martedì 19 gennaio 2016

Cade la terra Carmen Pellegrino

Cade la terra: l'abbandono che sta in noi.
Ringrazio Carmen Pellegrino per aver scritto "Chiamateci per cambiarci i destini" di uno, di tanti. Dal luogo, Alento, un luogo lento, che lentamente si sfa.
Nei nostri paese. Nel mio paese.
Dal mio abbandono quotidiano vedo il palazzo del marchese D'Ippolito, tradito da nuove aperture e calcinacci, il barocco infestato da erbacce, il cornicione pericolante sopra l'ala del palazzo che toccò a mia nonna, figlia di marchese anch'essa. 
Una nobiltà, che aveva già sciupato quel che c'era da sciupare, ha poi vissuto con l'abbandono del tempo, della vita e dello scorrere degli eventi. Abbandonati.
Se i nostri paesi hanno subito l'affronto del cemento, prima avevano vissuto la sciatteria dell'aristocrazia che non sempre fu così, visto che avevano pur creato questi palazzi  ora  sbriciolanti ogni dì.
Scrivere di tutto questo sembra anacronistico, eppure ci servirà leggere questa storia romanzata per aggirare il fastidio di studiare i tanti saggi di antropologi. 
Studi interessanti come  "Il Senso dei luoghi" di Vito Teti:Contro ogni apparenza, i luoghi abbandonati non muoiono mai.  
"Maledetto sud" scrisse Teti,  ma dappertutto incombe questa fine e questa poca attenzione a quel che poi ci portiamo dentro.
Le cellule della nostra combinazione.
Siamo tutti con Estella, al suo tavolo imbandito.
Guardiamo i piatti, preparati dal destino.
Siamo tutti con Marcello, nel suo rifiuto a crescere, a mangiare ed a vestirsi.
Il rifiuto ad amare e ad impegnarsi.
A scappare per salvarsi nel paese che non c'è.
Cade la terra, mi ricorda i giochi che non ho mai fatto, il nascondino ed il girotondo.
Chiama i morti, se vorrai, tanto i vivi non ci sono.
Poi sul foglio potrai vivere la più bella fantasia.
Come Estella, con Marcello e con Libera, ci diciamo tutti insieme che per tutti, lo sappiamo, un'altra pagina è possibile.
Basta girare il foglio, del destino.




Cade la  terra. Stralci di lettura da cui non voglio allontanarmi.
In volo.

«Chiamateci per farci indossare abiti di vento» ha detto poco fa Consiglio Parisi. «Chiamateci per cambiarci i destini.»

“Subito mi chiedo quale sia la storia che raccontiamo. Una storia di esclusione, senza dubbio, ma anche di vite dissipate, trascorse senza gridi, senza gesti. La storia di una chioccia che dorme per anni sulla cova e trova i figli tutti morti. Essi ne parlano come di una storia di penitenza, a cui però non segue alcun pentimento.”

“Quando cominciai a scrivere questo romanzo volevo raccontare la storia di Roscigno Vecchia e della sua ultima abitante – e in parte ho attinto a fonti specifiche, a una specifica geografia – ma poi ho preferito che Alento rappresentasse non soltanto un determinato borgo abbandonato, che racchiudesse più di una storia di solitudine. Le case che marciscono in silenzio sono per me una dimora provvisoria, un posto in cui stare, anche solo per poco. Sono nata in uno di quei luoghi scampati dove il passato e il presente si toccano, è infatti sufficiente attraversare una strada per ritrovarsi davanti a un casolare diroccato. Io stessa ho vissuto in una grande casa che mi dirupava addosso, negli anni informi in cui si hanno tutte le possibilità davanti, oppure non se ne ha nessuna. Immersa com'ero nel silenzio, varcavo spesso la soglia di una casa abbandonata e immaginavo il ritorno di quelli che l’avevano abitata. Quasi sempre cambiavo loro i destini.”

Tremeranno guardandosi gli ospiti seduti al desco

 " Ogni povera cosa a un certo punto ha cominciato a parlarmi, a fare clamore dentro il gioco della memoria, perché non è mai bastata a nessuno la sola volontà. Così, risuscito a uno a uno i gesti e i volti, e mi compiaccio ogni volta nel ritrovarli tanto carini e educati. Occorre tempo e una specie di distacco per decidere quali risuscitare e quali no. Certo quelli che mi son venuti in sogno, quelli sì. Per gli altri si vedrà. E non vale se si sono nascosti dietro una porta o nei cretti di un muro maestro, con quei piccoli furbi gridi «C’ero e non mi hai visto». Onestà, cari morti, onestà, o perlomeno un po’ di riguardo per noi solo abbastanza morti”

Andando in un’aria di vetro

"Il funerale fu bello, pieno di presentimento d’eternità mescolato ai fiori. Sulla bara fu adagiato un berretto con un bellissimo gallone d’oro sul davanti, e tutti notarono come il giallo del gallone si sposasse bene con il legno di pino."

