundari poeta di una poesia strutturata, poeta di tre lingue, nel fascino della subordinazione totale alla poesia.
Mauro Minervino, amico e compagno di viaggio in "Stradario di uno spaesato" aveva già scritto di Daniel, nella somiglianza fra lui e l'altro, due spaesati eppure così legati alle radici, al paese d'origine. L'autenticità, la registrazione di passaggi nella visione dei luoghi, la lingua degli affetti, la forza del dialetto, sono questi i legami in comune.
La necessità di raccontare un paese, i luoghi, la vicina di casa Giuseppina, attraverso il gesto, con il corpo.
Una poesia recitata con la voce e con il gesto, per produrre disturbo, con il dialetto del luogo, fissata in un luogo, Cuti, il paese di Daniel da cui poi è andato via per vivere in Spagna, a Granada.
L'incendio e oltre di Daniel Cundari, per Mauro Minervino sono le ceneri che lascia il fuoco e domanda:"Cosa resta di un incendio se non la lingua?"
Accompagnato dal basso di Sasà Calabrese, Daniel Cundari inizia una miscellanea di versi in dialetto di Cuti, un dialetto primitivo, reinventato. Ho preso appunti sui versi che non riporto, non ho abilità nel trascrivere il dialetto, posso però raccontarvi la trasformazione, quasi una levitazione, in Daniel, man mano che si inoltra nei sentieri poetici.
Gesti e voce, corpo e movimento, fremiti e sussulti, eppure disciplina e professionalità, una somiglianza ai poeti che poi lui citerà in un attimo, Gregory Corso, i poeti della beat generation, e l'ossessione come possessione di un verso vivo. Respirato e gettato, accompagnato e regalato.
Il vento, le allucinazioni di Don Chisciotte, la luce, l'esorcismo contro le possessioni, la poesia di Simone Tommasiello, affetto da SLA, e dettata a Daniel attraverso il movimento degli occhi, dalla prigione del corpo, e tra "timpi e valluni", quante volte io avrei voluto cambiare il mondo con una parola, dal quartiere Sacromonte di Granada a tutti i quartieri dei nostri paesi ormai semplici agglomerati e non più quartieri, quante volte il "jetta sangue e abballa" che non vi racconterò.
Excrucior
Ippolita Luzzo
giovedì 9 febbraio 2017
"Il pescatore di tonni" racconto di Raffaele Mangano
"Eh, nella vita..." sembra questa l'espressione con cui la madre del protagonista condensava gli eventi sia dolorosi che gioiosi oppure strambi che succedevano, con un leggero sospiro a chiudere la frase. L'esclamazione riusciva a dare il senso della fragilità dell'esistenza e il mistero del destino.
"Il pescatore de tonni" romanzo del 2011 di Raffaele Mangano è un canto corale di tonni, marinai e forestieri, un canto animistico dove sirene dagli occhi di malva guardano davvero e Colapesce sta a sorreggere dalle profondità marine l'isola affinché non sprofondi.
Una Sicilia antica e una Sicilia abbandonata, con il delitto, quello grave, di averne ucciso la sacralità.
Nella Favignana di alcuni anni fa si viveva della pesca dei tonni, vi era una florida industria conserviera e le scatolette di tonno erano l'orgoglio ed insieme nutrimento di un popolo. Ora non più. Ora i giapponesi pescano dall'alto, sparano a vista e lasciano il deserto.
Nessun canto più si sentirà.
Mi riporto il canto dei pescatori sulle sciabbiche, mi riporto i gesti, insieme al grande rispetto per quella mattanza fonte di vita, mi riporto il sacro che animava ogni gesto.
Un modo di descrivere che afferra e fa salire il lettore sul Vascello, ed anche io ho messo le reti, sentendo il profumo e vedendo i colori, capendo che siamo tutti come i pesci, nella diversità delle nostre reazioni. Il tonno si infila nella camera della morte e solo alla fine tenta un guizzo ormai inutile, il delfino si sporge e salta fuori dalla rete, lo squalo si mette a strappare coi denti la rete e i pescatori issano le reti, per farlo andare via. Resta il pesce spada a suicidarsi a voler morire prima.
«U piscispada s’ammazza da sulu. Un’avi vogghia di farisi piscàri».
