lunedì 2 maggio 2016

A trenta anni dal web e a quattro anni dal blog La regina della Litweb

Internet compie trenta anni. Ha trasformato in maniera epocale abitudini, corrispondenze, conoscenze e letteratura. Ha facilitato contatti e permesso la creazione di un villaggio globale in continue connessioni.
Vedremo il sorgere del mondo nuovo noi che stiamo vivendo il finire di ciò che credevamo utile e necessario fino a trenta anni fa? Questo non so. Ho però chiaro che bisognerà adattare gli studi fatti e usarli come zattera anche nel mare di internet, che sembra titolata a dare tutto il conoscibile e può regalarci bufale assolute.
Internet, la rete delle opportunità e degli inganni.
Sto sui tasti da pochi anni, da sei o sette anni, ho fatto mail e guardato il mondo da uno schermo, e da quello schermo, dal web, continuo a guardare il mondo come va.
Gli studi classici e di filosofia mi hanno dato quella autonomia di pensiero per cui è difficile che mi lasci cooptare da ciò che non mi interessa e sono sempre rimasta con l'occhio attento su letture e letture. 
Sul web nasceva un nuovo modo di scrivere. Una interazione fra lo scritto e il lettore, un teatro vivente di battute e rimpianti, di liti e riappacificazioni.
 Nasceva tutto ciò sui siti letterari, sui social, Facebook e Twitter, Google + e altre piattaforme varie.
Una vita squadernata su una finestra bianca.
La stampa ha la sua finestra online, i libri passano online, le merci, la musica, l'arte, il cinema, la politica, la guerra. 
Alcuni movimenti politici diventano forze parlamentari grazie alla rete. 
A me è stato regalato un regno.
Dal giugno del 2012 scrivo su Litweb pezzi corti, il mio sguardo dal web sul web ed, incredibile ma vero, il web risponde. 
Meglio che ad Emily Dickinson
Mi sono così letta libri su libri, ho visto film e dipinti, sempre con quella autonomia di pensiero che è frutto di una formazione classica alla quale non si può rinunciare se si vorrà essere liberi di avere un metodo e dei criteri su quali basare un giudizio.
Un giudizio libero da compiacente rassegnazione all'andazzo dei tempi. Tempi di spietati e lecchini, tempi di conformismo storico ed individuale, che una scarsa preparazione in moltissimi, rende tutti dubbiosi e pronti a scartare chi è bravo davvero ed omaggiare chi possa poi esser utile.
Disdegnando un mondo siffatto faccio i miei auguri alla maturità di Internet, trenta anni vuol dire età adulta, augurando che dallo schermo  nuovi regni liberi si costituiscano. Con la  parola libertà che vuol dire relazione individuale. 
  

domenica 1 maggio 2016

Libero scrivere in libero regno

Rispondo così ad amico che mi sollecita un pensiero sui tanti e tanti che pubblicano e pubblicano in una bella frenesia chiamata libro. Anche io farei uguale  se sapessi scrivere ma non so scrivere.
Ho strappato tutto quello che ho scritto fino al 2009, tutto.
Fogli, diario, lettere ricevute e qualsiasi cartaceo mi riguardasse.
Ho regalato tutti i libri posseduti al Sistema Bibliotecario di Lamezia, alle scuole, alle colleghe, senza nemmeno chiedere una targhetta.
Ho riscritto da allora su blog, siti letterari, in mail, su Tiscali, su portali, scrivendo scrivendo.
"Ma non so scrivere. Lo vedi anche tu" dico al mio amico. 
Scrivo come parlo, come penso, senza disciplina, senza una grammatica.
Riconosco i limiti e già mi sembra di essere molto avanti.
Lo affermo senza nessuna umiltà. Seriamente.
Penso che oggi il libro faccia status, più di un tempo, anche se a scorrer le doglianze, Leopardi si lagnava che al suo tempo fosse uguale. 
Tutti sono presi da questo bel desiderio di vedere il nome proprio stampato su una bella copertina, sentirsi autori o autrici, trovare il critico o il docente compiacente che li faccia  sentire Tasso e far  inchiostrare pagine e pagine di stampa locale inneggiante l'opera. Mi sembra di essere a teatro. magari un teatro dilettante, di amatori che fanno le prove a reggere il confronto con il mondo delle lettere, a volte a loro  sconosciuto.  
 Sono però fautrice del libero scrivere in libero regno, basti che ognuno non si senta Dante. Comunque anche se si sentisse Dante ne sarei felice lo stesso. 
 Su me penso di essere una che usa la lettura per vivere e la scrittura come relazione. Mi sembra di essere riuscita a far l'uno e l'altro, mi occupo il tempo leggendo e faccio della scrittura un mio divertimento.
Che abbia chi mi legga mi sorprende e mi rallegra tanto quanto io sia contenta nel legger tutti coloro che scrivono davvero.  