Zona di guerra, 18 ottobre 1918
Caro padre,
qui siamo in pieno inverno, piove e nevica, freddo a tutta forza, ma credo che si stia meglio qua che da voi, data l’epidemia che corre e i pericoli della frana. Dite che è crollato un negozio. Pazienza. Sempre allegro e mai sgomento, siate più tranquillo: si è diventati gagliardi guerrieri, da dirlo a fronte alta, non più imboscati. 
Antonio

“Parlavano di noi ma con parole che ci tolgono ogni riposo» interviene Libera Forti, mentre si scuote leggermente come percorsa da un freddo, per cui si avvolge nello scialle di lana. «Questi loro ricordi non ci concedono tregua, ci spossano. Ma guardate cosa faccio con la boccetta che ho qui davanti» e unendo il pollice e l’indice in una specie di cerchio avvicina la mano al vetro, poi schiocca il colpo con l’indice: l’ampollina schizza lontano come una biglia, frantumandosi in volo.”

domenica 17 gennaio 2016

L'allegria di esserci. Giorgio Lupattelli al Marca

L'allegria di esserci ancora, malgrado i fastidi di un corpo che danza con le tante molecole colorate dei farmaci. L'allegria dell'arte che ci colora attimi, giorni e secoli, nel continente uomo.
Dai collage ai plastici e ai  murales, alle linee di una Guernica che abbaglia, al dinosauro che ci accoglie dal dì che storia divenne il nostro apparir sulla terra, andiamo.
Siamo al Marca di Catanzaro per Giorgio Lupattelli. Conferenza esplicativa super affollata, ed io non riesco ad entrare.
Pubblico sciamante intorno a Giorgio su, nelle sale, e raccolgo da lui   solo la storia dell'elefante che si piega lentamente addormentandosi, da una canzone che mi avrà detto, alla storia di Mac, il suo cane, raccontata in un video. Il cane, lentamente si addormenta. Potrebbe morire, o almeno, il morire potrebbe essere con lo stesso, lento, abbandono del corpo, del movimento.
Questo mi dice Giorgio, allontanandosi per accontentare una signora con una foto insieme.
La morte ed il sonno sono simili, penso io. anche il silenzio. Morire è il silenzio. La sfida al silenzio è un duello continuo. L'arte è la spada, continuo a pensarlo. Questa la forbice con cui si tagliò il nastro. Mac sorveglia.

Quello che però ho ricostruito nella mia testa sta tutto nelle canzoni di Lucio Dalla, Piazza Grande, Quale allegria, negli infusi del port, quella vena succlavia che beve e beve una pozione magica, in Spiderman, in Rita Levi Montalcini, L'asso nella manica a brandelli. La vecchiaia è complicata, dice mia mamma al telefono.
Vivere è complesso, ridendo le rispondo. Poi chiedo" E Il piede?" e lei, pur rallegrata di averlo il piede, mi risponde che non l'ha neppur guardato.
Tutti i colori di Giorgio Lupattelli al Marca sono un grande saluto a noi, al mondo che ci piace, tanto, tantissimo, ancora di più, se percepiamo la caducità, del  cane, del dinosauro, della mente.
Una sensibiltà che potrebbe implodere, dice con me Vittorio Pio, oppure esplodere.
Meglio sarebbe lasciarla andare su tela, pannelli, su braille in ceramica e riderne ancora una volta di più.
Dovrò venire a fine mostra per vedere il ponte che lui costruirà con i mattoncini lego, quel ponte sull'acqua, quel ponte tra noi, che si chiama amicizia. Partendo tutti insieme dall'altra parte della luna con lo sputnik della fantasia. 

giovedì 14 gennaio 2016

Gli Occhi Magri. Walter Sabbatini. Miracolosa medicina

Nella quarta di copertina leggo" Nel tentativo di ritrovare la partitura che la sua mente ora salmodiava con ingannevole eleganza" si sarebbe impegnato alla ricerca di quella voce.

