martedì 22 dicembre 2015

Discorso di fine anno 2015- A Ciascuno il suo

A Ciascuno il suo
Un anno che completa una cinquina.
Adesso faremo tombola.
Dopo aver trascorso un quinquennio a scribacchiare, aver strappato tutto il pensiero precedente io avessi scritto su fogli, quaderni e diari, aver donato libri, enciclopedie, al sistema bibliotecario lametino, senza aver nemmeno una targhetta, tipo minuscola e con su impresso nome della donante, dopo insomma essermi liberata di cose inestimabili, per me, eccomi qui, all'alba di un nuovo quinquennio. 
Faremo tombola e vinceremo i tanti soldini sul tavolo, faremo tombola e a ciascuno il suo sarà dato.
Dal luogo dove mi trovo voi non potete vedermi, non potete neppure eguagliarmi, voi che siete fatti di carne, di sangue e materia, voi che siete fatti di vere relazioni, case editrici e fiere, stand e convegni, associazioni e cooperative, scuole e giornali.
Voi siete la realtà.
Dal luogo dove mi trovo io posso però vedervi, ammirarvi e leggervi, desiderare di essere come voi, sapendo però che è inutile.
Nessuna realtà ci sarà per me. 
Dal luogo dove mi trovo posso ricevere i vostri libri, i vostri file, le vostre mail, esultare del genio, e sostenere con tutto il mio entusiasmo chi io creda che valga.
Mi sembra un compito che possa alleviare lo sconforto di non possedere quella bellissima bacchetta magica per poter sistemare ogni cosa, raddrizzare i torti e punire i cattivi, eliminare le idiozie, e ghigliottinare il superfluo, la piaggeria. 
A Ciascuno il suo, nel regno della Litweb, gli applausi ai bravi, agli artisti, tanti di voi, che hanno preso premi che valgono, nel cinema, nel teatro, nella letteratura e nel giornalismo. 
A ciascuno il suo 
Ad altri, che non stanno nella Litweb, uno sberleffo per aver accettato premi ridicoli, premi di scambio, io premio te, tu poi premi me, oppure premi di accatto, ti compro con un premio e poi, servo eri, servo resterai. 
Nella disistima più totale verso i molteplici premi cosiffatti, la stima verso i premi vinti da chi è bravo davvero.
Nella Litweb abbiamo già fatto classifica dei libri, una classifica che appartiene al mio modo di stare al mondo. 
Più bella cosa non c’è
A ciascuno il suo

giovedì 17 dicembre 2015

Se tornasse Natale di Giacomo Cacciatore



L’assenza non è tempo né strada.
L’assenza è un ponte fra noi
più sottile di un capello
più affilato di una strada.