mercoledì 27 aprile 2016

Mario Borghi Le Cose dell'Orologio

Ed eccomi. Ringrazio l'autore che mi permette di leggere questo scritto quasi "demenziale" e "delirante" in senso cinematografico.
Uno scritto disarticolato e mescolato con tanti suggestioni.
Siamo in un poliziesco, in un noir, in un giallo, in un saggio filosofico o in un racconto scritto per divertimento?
Non sciogliamo quasi mai la domanda.
Ci sono alcuni passaggi in cui ti chiedi se l'autore scrivendo abbia proprio detto:"valutate bene se e come fidarvi delle apparenze, anche se tutto questo potrebbe essere, più o meno, successo. Più più che meno" ed ancora 
"Gli errori/riemergono sempre/minacciosi ed imponenti/come iceberg di cobalto/dall'oceano del passato/pericolosi se scaldati dal sole vagano/cozzano quando meno ci si aspetta/contro i vascelli
ove viaggiamo ingenui/credendoci al sicuro/in un attimo possono rovinarti/o salvarti la vita."
La scomparsa dell'orologio dalla stazione centrale, rubato per essere portato in un loft, la mansarda dello strano ladro di oggetti ormai dismessi e già considerati inutili, sta sullo sfondo di un racconto con le lancette anch'esse all'incontrario. Troppi generi si avvicendano ed anche se io prendo il filo e lo conservo, mi ritrovo lo stesso un po' disorientata. “Gli artigiani d’un tempo erano degli artisti”
 Amerigo Erthel, orologiaio per sempre, ed infatti  ritrovo il filo ed:eccoti- faccio soddisfatta, leggendo la poesia nel racconto. 
“Allo scoccar dell’imprevista ora
le parole diventan giuste,
l’idea divien superiora
e il fato adopra le fruste

ché gli oggetti decidan detentori
e non viceversa accada
a nulla servan né forza da tori
né intelligenza di sciarada.

“Tutti guardavano smarriti e attoniti la staffa sulla quale fino a poco tempo prima c’era l’orologio. Anch'essa rischiava la rimozione, perché – si vociferava – quello nuovo avrebbe necessitato di altri sostegni. Ma nessuno lo voleva, quello nuovo. La gente rivoleva quello di prima, quello che aveva segnato gran parte dei momenti della loro vita: ritardi e anticipi, arrivi e partenze, corse e pianti.

L'idea senz'altro originale e simpatica che dovrebbe essere rimontata, dopo essere stata fatta a pezzi come l'orologio, da un attento e certosino lavoro che riesca a mettere a posto la lancetta che va indietro, nei rimandi letterari che piacquero all'autore. Quella stazione si può riprendere con ben altri esiti, e riportare l'orologio funzionante al tempo che fu
 "La stazione, il mondo, tutte le situazioni e tutte le circostanze rimasero in sospeso davanti a loro, prima dell’accelerazione naturale del compimento. Nell'esatto punto in cui la radice diventa tronco e il tronco diventa ramo"

Ed è questo l'augurio che faccio all'autore, che sappia collegare gli ingranaggi come l'orologio fa andare i treni nella stazione delle nostre letture. Con il saluto della Litweb 


lunedì 25 aprile 2016

Conforme alla gloria:l'atto di dolore di Demetrio Paolin

Il male come infezione. La propagazione, come una piaga purulenta, negli individui e nell'organizzazione statale.La storia come summa di malvagità. Il peccato storico in questa valle di lacrime. Dalla Bibbia ai nostri giorni: Umiliati e offesi. E dalle offese e dalle umiliazioni il risentimento ed il rancore da sfogare, non potendo verso chi lo infligge, verso un altro ancora, in una concatenazione di avvenimenti che non finisce mai. Dal tempo dei tempi.
Conforme alla gloria, la pelle tatuata del nostro male, nasce in un campo di concentramento, si diffonde poi per le strade dei nostri anni, generando altro male, disfacendo la famiglia del protagonista, Rudolf, che, nell'ossessione di liberarsi dell'eredità paterna, il padre un ufficiale nazista, responsabile dei campi, vede dissolvere il suo mondo di affetti. 
Conforme alla gloria senza redenzione, se non la scrittura che sia una testimonianza, una cura da bere e sentirne l'amaro,oppureuna lettura che brucia come bruciano  i farmaci che cercano di disinfettare 
Una storia che non è mai finita, ieri corpi su corpi, ammassati nella Germania nazista, ed oggi corpi su corpi, annegati nel mare Mediterraneo. In una incoerenza che genera sofferenza. 
Conforme alla gloria: dopo settanta anni stiamo ancora lì a contare i morti. Sul corpo tatuato di Ana, su "Salvati e sommersi" di Primo Levi, e nelLa Tregua, nell'offesa che diventa a sua volta male.
Dalla Tregua di Primo Levi, scrittore presente nel libro, e più vivo che mai:" l’offesa ricevuta – in questo caso, ma ciò vale anche per l’offesa immaginata o ritenuta tale – diventi una fonte inesauribile di male.  Spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia”. Come non leggere in questa descrizione quello che è accaduto e accade anche in tanti conflitti in giro per il mondo, tra popoli e religioni diverse? Nessuno ne è esente. Il risentimento e il rancore non necessariamente, ci avverte Levi, hanno un’origine non motivata. Ma quando ce l’hanno, l’effetto è il medesimo: cedimento morale, vendetta, stanchezza, rinuncia. Non esiste una giustizia umana che estingua l’offesa. 