 "La Voce Del Silenzio" 
Volevo stare un pò da sola 
per pensare e tu lo sai 
ed ho sentito nel silenzio 
una voce dentro me 
e tornan vive troppe cose 
che credevo morte ormai 
e chi ho tanto amato 
dal mare del silenzio 
ritorna come un'onda nei miei occhi 
e quello che mi manca 
nel mare del silenzio 
mi manca sai, molto di più. 

Mentre le voci dei tanti cantanti, dopo Mina, si susseguono nella mia stanza, resto con il libro di Walter in mano, che sta cantando insieme. 
quella voce che lui ci confessa di  cercare con fatica, setacciando riga per riga, pagina per pagina," come se gli mancasse proprio quella musica lì, il totem di ogni miracolosa medicina, la musica che gli mancava." Lui lo dice, io non mi sono accorta della fatica, ho apprezzato la facilità del suo scrivere suggestionante,  e noi sappiamo che, se un esercizio difficilissimo sembra facilissimo, e perché atleta bravissimo è.

Ci sono cose in un silenzio 
che non m'aspettavo mai, 
vorrei una voce 
ed improvvisamente 
ti accorgi che il silenzio 
ha il volto delle cose che hai perduto 
ed io ti sento amore, 
ti sento nel mio cuore 
stai riprendendo il posto che 
tu non avevi perso mai

Sono sicura che lo scrittore abbia invece perfettamente la sua musica, l'abbia suonata nelle pagine e pagine del suo racconto, che oltrepassando le parole suonava una melodia. 
Nel libro di Walter "Sono la loro solitudine" Dice Amalia. I calabroni ronzano e la trama ha il ronzio, e poi gli spiriti delle foglie gialle che al primo segno di invecchiamento delle foglie andavano via, senza spiegazioni, senza salutare.
 Ho fatto moltissime orecchiette a questo libro, ed a pag 263 ho capito perché.
Quel diventare poema il non essere al mondo. Il restarsene come un pezzo di legno. Come Bart " Stare senza il mondo". Il non voler far nulla. 
Troveremo quella chitarra anche noi nel fiume della vita, Walter, così  come la trova Franco, troveremo la musica per suonare la vita. 
Lo dico dal nulla da dove abito.
oggi leggendo Gian Paolo Serino scriveva proprio che ogni lettore mentre parla del libro debba dire come sta, dov'è.
La Trattoria di Amalia mi sarebbe piaciuta,  col profumo di cibi che ora mi arrivano dalla mia cucina. Le "pastille" di castagna bollite, il cavolo verza a stufare con il suo odore dolce, ed il canto della campagna. Rabelais e la letteratura ringraziano Walter Sabbatini per il suo omaggio. Sono sicura che cibo e musica profumeranno librerie e cucine, sono sicura che Walter ha già trovato in sé la miracolosa medicina chiamata fiducia. Fiducia nel potere della letteratura che ci renderà vivi

ci sono cose in un silenzio 
che non m'aspettavo mai, 
vorrei una voce 
e improvvisamente 
ti accorgi che il silenzio 
ha il volto delle cose che hai perduto

Ma non si perde nulla nel libro Gli Occhi Magri di Walter perchè  

stai riprendendo il posto che 
tu non avevi perso mai 

martedì 12 gennaio 2016

"Strade Perdute" col Patrocinio del Comune portano il cinema a scuola.


Evviva...
Da molto tempo questa stanza 
Ha le persiane chiuse. 
Non entra più luce qui dentro 
Il sole è uno straniero. 
L'orologio della piazza 
Ha battuto la sua ora. 
E' tempo di aspettarti, 
E' tempo che ritorni, 
Lo sento sei vicina, 
E' l'ora del cinema...