Dal romanzo di Raffaele Mangano "Il pescatore di tonni" questa frase che mi lega alla cronaca terribile della lettera di Michele, trenta anni, in questi giorni suicidatosi ad Udine, di ritorno da un colloquio di lavoro beffa. Come il pesce spada del racconto, questo giovane uomo non accetta, non più, le terribili ragioni di un momento ingiusto e scorretto, un momento in cui alti stipendi vengono distribuiti ad una pletora di funzionari, alti stipendi vengono percepiti nel pubblico e nel privato come irrisione verso i tonni ed i pesce spada nella camera della morte di questi tempi scorretti.
Ho letto quindi questo romanzo che rimane una grande epopea di una famiglia, i Florio, di una isola, Favignana, di un gruppo di pescatori, quasi personaggi mitici, come l'epopea del mondo sempre cruento eppure capace di riti. Capace di reti.
Nelle reti e nei riti di un mondo cattivo siamo immersi come i tonni. Ricordare è resistere, sembra ci dica Raffaele, ce lo diciamo in tanti, ricordare le conoscenze essenziali per avere un punto per sostenerci, come la leva.
"Datemi una leva e un punto di applicazione e solleverò il mondo"
(Archimede)
In questo romanzo vivrete a Favignana, nella Favignana abitata dalla famiglia Mannino, andrete a passeggio con Nino, colui che ci racconta il cunto, la storia.
Nino è figlio di siciliani, vissuto a Torino, Nino: come un bambino che sbircia da dietro una porta socchiusa.
Il racconto.
Un'isola che può essere un paradiso e una prigione, un'isola da cui fuggire e ritornare sapendo che solo lì si è riconosciuti con il soprannome. C'è nel romanzo il senso della comunità di pescatori ognuno col proprio ruolo, magico quasi, ognuno con una identità. U Turcu, Bastianuzzu, Papareddu e Nas'i Pipa, una comunità.
Anche mia mamma, ogni volta che vado a trovarla, rievoca tutto il vicinato con i soprannomi affettuosi, vicinato ormai scomparso, non abbiamo più vicini di casa.
Seduto sul masso della tonnara, Nino, come noi, come il pesce spada, come chi non si rassegna, come Michele, continua il racconto di cui tutti abbiamo bisogno per vivere.
La leva del ricordo per produrre energia.
Ippolita Luzzo
"Il pescatore de tonni" romanzo del 2011 di Raffaele Mangano è un canto corale di tonni, marinai e forestieri, un canto animistico dove sirene dagli occhi di malva guardano davvero e Colapesce sta a sorreggere dalle profondità marine l'isola affinché non sprofondi.
Una Sicilia antica e una Sicilia abbandonata, con il delitto, quello grave, di averne ucciso la sacralità.
Nella Favignana di alcuni anni fa si viveva della pesca dei tonni, vi era una florida industria conserviera e le scatolette di tonno erano l'orgoglio ed insieme nutrimento di un popolo. Ora non più. Ora i giapponesi pescano dall'alto, sparano a vista e lasciano il deserto.
Nessun canto più si sentirà.
Mi riporto il canto dei pescatori sulle sciabbiche, mi riporto i gesti, insieme al grande rispetto per quella mattanza fonte di vita, mi riporto il sacro che animava ogni gesto.
Un modo di descrivere che afferra e fa salire il lettore sul Vascello, ed anche io ho messo le reti, sentendo il profumo e vedendo i colori, capendo che siamo tutti come i pesci, nella diversità delle nostre reazioni. Il tonno si infila nella camera della morte e solo alla fine tenta un guizzo ormai inutile, il delfino si sporge e salta fuori dalla rete, lo squalo si mette a strappare coi denti la rete e i pescatori issano le reti, per farlo andare via. Resta il pesce spada a suicidarsi a voler morire prima.
«U piscispada s’ammazza da sulu. Un’avi vogghia di farisi piscàri».
Dal romanzo di Raffaele Mangano "Il pescatore di tonni" questa frase che mi lega alla cronaca terribile della lettera di Michele, trenta anni, in questi giorni suicidatosi ad Udine, di ritorno da un colloquio di lavoro beffa. Come il pesce spada del racconto, questo giovane uomo non accetta, non più, le terribili ragioni di un momento ingiusto e scorretto, un momento in cui alti stipendi vengono distribuiti ad una pletora di funzionari, alti stipendi vengono percepiti nel pubblico e nel privato come irrisione verso i tonni ed i pesce spada nella camera della morte di questi tempi scorretti.