Nazim Hikmet, Poesie d’amore, Mosca 1961


Se tornasse Natale, Natale non tornerà.
"Scomparire" è il libro di Claudio Marinaccio,
"Se tornasse Natale" il libro di Giacomo Cacciatore sembra faccia dialogo con l'altro.
Scomparire
Il protagonista, Natale Lo Bianco, Bianco Natale ( lo hai fatto apposta?), scompare, o per meglio dire, viene dissolto. 
Sappiamo del suo destino attraverso l'attesa che suo figlio, di otto anni, consuma nell'auto paterna all'altezza del "corrimano di ferro dello scalone che lega via Roma, la strada grande, più in alto – dove si circola con le macchine – a quella del mercato della Vucciria,
più in basso – dove si vende, si compra e si cammina solo a piedi "
Bruno è lì, in macchina ad aspettare il suo papà, con in mano la torta al profumo dei pinoli abbrustoliti comprata per il suo compleanno. La storia poi prende due cavetti e si accende con Bruno. "Così, alla fine, il figlio di Natale Lo Bianco detto «u mago» stacca e collega i cavi come si deve. La scintilla scocca, il motore canta senza chiave. L’automobile rutta fumo nero verso la scalinata. Via Roma sembra infinita a uno piccolo come Bruno, dentro una macchina così grande, che colleziona sguardi curiosi, ma lesti a dimenticarsi di affari che non li riguardano"
Con lo stile del racconto orale onirico, Giacomo Cacciatore ci presenta i due personaggi dal dualismo perfetto di un divenire vitale per la città.
Bruno, il bimbo supereroe mancato, il mago che con la bacchetta magica di Silvan tenterà di modellare o meglio fare sparire quello che della realtà non piace, e Vicio Miraggio, cantante melodico guastato da un vivere falso ed ora in preda a quella falena che lo perderà per sempre, la donna che ama.
Un miraggio proprio. 
Ho letto con molto interesse il libro di Giacomo, quasi contendendomelo al suo primo apparire.
Quella sua copertina favolosa, quelli della Baldini & Castoldi hanno copertina ipnotizzanti, ricordo sempre" La forma minima della felicità" di Francesca Marzia Esposito, anch'essa stupefacente, però dopo la copertina ci stanno libri dal contenuto ugualmente ipnotici.
In una Palermo che mi sembra di conoscere dal film " Belluscone" di Franco Maresco, dove i cantanti neo melodici sembrano Vicio Miraggio, si aggira Tatti Sanguineti, critico cinematografico, alla ricerca del regista, sparito.
 Un documentario etno-musicologico, il film,  che alterna il ritratto in bianco e nero del più famoso impresario palermitano di cantanti neomelodici, Ciccio Mira, sostenitore  dei vecchi valori mafiosi, alle riprese di concerti di piazza degli idoli locali, Maresco vi  fa capolino con la sua voce stentorea, e ogni tanto entra in scena ed è nostalgia  vederlo in azione, adesso che è sparito. 
A me sembra di vedere Giacomo Cacciatore, al posto di Maresco, girare in bianco e nero un film romanzo che io ho visto scorrere davanti ai miei occhi già in pellicola, pronto ad aver distribuzione in tutte le sale del regno. 
Palermo amata e sciupata, la Palermo che io ho visto una sola volta e con una guida in lacrime che mi mostrava la conca d'oro che non c'era più, sparita, sotto l'assalto  dei costruttori, il sacco di Palermo, e la guida piangeva... dissolto l'oro della civiltà restava il marcio di una vita mala. 
Giacomo Cacciatore racconta e racconta, facendoci amare il piacere di leggere, facendoci amare la pagina scritta, come se, come Bruno, potesse anche lui  "Scuotendo la bacchetta davanti a sé, con furia fosse  convinto di poter tagliare a morte la tristezza.



Vi insegneranno solo a fare Ola

Fra le tante iniziative che nella mia città si vanno svolgendo in occasione delle festività natalizie, cominciate, alcune, con largo anticipo, già a novembre, ci sta il Villaggio di Babbo Natale.
Ne sentivo parlare favoleggiando di biglietto d'ingresso da pagare nel Chiostro di San Domenico, luogo dove studiò Tommaso Campanella e dove ho studiato anche io, al Liceo Classico Francesco Fiorentino.
Ne sentivo parlare e parlare, così, mossa a curiosità, ieri mattina sono entrata.
Le donne, al banco, non mi hanno chiesto biglietto ed io, entrata a sbafo, diremmo, ho potuto deliziarmi della vista.
Le bancarelle erano coperte da drappi e quindi non ho potuto fotografarvi la mercanzia.
Non ho voluto nemmeno fotografarvi quello che vedevo perché troppo irritata dalla deriva che prendono i nostri gesti.
C'erano nel chiostro, in visita, tre scolaresche degli istituti compresivi, sia del territorio che dalla periferia, e le loro maestre guidavano quei bimbetti fra giochi e fotografie. 
Le tre maestre che vidi nello spiazzo aperto erano intente a far video e foto ai bimbetti, immersi nel puro niente saltellante.
Restarono così per tutto il tempo che io impiegai a fare il periplo dell'edificio, mentre palloncini lunghi lunghi, a salsicciotti con palle finali, mi annebbiavano la vista.
Ma forse i palloncini li vidi ad altra manifestazione e si sovrapposero. 
Andai nelle stanze della cultura, e la cultura prese il sopravvento con ninnoli e renne, con immaginario comune al televisivo svolgersi degli eventi culturali che più culturali non si può. E d'altronde le maestre nulla potevano fare di più, nella cultura del nulla merce.
Chiedo scusa a chiunque abbia partecipato a questo scempio, alle bambine e bambini che hanno trascorso ore a guardare il nulla mentre appena sopra le loro testoline stavano i reperti della Terina che ci fondò.
Un degnissimo museo archeologico che avrebbe da dire tanto, anche sul tema del divertimento. 
Intanto che osserviamo stupefatti i nostri pargoli videati e fotografati dalle loro maestre solerti al comando del diktat imperante facciamo ola al bosco e alla foresta nera che avanza, nel letterario dei termini.