Sono invitata alla conferenza stampa che Gian Lorenzo Franzì, presidente dell'associazione" Strade Perdute" tiene oggi con i rappresentanti politici, Sindaco, assessore ed addetto stampa del Comune cittadino, per informare la cittadinanza,  gli organi di stampa e televisivi, della sua iniziativa patrocinata dal Comune.
Vado in anticipo e mi rallegro degli arrivi, dei saluti, con Luisa Vaccaro, Luca Scaramuzzino e con Giuseppe Maviglia, giornalista della Gazzetta del sud, che arriva, come me, puntualissimo. 
Intanto che mi saluto e mi complimento con Gian Lorenzo Franzì, collaboratore di più magazine di cinema nazionali e presidente questo anno al Festival di Venezia per Fipresci, arrivano la televisione, City One, ed i fotografi Strangis e Rochira. Evviva, Intanto la Stampa si posiziona sul tavolo rosso ed io vado nelle prime file destinate al pubblico. Posto centrale. 
Un abbonato ha sempre diritto alla prima fila, era una pubblicità di un tempo. 
Intanto i dettagli. La lunga e bella amicizia fra Gian Lorenzo ed il sindaco, che ricorda un ragazzino di cinque anni, portato in trasferta a Sorrento per una partita, quando già il suddetto bimbo amava il cinema.
Da qui riparte Gian Lorenzo per dire che bisogna iniziare a far amare il cinema da piccoli ai piccoli, quindi far andare al cinema gli alunni di ogni ordine e grado. 
Saranno informati i responsabili degli istituti, i docenti, le famiglie e il progetto inizierà a primavera, solcando come l'albatros, il nostro immaginario di cinefili. 
Nel mentre che "L'armata Brancaleone", con Branca Branca Branca Leon Leon Leon,  appena evocata da Gian Lorenzo come film che lui spiegherà ai ragazzi, si srotola nella mia mente e la pellicola, rimasta impressa da allora, riprende a vivere, io auguro a "L'ora di cinema", sotto la direzione artistica di Gian Lorenzo, molte ore così
E' tempo che ritorni, 
Lo sento sei vicina, 
E' l'ora di cinema. 

Il vuoto della vita 
E' grande come il mare. 
Da quando se n'è andata 
Io non l'ho vista più. 

E' lei che mi manca 
E' lei che non c'è più. 

L'orologio della piazza 
Ha perso la speranza. 

Io no che non l'ho persa, 
io aspetto che ritorni, 
ti sento sei vicina, 
è l'ora del cinema




Beppe Calabretta Il mastro Il sigaro e la sedia

Giuseppe Calabretta.

Una punteggiatura così non la leggevo da tempo. Così curata, voglio dire, così attenta.  Credo che la cura emerga da tutto il romanzo. Cura e attenzione dell’editore, Andrea Giannasi, che conosco, so con quanto amore e dedizione si dedichi ai libri, alla rivista, alle tante iniziative che porta per la penisola: I festival letterari, i premi.
La stessa cura che si percepisce negli autori che lui sceglie. Autori attenti, innamorati della parola, del gesto dello scrivere e rispettosi del racconto.
Così nel leggere il romanzo calabrese di Giuseppe Calabretta “ Il Mastro il sigaro e la sedia” apprezzo questa cura formale del bel dire, del raccontare con una punteggiatura che, nonostante elimini i segni di interpunzione per il discorso diretto, proprio per questo diventa personaggio.
Perché manca.
I dialoghi si susseguono, senza scansione, fra parlante e narratore con il dialogo continuo che l’autore fa con noi, e sulla scena del romanzo fanno i personaggi. Doppio dialogo. 
Noi con lui. Il lui che  narra di Andrea e di Vincenzo. 
Narra di un paese immaginario, il paese del suo ricordo, narra un pezzo di storia che arriva al 2012, quando il 14 luglio, seduto sulla sua sedia, il sigaro si spegne. Ha cento anni.
Narra la storia Vincenzo, il ragazzo che, a nove  anni, va a lavorare nella bottega di Mastro Andrea, imparando, attraverso lui, il sigaro, la sedia e la storia.
“Il maestro falegname non era ignorante. Il padre, unico bigotto del paese, aveva una concezione estrema dei principi religiosi." 
Quindi questo padre decise di far andare il suo ultimogenito, Andrea, a scuola dai Padri caritatevoli, per diventare prete.
Ma  il terremoto del 1908 trasformerà la vita di Andrea, facendo perire padre e fratello  e lui diventerà Il Mastro, dove Vincenzo, a sua volta, imparerà.

Un passaggio di storia da uno all'altro, seguendo una storia verticale che diventa orizzontale, ed è questo, suppongo, l’anello di congiunzione con Patres di Saverio Tavano.  I due libri si cercarono, quasi a voler chiedere uno all'altro qualcosa.
Nel libro teatro di Saverio un padre si allontana da un figlio cieco, ritorna per trasmettere un nulla urlato, qui nel libro di Calabretta, il racconto si snoda lento, silenzioso, i personaggi sembrano immobili nel momento della narrazione e rimangono ad ascoltare il fiume degli eventi, nel silenzio di un sud  che si chiama Vela. Alza le tue vele, era la canzone di Bertoli, una canzone che presuppone il vento.
 Il vento che debba fischiare e fischiare ancora in un sud  visto nel film di Fabio Mollo” Il sud è niente” Senza lasciare traccia… dice l’autore nella sua nota.
La seconda metà dello stesso secolo, ed i primi anni di quello presente, scivolati via quasi senza lasciar traccia.
Nel sud del silenzio posso percepire quello che  mi sembra una mancanza nel ritmo del libro. Forse voluta. Un registro narrativo su un tono sempre uguale, un  tempo lento. Del villaggio. 
Ippolita Luzzo 