domenica 24 aprile 2016

Bella ciao 2016

Con la voce di Giorgio Gaber che canta Bella ciao pigio sui tasti, felice di cantare ancora questa canzone antica nata nel coro, nel farsi dei canti della lotta per la libertà.

Una mattina mi son svegliato

O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao

Una mattina mi son svegliato

E ho trovato l'invasor


Con in mano il Sole 24 Ore e l'articolo di David Bidussa Bella ciao,

un canto oltreconfine, mi sorrido del bel momento in cui ancora

possiamo cantare una canzone che è un inno alla libertà


È questo il fiore del partigiano


O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao

È questo il fiore del partigiano

Morto per la libertà



Certo la libertà è una conquista difficilissima, forse mai raggiunta, 

una lotta, una sfida,  tracce di canti per la libertà risalgono alla fine 

dell'ottocento, all'inizio del novecento, ai primi canti di un popolo

che esiste. Un canto che inizia con la morte e la tomba da cercare. 


Una canzone di morte ma con la volontà di  essere seppellita sotto

 l'ombra di un bel fior. Il fiore della libertà


E le genti che passeranno


O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao

E le genti che passeranno

Mi diranno: "Che bel fior 


Nella difficile momento del congedo di momenti storici dolorosi che

hanno visto in Italia un guerra civile con molti morti, che, ancora

dopo settanta anni, ci vede divisi  gli uni e gli altri contrapposti 

in una guerra di livore, di calunnie, di esasperazione e di odio, si alzi

alto il canto che si è feriti, ma non vinti; la partita non è chiusa. 

Nella verità storica di un regime sconfitto dalla guerra che lui stesso

aveva voluto per dimostrare di essere forte, un regime che aveva

accettato una  guerra per compiacere un alleato diabolico, un 

regime nato nel terrore e nelle imposizioni con purghe

manganelli, resistere vuol dire combattere.

Che poi la resistenza e i partigiani sia stato un

movimento con luci ed ombre lo sappiamo, non dimentichiamo 

che combattevano in clandestinità e che episodi anche poco degni

possono e sono successi, nessun movimento è indenne da colpe,

ma non possiamo distorcere la verità e cioè che fu il movimento di 

tanti italiani che parteciparono alla Resistenza a creare quel bel

testo costituzionale nato dalle menti più onorabili dell’Italia tutta.

La nostra costituzione ci indica ancora il canto da poter essere 

orgogliosi di un nostro desiderio di libertà senza per questo aver 

solo la libertà di una tomba oppure di un carcere. Cantiamo Bella

ciao dunque ed insegniamo la libertà ch'è sì cara come sa chi per

lei vita rifiuta
   



mercoledì 20 aprile 2016

Giuseppe Piccioni Il rosso e il blu

Giuseppe Piccioni: Il grande Blek (1987)
Chiedi la luna (1990) Condannato a nozze (1992)
Cuori al verde (1996) Fuori dal mondo (1998)
Luce dei miei occhi (2001) La vita che vorrei (2004)
Giulia non esce la sera (2009) Il rosso e il blu (2012)