martedì 15 dicembre 2015

Natale in casa Cupiello. Luca De Filippo per noi


Per noi Luca De Filippo resta il giovane trentenne che alla domanda del papà, Luca Cupiello, interpretato da Eduardo De Filippo, suo padre anche nella vita,  te piace 'o presepe?, risponde sempre no, per tutto il tempo.
A niente valgono i tentativi  di circuirlo con regali di due cravatte, oppure facendo vedere le tecniche su come avrebbe fatto scendere l'acqua, niente, lui esaspera il padre finché nella rabbia lo caccia di casa. A parole.
Per noi il presepe è sempre la colla da scaldare, i pastori da comprare, sughero, muschio, corbezzoli e la carta argentata, per completare con fiumi e laghi, cielo e stelle il paesaggio su cui pregare.

Per noi presepe, nella commedia al secondo atto, resta  la vestizione dei re magi, quel presepe, quando tutto precipita nella lite e Luca, il capofamiglia e gli altri due, arrivano vestiti da Re Magi
Natale in casa Cupiello, in omaggio a Luca De Filippo che ci ha lasciato  il 27 novembre 2015 all'età di 67 anni, nella sua casa romana.
« Senza mio figlio forse io... scusate... me ne sarei andato all'altro mondo tanti anni fa. E io debbo a lui il resto della mia vita. Lui ha contraccambiato in pieno. Scusate se io faccio questo discorso e parlo di mio figlio. Non ne ho mai parlato! Si è presentato da sé. È venuto dalla gavetta, dal niente, sotto... il gelo delle mie abitudini teatrali. »
(Eduardo De Filippo, al XXX Convegno dell'Istituto del Dramma italiano a Taormina, 15 settembre 1984)
Natale in casa Cupiello 
Tre atti composti dal '31 al '34, via via arricchito di  episodi restando sempre integro l'asse portante del testo: La mistificazione e la rappresentazione. 
Siamo alla vigilia di Natale e una volta il presepe si faceva rispettando i tempi, quindi nell'approssimarsi della festa. 
Nella caparbietà dell'uomo che fa un presepe solo per sé, per divertirsi, così dice, all'inizio del secondo atto infatti Luca Cupiello  confessa  il suo pensiero a Raffaele, il portiere che si domanda fra sé e sè:"Vedete se è possibile che un uomo alla sua età si mette a fare il presepio. So' juta pe' le dicere:-Ma che 'o ffaie a fa'?-Sapete che mi ha risposto:-O faccio pe' me, ci voglio scherzare io!-"
la caparbietà si scontra con l'incomprensione del figlio che non vuole accontentarlo riconoscendo al papà quel divertimento, si scontra con la delusione della moglie di veder questo uomo perdersi in costruzioni futili. 
Nelle giornate, che tanti magari conosciamo, delle inevitabili liti oppure degli  equivoci, che costellano come stelle le riunioni familiari, la domanda sul presepe, se piace il presepe, vuole essere un riconoscimento degli affetti che avverrà solo in punto di morte, quando sembra che l'affetto e la vicinanza prevalga sui giochi egoistici di ciascuno dei componenti. 
Sul finale vediamo Luca Cupiello  (felice che sia riuscito a far fare la pace a Ninuccia e il marito, scambiando uno per un altro, ride soddisfatto) Hanno fatto pace, laggio fatto fa’ pace… Ha visto, Conce’? (a Ninuccia e Vittorio) Voi siete nati l’uno per l’altro. Vi dovete voler bene. Non fate prendere collera a Concetta che ha sofferto assai… (Ninuccia e Vittorio allentano la stretta della mano: ora Luca delirante farfuglia qualcosa di incomprensibile, agitando lentamente il braccio destro come per afferrare qualcosa in aria. E’ soddisfatto, vaga con lo sguardo intorno e chiede) Tommasi’, Tommasi’…
Tommasino (sprofondato nel suo dolore si avvicina al padre mormorando appena) Sto qua
Luca (mostra al figlio il braccio inerte, lo solleva con l’altra mano e lo fa cadere pesantemente come per dimostrare l’invalidità dell’arto. Poi chiede supplichevole) Tommasi’, te piace’ ‘o Presebbio?
Tommasino (superando il nodo di pianto che gli stringe la gola, riesce solamente a dire) Sì

Ottenuto il sospirato “si”, Luca disperde lo sguardo lontano, come per inseguire una visione incantevole: un Presepe grande come il mondo, sul quale scorge il brulichio festoso di uomini veri, ma piccoli piccoli, che si danno un dà fare incredibile per giungere in fretta alla capanna, dove un vero asinello e una vera mucca, piccoli anch'essi come gli uomini, stanno riscaldando con i loro fiati un Gesù bambino grande grande che palpita e piange, come piangerebbe un qualunque neonato piccolo piccolo…

Luca (perduto dietro quella visione, annuncia a se stesso il privilegio) Ma che bellu Presebbio! Quanto è bello!