Ho letto quindi questo romanzo che rimane una grande epopea di una famiglia, i Florio, di una isola, Favignana, di un gruppo di pescatori, quasi personaggi mitici, come l'epopea del mondo sempre cruento eppure capace di riti. Capace di reti.
Nelle reti e nei riti di un mondo cattivo siamo immersi come i tonni. Ricordare è resistere, sembra ci dica Raffaele, ce lo diciamo in tanti, ricordare le conoscenze essenziali per avere un punto per sostenerci, come la leva.
"Datemi una leva e un punto di applicazione e solleverò il mondo"
(Archimede)
In questo romanzo vivrete a Favignana, nella Favignana abitata dalla famiglia Mannino, andrete a passeggio con Nino, colui che ci racconta il cunto, la storia.
Nino è figlio di siciliani, vissuto a Torino, Nino: come un bambino che sbircia da dietro una porta socchiusa.
Il racconto.
Un'isola che può essere un paradiso e una prigione, un'isola da cui fuggire e ritornare sapendo che solo lì si è riconosciuti con il soprannome. C'è nel romanzo il senso della comunità di pescatori ognuno col proprio ruolo, magico quasi, ognuno con una identità. U Turcu, Bastianuzzu, Papareddu e Nas'i Pipa, una comunità.
Anche mia mamma, ogni volta che vado a trovarla, rievoca tutto il vicinato con i soprannomi affettuosi, vicinato ormai scomparso, non abbiamo più vicini di casa.
Seduto sul masso della tonnara, Nino, come noi, come il pesce spada, come chi non si rassegna, come Michele, continua il racconto di cui tutti abbiamo bisogno per vivere.
La leva del ricordo per produrre energia.
Ippolita Luzzo
mercoledì 8 febbraio 2017
Julieta
Il film Julieta ricorda un mio lontano pezzo dal titolo La consolazione. Con in mano questo libro "La tragedia griega" la giovanissima docente di greco sta spostandosi in treno per andare alla sua sede scolastica per una supplenza. Un libro che ci indica la via delle nostre avventure umane: La consolazione.
Usciamo dal film consolati, nella certezza di aver visto un film narrato sul vero. Sul destino e sulla scelta. Sugli affetti e sui difetti. Un film che siamo noi Julieta. Chiacchieriamo infatti nel viaggio di ritorno sulle nostre letture da bambini: Incompreso, Il viale dei tigli, Cuore. Sulle lacrime a fiume mentre si leggeva Dagli Appennini alle Ande. Tristissime letture però tanto utili per prepararci a tutte le separazioni, gli abbandoni, lo scomparire delle relazioni costruite in giorni e giorni.
Tutto scompare con la stessa terribile facilità con cui appare, tutto può essere che dipenda e non dipenda dalla nostra volontà, sembra chiedersi Julieta ad ogni fotogramma.
Se avessi parlato in treno all'uomo davanti a me nello scompartimento forse costui non si sarebbe suicidato. Se io non avessi discusso con Shoan forse lui non sarebbe annegato. E mia madre? Lasciata con mio padre che la finì. E mia figlia? Tutto scompare eppure ad ogni scomparsa una piccola consolazione riprende il gioco degli avvenimenti e sembra possibile sperare ancora di capire l'altro.
Così la figlia capirà e capirà la mamma e capiremo noi...
novembre 2016
Ippolita Luzzo
Ivan Talarico 10
Non Spiegatemi Le Poesie Che Devono Restare Piegate dovreste regalarlo ad ogni lui, ad ogni lei, in questi giorni di Peynet.
Io tenterò di convincervi all'acquisto facendovi assaggiare la prelibatezza di alcuni versi, come antipasto.
"Cena Fuori"
"C'è molto di tutto/ovunque,/tranne che dentro/di noi;/da anni il sole/ci rende aridi/e le nostre zone/deserti che sono/aumentate."
Una cena appetitosa a base di riso, ragù, filetti, e torto al limone, che vi si scioglierà in bocca, come le tante cene a due con fretta di stagione. "Tutto è parodia del nostro sentimento."
