domenica 21 aprile 2013

La pianta grassa. Una storia chiusa di Clara Sereni






 Al cellulare:- L’amicizia è una pianta grassa. 
Non ha (quasi) bisogno di acqua- mi dice la mia amica  da Recanati, in gita con i suoi allievi, e continua- Sì, ho visto le tue telefonate, tranquilla, io ci sono sempre.-
Mi ritrovo a dover spiegare che:- Pensato avessi perso il telefonino, ho pensato che lo avessi rotto, ho pensato che-
Ma non l’ho detto- che del cactus io sento solo le spine.-
Molto probabile che siano solo spine difensive, solo spine involontarie, solo tempo che non c’è.
Una storia chiusa di Clara Sereni 
Clara Sereni, giornalista e scrittrice, un tempo fece un tentativo.
 Inventò un luogo dove chi avesse avuto bisogno di compagnia, di aiuto amicale, sarebbe potuto andare.
Il marito, fiducioso, pronosticò il successo.
Lei era convinta del contrario e così chiarì all’ignaro e ingenuo uomo.- Vedi, tutti siamo disposti ad aiutare, vi sono infatti moltissime associazioni di volontariato in tal senso, aiutano le ragazze madri, i carcerati, i tossici, gli alcolizzati, gli ammalati, aiutare ti fa sentire forte, grande,  ma nessuno è disposto a far vedere quanto lui abbia bisogno di uno sguardo, di compagnia, quanto lui sia vulnerabile.
Amicizia, strana parola, rara trovarla, più rara viverla insieme.
Bisogna accontentarsi che essa esista nel deserto arido del deserto
Clara Sereni decise ad un certo momento di andare a vivere in una casa di riposo.
Una stanza chiusa.
Una stanza da dove, impercettibilmente, il mondo del fuori sparirà, senza spine,
e nel chiuso di un nuovo ordine ognuno ripercorrerà i sentieri dei nidi di ragno,
raccontandosi storie che avrebbe voluto raccontare a quella amica, alla sua amica.
Non ha bisogno di acqua l’amicizia, mi sembra la stessa frase dell’uomo che ti dice:- Sono dentro te- mentre è lontano mille miglia, con nella mano un’altra, un altro.
Abbiamo tutti bisogno di acqua, senza acqua non si vive.
Dirlo non è debolezza, è solo una forza-
Noi non siamo cactus 
Ippolita Luzzo  





sabato 20 aprile 2013

I comuni e i beni comuni con Rodotà



I comuni e i beni comuni- La rinascita dell’anno duemila

Nell'anno mille i comuni nacquero per governare il territorio senza l’ingerenza feudale, senza il potere religioso.
Una classe nobiliare e imprenditoriale cominciò a organizzarsi attorno all'uso dei beni comuni.
Non più sudditi ma cittadini.
Il potere venne affidato a magistrati che sarebbero rimasti in carica per un solo anno, secondo il modello romano, ed eletti dal popolo.
I comuni
Anche ora ci opponiamo al sistema feudale, anche ora siamo molto preoccupati dallo sciupio della nostra aria, del nostro mare, della nostra terra.
Guardiamo stupefatti un sistema feudale centralizzato e globalizzato governare per assiomi.
Spettatori scomposti e diseducati ci agitiamo senza possedere la regola, il diritto, la facoltà.
Lasciati liberi di non essere liberi urliamo.
Ritorniamo alla storia, ritorniamo a studiare passaggi, snodi, ribaltamenti.
Guardiamo al medioevo, al tempo dei comuni e crediamoci ancora.
Sotto questo cielo viviamo
Questa stessa aria respiriamo
In questo mare navighiamo
E sono questi i beni comuni da preservare, da curare, da amare
Prima che ci vengano sottratti del tutto.
La tutela dei beni comuni è all'attenzione di Stefano Rodotà, giurista
È alla nostra attenzione
Per non dimenticare
Per essere vigli e seri e cominciare a scappare nella  palingenesi del passato
Ippolita Luzzo 

domenica 14 aprile 2013

Nel medioevo prossimo venturo



Nell’anno mille e tredici in Italia
Nell’anno duemila e tredici in Europa
Il Sacro Romano Impero