sabato 9 gennaio 2016

Mio padre compie oggi novantuno anni

Novantuno anni. 
Lui diceva spesso che suo nonno era vissuto novanta anni e più senza conoscere un dottore, senza farsi una puntura. La prima puntura gliela fecero a novanta anni. E lui scherzando disse che lo avevano sverginato! 
Non conosco questo nonno di mio padre, come potrei? se non per questo e altri aneddoti lontani. Fatto sta che mio nonno era convinto di vivere molto, almeno quanto il suo papà ed invece morì giovane, a settanta anni, sorpreso dello scherzo che la sorte gli faceva. 
Mio padre invece che non aveva tutto questo interesse a vivere ha oltrepassato la novantina perdendosi ogni giorno qualcosa del giorno prima. 
Nella terribile decomposizione della vecchiaia. 
Due ingiustizie. 
Mio nonno morto con la voglia forte di vivere e mio padre invece  questo lungo protrarsi di un soggiorno in lui che non ha da tempo avuto mai interesse a continuare. 
Non comandiamo noi 
Ippolita Luzzo 

mercoledì 6 gennaio 2016

Demetrio Paolin Non fate troppi pettegolezzi

Demetrio Paolin
Non fate troppi pettegolezzi: La lezione di Paolin.
Nella Torino dal color viola
Quando manca il motivo per continuare, quattro scrittori spezzano la penna, si precipitano dalle scale, si addormentano per l’eternità 
Quattro scrittori tratteggiati nelle linee essenziali, nei contorni, con occhiali, baffi, barba e capelli, sopracciglia, in un viola che ci piace molto. Il viola è il colore della penitenza, del dolore, della tristezza, ma accresce la capacità creativa e la fantasia. Chi ama il viola è amante dell'arte. Con umiltà. 
Demetrio Paolin scrive "La mia dipendenza dalla scrittura: questo è il mio esame di coscienza. Torino, gennaio-novembre 2013" 
Fare lezione a scuola così, con in mano il libro di Demetrio, per dire ai ragazzi che qualcosa dobbiamo pur ricordare 
 "C’è una poesia di Borges ne "L’elogio dell’ombra", in cui lo scrittore argentino immagina Caino e Abele che si incontrano in un ipotetico aldilà. Nessuno dei due ricorda chi ha ucciso chi e sembra che questa smemoratezza sia salvifica per entrambi.Nessuno di noi ricorda tutto, l’oblio serve per discernere alcuni ricordi da altri. Il rischio che si corre sarebbe altrimenti la pazzia"
Nella Torino che non conosco e che conosco così, dal suo descriverla, seguiamo i momenti che lui racconta.
Quattro autori, quattro uomini, alle prese con povertà, pudore e vergogna,  servizio e dono, impossibilità a vivere un momento di più.
Nell'accostarsi affettuoso di Demetrio ai suoi scrittori
c’è un momento in cui anche la scrittura non consola più, è il momento in cui gli editori non ti pagano, in cui il foglio non  dà più gioia e non risponde, nella strettoia del giorno. Allora il rasoio o una pillola o cadere dalle scale sembra unico modo per  spezzare lo stringimento.

EMILIO SALGARI Torino, strada Val San Martino Superiore 27 (25 aprile 1911)
Salgari, l’uomo pulito dell’immaginario semplice, lussureggiante ma corretto. I suoi personaggi onesti vivono in una colorata e profumata natura, combattono nemici certi e cattivi, si fidano e amano. Con responsabilità. Nella costrizione Salgari scrive.
Vi è “una nevrosi da spazi angusti, da costrizione carceraria. Si prendano alcune bestie e le si privi del loro habitat, le si privi della loro dovuta violenza e diventeranno queste cose vuote.”
Questo sentimento di costrizione e di vergogna  si supera con l’immaginazione. Inventa mondi. Ad un certo punto  Salgari sa che la sua storia personale finisce male e “quello di Salgari non è un suicidio, ma un sacrificio: c’è qualcosa di religioso e primitivo nel suo gesto. Sandokan è invecchiato.” atto di resa, ma in grande stile.