"Giochetti stupidi" e "Il cambio dell'avanguardia" "Allo stupore non si domanda"
"A furia di inventare/ parole nuove per vecchi sentimenti,/ i sentimenti erano morti/ e le parole incomprensibili"
Poesie per riflettere, dopo aver sorriso, dopo aver detto uguale anche noi chissà quante volte, poesie delicate che Ivan ci porge con gentilezza, sapendo che sta parlando di lui e di noi, come ognuno che scrive fa, "Scrivo sempre di me" En moi.
Ed ho sottolineato, ho messo crocette, ho imparato a memoria, aspettando di incontrare Ivan Talarico ed applaudire dalla platea lui sul palco di un teatro della mia città.
E tutto il resto sprofondi è il verso finale di Campo d'amore, e il variare degli stati d'animo mutevoli che attraversano e passano su un campo d'incontro vengono presentati nella semplicità del gesto scenico.
Cemento amato
"Non cerchiamo il cielo:/sdraiamoci a terra/e collaudiamo/la nostra statica umana/e la nostra dinamica divina."
c'è chi trascrive sui fogli quasi come se versasse in un bicchiere un liquido che dopo aver bevuto rimane ancora sete, scrive Ivan, in una mia impropria parafrasi, e ci sono poeti che impastano parole come se fossero giocattoli di un gioco diverso dalla vita meschina che poi loro vivono. Il gioco della poesia e il gioco delle parole, insieme alle immagini, al chiedersi se "riuscirai a vivere/a forma di emozioni e sentimenti,/anche senza un sicuro orizzonte?"
Con la domanda che noi tutti ci facciamo da soli o in compagnia, in rapporti sbilenchi oppure certi, Ivan ci dà Buone Notizie.
Felicissima di aver incrociato lo sguardo buono di Ivan una sera alla Ubik di Catanzaro, ho appena dato 10 con lode alle sue poesie dolci e ironiche dal regno della Litweb
Ippolita Luzzo
Ivan Talarico: Autore, cantautore e attore, vive a Roma. Ha fondato la compagnia teatrale DoppioSenso Unico con Luca Ruocco, mettendo in scena 5 spettacoli tra il 2005 e il 2015.
Ha collaborato con lo scrittore Claudio Morici nella realizzazione di reading e spettacoli.
Nel 2014 la casa editrice Gorilla Sapiens ha pubblicato il suo primo libro di poesie "Ogni giorno di felicità è una poesia che muore".
Nel 2015 ha vinto il premio per il miglior testo a Musicultura con la canzone "Carote d'amore".
Nel 2016 è stato ospite al Premio Tenco
Io tenterò di convincervi all'acquisto facendovi assaggiare la prelibatezza di alcuni versi, come antipasto.
"Cena Fuori"
"C'è molto di tutto/ovunque,/tranne che dentro/di noi;/da anni il sole/ci rende aridi/e le nostre zone/deserti che sono/aumentate."
Una cena appetitosa a base di riso, ragù, filetti, e torto al limone, che vi si scioglierà in bocca, come le tante cene a due con fretta di stagione. "Tutto è parodia del nostro sentimento."
"Giochetti stupidi" e "Il cambio dell'avanguardia" "Allo stupore non si domanda"
"A furia di inventare/ parole nuove per vecchi sentimenti,/ i sentimenti erano morti/ e le parole incomprensibili"
Poesie per riflettere, dopo aver sorriso, dopo aver detto uguale anche noi chissà quante volte, poesie delicate che Ivan ci porge con gentilezza, sapendo che sta parlando di lui e di noi, come ognuno che scrive fa, "Scrivo sempre di me" En moi.
Ed ho sottolineato, ho messo crocette, ho imparato a memoria, aspettando di incontrare Ivan Talarico ed applaudire dalla platea lui sul palco di un teatro della mia città.
E tutto il resto sprofondi è il verso finale di Campo d'amore, e il variare degli stati d'animo mutevoli che attraversano e passano su un campo d'incontro vengono presentati nella semplicità del gesto scenico.