Con un grande applauso a Luca De Filippo 



lunedì 14 dicembre 2015

Dio non gioca a scacchi e suona da Antonello Anzani

Orazio Garofalo parla del Verbo ed il Verbo è presso Dio. Nel sacro della serata ci stavano le vecchie e le nuove scritture. Litweb e Bibbia salutano i partecipanti.
Nelle vesti di Antonello Anzani, perfetto Dio Michelangiolesco della Cappella Sistina.
Una serata a Cosenza, dove io sono stata invitata per una incursione su un tema musicale, il ritmo del romanzo, dolce o crudele, amaro dovremmo dire, in antitesi al dolce ci sta solo l'amaro? 

La serata, condotta ed ideata da Gianfranco Labrosciano, presentava una artista che di secondo nome faceva Fiammetta e, come una fiamma intensa e appassionata, ci parlò dei suoi quadri in esposizione, dei duemila quadri lasciati dal suo papà, del suo amore per la pittura.
Mentre parlava tremava ed io pensai, ora è troppo, ci muore qui, ed invece con la presenza di Gianfranco che la rassicurava, finì suo dire e dipingere parole come se avesse fatto un quadro di visioni nell'aria.
Difficile tornare nella terraferma dopo di lei.
Viaggiammo infatti a ritroso, mia cronaca è proprio a ritroso, dalla fine verso l'inizio, viaggiando come Matilde, protagonista del libro di Daniela, viaggiando con lei, sui ponti del nostro immaginare.
Commistione fra quadri, musica e libri, al violino di Pasquale Allegretti con Capriccio numero 24 di Paganini, all'arpa di Rosalba,  e ritorno su Orazio,  Stefania e Giuseppe Perrone.

 Ritorno ad Antonello Anzani e il suono del vivere. La musica usata per sedare o per ribellarsi. 
Le frequenze
432 rilassarsi
440 nervosismo
rispondenza fisica alla musica, ed io direi a tutto, anche alle parole. Se leggo un libro senza ritmo io mi ammalo. Mi viene mal di stomaco.
Se sento un parlare vano mi viene mal di testa.
Se suoniamo, vibriamo, nell'elettricità, scambi di sinapsi e tutto torna. Anche il libro vibra, non di emozioni, avrei voluto io gridare ieri sera, no, di liberazione. Certo ci sta tutto il momento intenso, tutto, però se suoniamo, parliamo, cantiamo e scriviamo vogliamo liberare l'energia che possediamo. 
Evviva evviva questo spazio bianco che mi permetterà di dirvelo ancora. Evviva evviva Alberto Badolato, che ha reso possibile  il ponte fra me e voi stasera, evviva evviva la musica. 
Forse sarà la musica del mare... 
Ci salverà la musica...
E con tanta musica in testa, compresa quella dell'universo, del silenzio, del testo, del dolore e della gioia, chiudo con le parole di Antonello che ci riportano al testo che ha un ritmo, alle parole delle canzoni. 
Dal testo della serata uno stralcio di un giornale... perché poi, tornata a casa, ho studiato!
Dimenticai dirvi di  Riccardo che mi ha regalato bellissimo disegno sul mio quadernone verde. Lo ha intitolato: Lo SparaNemici



"Risulta estremamente difficile e triste pensare che la musica, che essenzialmente ci fa stare così bene, sia in realtà influenzata da fattori così negativi. L’intonazione a 440 Hz, alla quale siamo oramai assuefatti, è invece praticamente innaturale, crea disarmonie difficilmente percettibili dagli esseri umani, ha poche armoniche ed evidentemente non è stata scelta casualmente come intonazione standard. Scoperta dall'intelligenza militare tedesca e usata durante l’olocausto, anche per spronare al lavoro più arduo nei campi di concentramento. I tentativi di ritornare al La verdiano sono inevitabilmente falliti. La differenza tra le due frequenze si ritrova anche a livello fisico. Basta osservare le forme che si vengono a creare  comprendendo che 432 Hz esse sono decisamente più armoniche. Fortunatamente esistono ancora degli artisti (anche se veramente molto rari) che compongono la loro musica con un’intonazione a 432 Hz. Tra questi non possiamo non citare i Pink Floyd che, specialmente in The Dark Side Of The Moon, possono darci un esempio lampante della differenza tra le varie frequenze.