CESARE PAVESE Torino, piazza Carlo Felice 60 (27 agosto 1950)
Pavese come Orfeo
Lavorare stanca:” il mito di Orfeo inizia con un viaggio e finisce con un ritiro solitario sulle colline. La dicotomia tra movimento/immobilità” Il movimento però  è simile a quello di chi improvvisamente si volta. Orfeo si volta ed Euridice è immobile e chiara: il tempo pare fermarsi, lui rivede l’oggetto del suo amore. Nel momento in cui appare più viva, lei svanisce come i filamenti delle lampadine prima di bruciarsi, che rilasciano una luce chiarissima, molto più forte del loro voltaggio, una luce finale, che è segno che ogni cosa sta per finire. Così per Orfeo è stata Euridice: un nitore composto e poi nulla più.” Dialoghi con Leucò. 
E mentre Pavese diviene Orfeo "Il sacro rimane a noi lontano, mentre il mistero – sempre quando si è ammessi a esperirlo – ci consente una conoscenza totale, ci fa immedesimare con gli stessi Dei di cui celebriamo il rito."
Tutto l’amore che Orfeo ha per Euridice è un viatico per comprendere che l’uomo è niente. 
In "Il mestiere di vivere" Pavese, nel marzo del 1950, il 25 per la precisione, scrive queste righe: Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla." Ma anche il nulla può dare euforia.
L'euforia del leggere sempre molto simile è.

PRIMO LEVI Torino, corso Re Umberto 75 (11 aprile 1987)
 Se questo è un uomo "una sorta di progressivo spogliamento dell’uomo: Si immagini ora un uomo a cui, insieme alle persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno. L’uovo senza guscio e l’uomo vuoto sono la medesima cosa."
E poi il sopravvissuto ha vergogna "perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: […], no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato […], non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere." Primo Levi, I sommersi e i salvati

Mi disse una mia amica, dottoressa al Sert, che basta pochissimo, un odore, una musica e si è di nuovo ripiombati nell'inferno della droga, dell’alcool, la sirena che trascina i suoi pazienti. Forse lo scrisse Jung. Qui lo leggiamo da Paolin che fa parafrasi da Levi "Via Cigna è la descrizione dell’angoscia dell’essere ancora laggiù nel lager e di come basti un niente affinché tale sentimento venga portato alla luce, grazie a una trama di complessi rimandi interni e citazioni velate."
"il nome – questo Levi lo sapeva bene – è il nocciolo dell’esistenza del mondo, perché la parola è ciò che crea il mondo. Così immagino Levi che durante un noioso venerdì pomeriggio, aspettando il suono della sirena che sanciva la fine del turno, scarabocchia qualcosa su di un quattrino. Prende un foglio bianco e incomincia ad  anagrammare il suo nome e il suo cognome. Per il suo cognome la soluzione più facile è quella di invertire le sillabe. E così facendo da "levi" è passato a "vile". Fuori sta annottando e la sirena ancora non suona, Primo prende il foglio e legge: primo vile" Che cosa triste! sbagliare anagramma 

FRANCO LUCENTINI Torino, piazza Vittorio Veneto angolo via Po (5 agosto 2002)
“Nell’agosto del 2002 Lucentini si butta giù dalle scale del suo appartamento di Torino. Lucentini vive in un bellissimo alloggio in piazza Vittorio Veneto, che è forse la piazza della mia città che amo di più.” 
Venendo meno il dialogo venne meno il motivo “. Per Lucentini succede qualcosa di simile, il dialogo è un prisma che offre diversi punti di vista, mostra incongruenze, perplessità, dubbi e pochissime certezze; il cammino verso la verità non è facile, non è costruito su saldi pilastri, ma appunto è traballante e balbettante come può esserlo un dialogo tra due esseri umani”

“l’ossessione della scrittura come tentativo di riprodurre fedelmente qualcosa che già c’è. C’è stato un tempo in cui la parola era una cosa sola con l’idea e la realtà; nominare e pensare erano la stessa cosa: perché facevano esistere. Poi venne la memoria, e con la memoria venne la letteratura e quella identità si perse. Fu Babele, fummo noi con le nostre povere parole che ci permettono di vedere il mondo e di capirlo come enigma e tramite uno specchio oscuro. La condizione dello scrittore, lo diceva Benjamin nel saggio su Leskov, è una condizione di morente” Al servizio della letteratura: se muore il dialogo muore tutto.
Ippolita Luzzo