Cemento amato
"Non cerchiamo il cielo:/sdraiamoci a terra/e collaudiamo/la nostra statica umana/e la nostra dinamica divina."
c'è chi trascrive sui fogli quasi come se versasse in un bicchiere un liquido che dopo aver bevuto rimane ancora sete, scrive Ivan, in una mia impropria parafrasi, e ci sono poeti che impastano parole come se fossero giocattoli di un gioco diverso dalla vita meschina che poi loro vivono. Il gioco della poesia e il gioco delle parole, insieme alle immagini, al chiedersi se "riuscirai a vivere/a forma di emozioni e sentimenti,/anche senza un sicuro orizzonte?"
Con la domanda che noi tutti ci facciamo da soli o in compagnia, in rapporti sbilenchi oppure certi, Ivan ci dà Buone Notizie.
Felicissima di aver incrociato lo sguardo buono di Ivan una sera alla Ubik di Catanzaro, ho appena dato 10 con lode alle sue poesie dolci e ironiche dal regno della Litweb
Ippolita Luzzo
Ivan Talarico: Autore, cantautore e attore, vive a Roma. Ha fondato la compagnia teatrale DoppioSenso Unico con Luca Ruocco, mettendo in scena 5 spettacoli tra il 2005 e il 2015.
Ha collaborato con lo scrittore Claudio Morici nella realizzazione di reading e spettacoli.
Nel 2014 la casa editrice Gorilla Sapiens ha pubblicato il suo primo libro di poesie "Ogni giorno di felicità è una poesia che muore".
Nel 2015 ha vinto il premio per il miglior testo a Musicultura con la canzone "Carote d'amore".
Nel 2016 è stato ospite al Premio Tenco
domenica 5 febbraio 2017
Toghe Rosso Sangue di Paride Leporace
Un giornalista di frontiera così Gian Lorenzo Franzì presenta agli alunni e alla Dirigente nella sala convegni dell'Istituto Tecnico Valentino De Fazio di Lamezia Terme Paride Leporace. Un giornalista di grande sensibilità difficilmente in uno schema, in un ruolo.
Un anarchico in senso positivo, un amante della libertà, Paride Leporace che inizia e termina il suo intervento con l'esortazione "Ricordare è resistere"
Suo compito fu allora nel 2008 indagare sulla memoria dei giudici uccisi e di cui si era perso il ricordo, in una Italia che, stante ai numeri, non era un paese normale, anzi sembrava quasi un paese sudamericano. Numeri di guerra civile attraversarono gli anni di cui si occupa nel libro Paride Leporace, numeri da brividi.
Indagare la memoria dunque per essere saggi, per capire gli sbagli, per imparare e conoscere. Riflessione necessaria, puntualizzò la Dirigente, in una scuola poliedrica che deve inseguire le potenzialità degli alunni.
Nel mio pezzo e nel parlare di Paride trovo quella consonanza di significati che vanno dal messaggio, fatto proprio lunedì sera a Paride, del figlio del giudice scomparso Paolo Adinolfi al mio inconsapevole cucire il filo del discorso proprio sulla figura di un giudice scomparso per sempre ad un uomo che ora testimonia quel sacrificio.
Nei venti anni della nascita di Città del Sole, la casa editrice che lo ha ristampato, ci piace pensare che un libro vive perché ha un senso e che questo libro sarà portato sulle scene di tanti teatri italiani per resistere ricordando.
Da Città del Sole Edizione "Pubblicato per la prima volta nel 20 dalla Newton Compton, il libro esce in una nuova edizione rivista e ampliata alla luce delle nuove risultanze investigative con la casa editrice Città del Sole. Tra il 1969 e il 1994 sono stati ventisette, di cui uno scomparso, gli uomini di giustizia che hanno perso la vita perché hanno scelto di fare bene il loro dovere"
Nel maggio del 2011, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano decideva per la Quarta giornata della memoria fissata nel giorno della morte di Aldo Moro, di omaggiare tutti i magistrati con un opuscolo "Nel loro segno" contenente ampi passi di questo libro.
Un libro che dovrebbe essere studiato come testo scolastico e che oggi vorrei presentare unendo il primo ed ultimo episodio.
Voglio ricordare uno stesso episodio che fa da collante al libro.