I 432 Hz compongono quella che viene chiamata Love frequency e che fa parte di ciò che si trova alla base della natura, dell’universo, della filosofia portata avanti da diversi studiosi (tra cui Platone). È collegata al chakra del cuore, quello del sentimento, mentre i 440 Hz vengono ricollegati al chakra che si occupa del… controllo del cervello."

giovedì 10 dicembre 2015

Alessandro Iovinelli. La scala d'oro

Nato il 17/09/1957 Alessandro Iovinelli è del mio segno zodiacale, per quel che può significare, un quasi mio coetaneo, essendo io del 13 settembre del 54 
Scrivo sempre questa storia del segno zodiacale perché sono moltissimi gli scrittori nati a Settembre, come se il mese, oltre che per l'autunno e la stagione della semina, fosse il mese della scrittura.
Naturalmente è una mia fissazione, smentita da chissà quanti altri scrittori di altri mesi. 
Alessandro Iovinelli: La scala d'oro
Sette racconti per una raccolta. Si raccolgono i pensieri per donarli come fiori.


Giuseppe Antonelli nella prefazione scrive  “Perché in questi racconti si alternano luoghi e personaggi diversi – è vero – momenti di felicità e sentimenti di perdita, però c’è un unico protagonista che resta sempre in scena e dà il tono a tutto il resto. La letteratura. La lettura come strenua forma di interpretazione della realtà: leggo dunque penso. E, ancor più, «la scrittura come forma irriducibile dell’essere»: scrivo dunque sono.” “Nondimeno, Alessandro Iovinelli decide di correre ancora una volta il rischio, lasciando la scena al suo Doppelgänger: un personaggio che vive la letteratura come un’infinita illusione senza lieto fine e racconta la sua vita come un saggio narrante.”  Adorabile la bella ironia con cui  ci racconta di Kirsten Dunst e del suo manoscritto come libello amoroso