Uguale uguale

Quando immaginiamo le albe degli anni mille e tredici, con i testi storici in mano,
Nulla di nuovo sotto il sole.
Franco Cardini, storico del medioevo, vi direbbe:-Facciamo una bella Crociata… alla rovescia-
Invertiamo e decrementiamo la popolazione.
Gli storici sanno che corsi e ricorsi avvengono nel tumultuoso mondo degli umani.
Una bella guerra, una bella pestilenza e  una scoperta meravigliosa di altri mondi faranno ripartire l’economia, l’entusiasmo, la fede.

Nel mille e tredici in Italia c’era l’emirato di Sicilia, l’impero bizantino, lo Stato Pontificio, il marchesato di Toscana, il regno di Lombardia
E in Europa Enrico II era a capo del Sacro Romano Impero e a Pavia cinse la corona di re d’Italia
Bene bene
La Germania detta legge, oggi come allora.
Oggi come allora, pellegrini assaltati in  strade insicure, turbe di popoli si muovono, vagano e premono ai confini, dal mare, dai monti…
Invadono l’occidente, si stanziano in fatiscenti cunicoli, catapecchie, casolari, castellotti in rovina
Occupano campagne, stendono tende, alimentano commerci, stringono alleanze, ci guardano

Noi abitanti indigeni di questa nazione, imbelli, incapaci, impotenti
Facciamo finta che siamo nel duemila e tredici

Facciamo finta che siamo noi ad avere in mano il volano della storia

E guidiamo felici per strade sconnesse, disselciate, fangose,
incuranti di buche, di trappole disseminate come allora
Siamo sempre agli albori di un nuovo millennio
Nel medioevo prossimo venturo


venerdì 12 aprile 2013

La Beirut di questi anni



La Beirut di questi anni

La mia città



Dopo il conflitto, dopo gli spari, dopo l’occupazione

La bellissima Beirut giaceva sventrata, stuprata.

Così la descriveva Oriana Fallaci- Insciallah





Ricordo perfettamente la mia città alla fine degli anni sessanta.

Bellissima.

Palazzi barocchi, giardino prospiciente la Chiesa di Santa Maria Maggiore, corso ancora intatto,

con case basse, architettura semplice, elegante, negozi piccoli,

e sul corso librerie, edicole, queste per fortuna esistono ancora, scuole.



Ricordo perfettamente e proprio per questo la sofferenza è pungente.

Chiudo gli occhi, 
non voglio vedere  lo sventramento e la pavimentazione di Piazza d’Armi, non voglio vedere  le case buttate giù  e i palazzotti a sei piani di una edilizia lasciata senza regole in anni lontani, non voglio vedere i cassonetti stracolmi, il villaggio zingari ampliarsi a dismisura come una grande ameba.



Non voglio vedere il centro storico disabitato e sciupato, occupato da uomini soli, con bottiglie in mano, da donne sole, anch’esse con bottiglia in mano.

Sono uomini e donne di cui non abbiamo nemmeno percezione fin quando non avranno un passaporto, una regola, una cittadinanza.

Vagano…



Guidando schivo l’ennesima buca.

Un asfalto sbriciolato, cannoneggiato, trapanato

Sono passati le truppe compatte degli israeliani, hanno bombardato le case degli sciiti

E scontri continui tra sunniti e sciiti si avvicendano.



La mia città piange dolente un mare sciupato, sporcato, una pattumiera.

Una costa erosa, mangiata, devastata da blocchi dii cemento,

da lungomari improbabili

luoghi del nonsense



Smarrita mi chiedo come sia stato possibile,

smarrita e solitaria mi apparto in un libro

confidando solo nella smemoratezza che, allontanando dalla mia mente il ricordo della mia bella città, darà quiete al mio tormento.

Ippolita Luzzo