Nel pomeriggio di settembre del 1970 il giornalista Mauro De Mauro va a parlare col procuratore Scaglione per dare delle rivelazioni importanti. Tornato al giornale "L'Ora" di Palermo, il giornalista disse al collega di sentirsi sollevato. Sparirà dopo pochi giorni. Il 5 maggio del 71 verrà ucciso il procuratore Scaglione portando con sé il segreto di cosa De Mauro gli abbia raccontato.
Inizia e termina nello stesso modo il libro.
Paolo Adinolfi magistrato chiamato a gestire un fallimento a Roma, rivela anche lui di essere in possesso di documenti che avrebbero fatto crollare il Tribunale di Roma e presenta denuncia di irregolarità alla Procura Della Repubblica.
Sparirà e quel che ci resta di questa lettura civile e sofferta è quello straniamento che prende nel vedere di quante nebbie sono avvolte i Palazzi della Giustizia e di quanto lavoro abbiano fatto alcuni giudici per diradarle ed altri giudici per crearle.
Giudici che indagano e condannano e giudici che assolvono e tolgono condanne, (famoso il giudice Carnevale, della suprema Corte di Cassazione), rendendo vano il lavoro precedente.
Una tela di Penelope in cui persero la vita coloro che, trovandosi nella situazione di decidere, non volsero la testa, ma applicarono le leggi. Non sono eroi i giudici morti, sono vittime, prima che della violenza, dell'isolamento in cui dovranno lavorare.
C'è un altro grande tema che attraversa tutto il libro ed è quello della fiducia, fiducia che permette lo svelamento della verità, fiducia riposta da alcuni giudici nelle istituzioni, fiducia riposta da alcuni cittadini nei giudici, fiducia che Rita Atria riponeva in Borsellino e vede saltare in aria quel giorno di luglio de 1992 e anche lei si suicida oppure la suicidano buttandola da un balcone. Ed anche Borsellino gli ultimi giorni della sua vita dirà" Qualcuno mi ha tradito"
Storie di sangue e di veleni, storie che ci consegnano una Italia sempre più triste e senza fiducia, eppure nonostante questa grande tristezza il sangue di questi giudici sembra chiedere sempre quella verità che ci renderà liberi, in uno Stato che abbia a cuore la moralità e la politica strumento di utilità sociale.
Una conoscenza importante quindi di come siano esistiti tra noi uomini di cui essere fieri, che non ebbero una vita facile all'interno del loro stesso luogo lavorativo, che furono anche osteggiati e che però continuarono a perseguire i loro obiettivi anche ben consci dei pericoli che correvano.
"Tieni un diario", consigliava Rocco Chinnici a Falcone e teneva una agenda scomparsa il giudice Borsellino ed ognuno di noi dovrebbe tenere un diario dove annotare ciò che potrà essere importante come difesa. Nella grande confusione che sono i confini non netti fra illegalità e legalità, fra collusione di politica, voti e mafia, guardiamo a questi esempi di giudici in silenzio quasi religioso onorando una memoria che ci appartiene.
Ippolita Luzzo
Paride Leporace Presidente della Lucana Film Commission. Ha fondato «il Quotidiano della Calabria» e «Calabria Ora». Ha dedicato numerosi reportage a eclatanti casi di cronaca nera italiana.
Un anarchico in senso positivo, un amante della libertà, Paride Leporace che inizia e termina il suo intervento con l'esortazione "Ricordare è resistere"
Suo compito fu allora nel 2008 indagare sulla memoria dei giudici uccisi e di cui si era perso il ricordo, in una Italia che, stante ai numeri, non era un paese normale, anzi sembrava quasi un paese sudamericano. Numeri di guerra civile attraversarono gli anni di cui si occupa nel libro Paride Leporace, numeri da brividi.
Indagare la memoria dunque per essere saggi, per capire gli sbagli, per imparare e conoscere. Riflessione necessaria, puntualizzò la Dirigente, in una scuola poliedrica che deve inseguire le potenzialità degli alunni.
Nel mio pezzo e nel parlare di Paride trovo quella consonanza di significati che vanno dal messaggio, fatto proprio lunedì sera a Paride, del figlio del giudice scomparso Paolo Adinolfi al mio inconsapevole cucire il filo del discorso proprio sulla figura di un giudice scomparso per sempre ad un uomo che ora testimonia quel sacrificio.