Alessandro Iovinelli: Saggio come aggettivo qualificativo e come sostantivo concreto. Colui che sa.
Uno stocco al suo interno- Leggo la storia del teatro Ambra Jovinelli raccontato da lui che lo vide come patrimonio di famiglia, da lui che, bambino, guarda quel nonno alto e forte con un bastone con cui difendersi. Uno stocco al suo interno. Lo stocco è una spada. Così il racconto leggendario si mescola alle parole della mamma a cui Alessandro dedica il libro, si arricchisce con le cronache dell'epoca e con le trasfigurazioni cinematografiche. 
Cosa sia il passato non sappiamo più.
" In tema di memoria bisogna essere molto cauti prima di convalidare l’autenticità di una reminiscenza. Su questo punto sono del tutto d’accordo con Mark Twain, quando afferma: più invecchio e meglio ricordo gli eventi che non ho vissuto. A un certo punto però mi è passata pure la voglia di sognare e tanto meno di scherzare sull'argomento. Ho deciso di non farmi più illusioni e di accettare la dura verità. Non avrei mai potuto recuperare tutto quel che il mio bisnonno aveva tirato su dal nulla. Eppure potevo fare un’altra cosa. Era un atto che dovevo a mio padre e ai miei antenati. Dovevo scrivere la loro storia, la storia della famiglia Jovinelli. Ci riuscirò? Porterò mai a termine una tale impresa? Non lo so. Ma so che è un mio dovere: es muss sein"
così scrive Alessandro e poi racconta in sette racconti sette, con il sette magico, racconta e racconta ancora, mentre io non distinguo più la lettura dallo scrivere e dagli  incontri favolistici.
Mai avrei immaginato di incontrarlo qui. 
Commossa. Strabiliata. Confessavo oggi a Maria Caterina Prezioso come io abbia letto molto tempo fa il racconto su Tabucchi fatto da Alessandro Iovinelli. Lo lessi avidamente allora. Lo imparai a memoria.  Io avevo scritto, tempo fa, in un mio pezzo "Ad un anno dalla morte di Tabucchi". Uno dei miei pezzi da semplice lettrice ed intanto preparavo, forse sempre quell'anno, la presentazione del libro "Frontiera" di Pina Majone Mauro per il Maggio dei Libri. Quel Maggio facevo chiacchierare la poetessa con Pessoa. 
Al di là dei miei fatti ininfluenti, resta la magia della testimonianza di Alessandro, al quale sono legata affettuosamente prima ancora di conoscerlo, di sapere chi fosse quello studioso che non prese appunti mentre Tabucchi parlava e che però è consapevole che qualcosa resta oltre noi.
Ascoltiamo il  racconto di Alessandro 
Dialoghi manca(n)ti   La scrittura come forma irriducibile dell’essereecco, questo è il messaggio che ci ha lasciato Tabucchi   Di tutto resta un poco.“Il tempo stringe” è l’ironia, quasi lo scherno dell’esistenza nei confronti dell’uomo: «Purtroppo nella vita non c’è mai molto tempo. Voglio dire: sembra che ci sia un sacco di tempo, ma poi, in realtà, non c’è mai molto tempo». Un teatro perfetto, quello della vita.  
"Tabucchi ritornò sul tema al centro di quel racconto  e, più in generale, di tutta la raccolta: il tempo. Le sue riflessioni mi anticiparono la trama sottesa a tutte le nove storie, nelle quali la dimensione temporale spariglia il classico ordine cronologico di
fatti passati, presenti e futuri, interrogandosi bensì sull'implosione temporale di tutto ciò che si compie e finisce il suo ciclo. Ascoltai questa sorta di autocommento con un senso di inquietudine, come se fossi anch'io un viaggiatore che sente descrivere un paese ancora ignoto, poco prima di attraversarlo
di persona."
Il tempo è circolare, scrissi in un altro mio pezzo "Dove ritorniamo" 
Nel viaggio che si chiama vita capita poi di inciampare, di fermarsi, di non partire affatto.
Alcune volte sono proprio gli inciampi che sublimeranno un vivere complicato in pagine di scrittura  immensa. 
Completando studi amati e letture vissute, la scala d'oro può essere nello stesso tempo The Golden Stairs, il dipinto del preraffaellita Edward Burne-Jones, oppure la scala dove tutti saliremo, quella dell' ascendere verso la saggezza,  del far tesoro di ogni difficile prova che il destino ha in serbo, trasformando il tutto in letteratura. 
La scala d'oro: La scrittura come forma irriducibile dell'essere



Il topo morto con la pancia all'aria

Vi risparmio la vista.
Trattengo il conato di vomito ed inghiotto a vuoto.
Sta lì all'angolo dell'arco in via D'Ippolito, centro storico del paese.
Sta lì difronte le scale che salgono verso la Chiesa di Santa Maria Maggiore, in effetti Chiesa di San Francesco.
Sta lì sul selciato, un grosso topo di fogna, morto nel giorno 9 del dicembre 2015, all'alba del nuovo che avanza. 
Il topo morto non viene rimosso, dall'alba al tramonto se ne sta in panciolle. 
In un centro storico preso a martellate, affinché la bruttezza abbia sempre la meglio e faccia perdere per sempre, negli antichi e pochi abitanti che furono, il ricordo della pulizia. 
Se una volta il grido era "tornate nelle fogne" ora il grido è " salite dalle fogne" vivi o morti uguale è il vomito. Servite uguali al disservizio. 
Destrutturare e distruggere tessuti urbani, non pulire più, cacche di cani a calpestare, bicchieri e bottiglie di birra abbandonati, piscio di umani ad ogni muro, scritte idiote per terra, case cadenti, in demolizione, non con le ruspe, ma con le erbacce. 
Palazzi sventrati per farne garage, e tutto chiuso, in un puzzo di morte.
Su tutto trionfano le multiservizi, trionfano i grandi stipendi ai dirigentidipendenti, alle attività sociali e parasociali, da anni da tempo in un inferno continuo.
I topi invaderanno la città, vi rosicchieranno le orecchie, vi trasmetteranno malattie.
Cominceranno dal basso, come in ogni epidemia, ma poi ma poi, la malattia raggiungerà i piani alti, altissimi,  dei vostri stipendi, dei vitalizi, delle confraternite e degli stendardi, delle fondazioni e dei multitavoli, degli organismi costituiti, delle CoCoCo delle commissioni, delle terribili associazioni, e tutti i topi trascineranno anche i vostri pacchi e pacchetti, alberi e viaggi al sole, trascineranno via, tutto via lasciando la lebbra sulla fattoria