Nei venti anni della nascita di Città del Sole, la casa editrice che lo ha ristampato, ci piace pensare che un libro vive perché ha un senso e che questo libro sarà portato sulle scene di tanti teatri italiani per resistere ricordando.
Da Città del Sole Edizione "Pubblicato per la prima volta nel 20 dalla Newton Compton, il libro esce in una nuova edizione rivista e ampliata alla luce delle nuove risultanze investigative con la casa editrice Città del Sole. Tra il 1969 e il 1994 sono stati ventisette, di cui uno scomparso, gli uomini di giustizia che hanno perso la vita perché hanno scelto di fare bene il loro dovere"
Nel maggio del 2011, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano decideva per la Quarta giornata della memoria fissata nel giorno della morte di Aldo Moro, di omaggiare tutti i magistrati con un opuscolo "Nel loro segno" contenente ampi passi di questo libro.
Un libro che dovrebbe essere studiato come testo scolastico e che oggi vorrei presentare unendo il primo ed ultimo episodio.
Voglio ricordare uno stesso episodio che fa da collante al libro.
Nel pomeriggio di settembre del 1970 il giornalista Mauro De Mauro va a parlare col procuratore Scaglione per dare delle rivelazioni importanti. Tornato al giornale "L'Ora" di Palermo, il giornalista disse al collega di sentirsi sollevato. Sparirà dopo pochi giorni. Il 5 maggio del 71 verrà ucciso il procuratore Scaglione portando con sé il segreto di cosa De Mauro gli abbia raccontato.
Inizia e termina nello stesso modo il libro.
Paolo Adinolfi magistrato chiamato a gestire un fallimento a Roma, rivela anche lui di essere in possesso di documenti che avrebbero fatto crollare il Tribunale di Roma e presenta denuncia di irregolarità alla Procura Della Repubblica.
Sparirà e quel che ci resta di questa lettura civile e sofferta è quello straniamento che prende nel vedere di quante nebbie sono avvolte i Palazzi della Giustizia e di quanto lavoro abbiano fatto alcuni giudici per diradarle ed altri giudici per crearle.
Giudici che indagano e condannano e giudici che assolvono e tolgono condanne, (famoso il giudice Carnevale, della suprema Corte di Cassazione), rendendo vano il lavoro precedente.
Una tela di Penelope in cui persero la vita coloro che, trovandosi nella situazione di decidere, non volsero la testa, ma applicarono le leggi. Non sono eroi i giudici morti, sono vittime, prima che della violenza, dell'isolamento in cui dovranno lavorare.
C'è un altro grande tema che attraversa tutto il libro ed è quello della fiducia, fiducia che permette lo svelamento della verità, fiducia riposta da alcuni giudici nelle istituzioni, fiducia riposta da alcuni cittadini nei giudici, fiducia che Rita Atria riponeva in Borsellino e vede saltare in aria quel giorno di luglio de 1992 e anche lei si suicida oppure la suicidano buttandola da un balcone. Ed anche Borsellino gli ultimi giorni della sua vita dirà" Qualcuno mi ha tradito"
Storie di sangue e di veleni, storie che ci consegnano una Italia sempre più triste e senza fiducia, eppure nonostante questa grande tristezza il sangue di questi giudici sembra chiedere sempre quella verità che ci renderà liberi, in uno Stato che abbia a cuore la moralità e la politica strumento di utilità sociale.
Una conoscenza importante quindi di come siano esistiti tra noi uomini di cui essere fieri, che non ebbero una vita facile all'interno del loro stesso luogo lavorativo, che furono anche osteggiati e che però continuarono a perseguire i loro obiettivi anche ben consci dei pericoli che correvano.
"Tieni un diario", consigliava Rocco Chinnici a Falcone e teneva una agenda scomparsa il giudice Borsellino ed ognuno di noi dovrebbe tenere un diario dove annotare ciò che potrà essere importante come difesa. Nella grande confusione che sono i confini non netti fra illegalità e legalità, fra collusione di politica, voti e mafia, guardiamo a questi esempi di giudici in silenzio quasi religioso onorando una memoria che ci appartiene.
Ippolita Luzzo
Paride Leporace Presidente della Lucana Film Commission. Ha fondato «il Quotidiano della Calabria» e «Calabria Ora». Ha dedicato numerosi reportage a eclatanti casi di cronaca nera italiana.
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