A Lamezia con Il rosso e blu, Giuseppe Piccioni, ospite, per il primo appuntamento della rassegna “L’ora di Cinema Extra”,  del direttore artistico GianLorenzo Franzì.
Rassegna sotto il patrocinio del Comune di Lamezia Terme.
Dopo la visione del film Il rosso e il blu, il regista ha parlato con gli spettatori e con Gian Lorenzo, poi ha percorso a ritroso le strade perdute del nostro interiore, del riferimento che ci fa essere simili e dona la felicità di capirsi fra umani. 
Pochissimi appunti ho preso. Qualche frase. Ho però stampato indelebile tutto quel che di comune c'era già, non sapendolo. Intanto i titoli dei suoi film. Senza saperlo io li ho copiati negli anni  passati, intitolando via via le mie relazioni come i suoi film. Io scrissi La vita che vorremmo, ed ora so perché. Riecheggiavo il suo film " La vita che vorrei"
Giuseppe Piccioni ricorda ogni sequenza dei suoi film, ci spiega ogni dettaglio, quel dettaglio, che solleva i protagonisti dalla noia di una conversazione scontata e fugge via, offrendo a noi tutti la sorpresa di poter parlarci senza scadere nelle ovvietà.
Sembra che tutta la sua cinematografia sia stato questo sfuggire il discorrere lamentevole oppure aggressivo, le offese, il male assoluto, e mostrare un normale esistere capace di altezze, di approfittare del varco stretto, strettissimo e mostrare una realtà che sia un viso, una piega del viso, un sorriso, la luce negli occhi.
Quel momento che fa di tutti un individuo unico e solo nella sua unicità.
 Il rosso e il blu è un film sulla scuola e lui ricorda la sua maestra che ad alta voce nell'aula scandiva quel "Leggi, Giuseppe" quel suo nome, come di quello dei suoi compagni, e la maestra voleva sentire proprio la voce di Giuseppe, donando all'alunno, a tutti gli alunni, una individualità. Donando attenzione. 
"Attenzione" altro momento molto caro al regista. Ricordo un altro film sulla scuola, "W La Scuola", che terminava proprio con la parola attenzione.
Attenzione che ci fa meno soli, e il regista ci ricorda  Silvio Orlando in "Fuori dal mondo"  con una suora, in una stanza,  raccontare la solitudine di non poter e nemmeno sapere a chi telefonare perché non si ha nessuno, noi tutti siamo lì lì per dire che siamo noi, tutti, uguali, a Silvio Orlando, al suo personaggio.
In fondo il cinema ci chiede immedesimazione, ci fa partecipare al gioco, ci fa sognare, ridere e piangere. E quando si piange il film è riuscito. 
La voglia di vivere e di leggere. In Guerra e pace di Tolstoj, libro da lui molto amato, il protagonista ha trentuno anni, non ha voglia di vivere, spento, eppure, in un viaggio, sente una risata gaia, fresca, e lui si chiede cosa avrà tanto da ridere quella ragazza che lui non vede. La sera ascolta la voce e si innamora così, dalla voce, dal suono, dalla gioia di vivere e sceglie l'amore, sceglie la vita.
Tutta la vita è una scelta, ha detto infatti il regista, proprio all'inizio della conversazione. Cosa ci sta a cuore è importante.
Il cinema a lui ha dato la possibilità di sciogliere quell'ossessione di fare delle scelte, di prendere posizioni, di chiedersi sempre " Cosa voglio raccontare?" La vita di tutti segue queste dinamiche, sull'altalena del pensarsi nessuno oppure qualcuno, sullo sconforto e sulla euforia, sulla voglia di lasciare un'orma, lui dice una traccia di sé, sul terreno.
Un modo personale di essere che implica la voglia delle relazioni umane. Che ci fa comunità. E qui lui usa un aggettivo legato a sostantivo che vi metto in grassetto Attenzione civica. 
Evviva la civiltà. Ci sentiamo in tanti Fuori dal mondo eppure basta incrociare la magia del cinema e dell'uomo e ci sentiamo nel mondo nel grande mondo dei nostri riferimenti. Mentre Truffaut è presente con noi, lo vedo quasi, nelle parole di Giuseppe Piccioni," Bisogna falsificare per dire qualche verità" la realtà come rappresentazione, e qui io mormoro Débord, la messa in scena è la capacità di rendere una scena interessante, sollevarsi su qualcosa di diverso vedendo il doppio fondo, come in una valigia e scoprire l'incantesimo.
 Con le parole di Sergio Quinzio teologo da lui stimato, siamo alla fine della conversazione che termina con " Il mio paesaggio sono i volti"

Ma non termina l'incontro, ci salutiamo, lasciamo le scene e continua il nostro viaggio  con lui per le vie di una Nicastro antica, per le vie del Timpone, attraversando ponti, guidati da Cecilia,
 leggendo il castello dalle parole di Giovanna ed intanto siamo a Santa Lucia e troviamo Don Vittorio Dattilo, uomo prima che prete, incarnazione di tutto il cinema di Giuseppe Piccioni, in un incastro di coincidenze che, subito, questo libro "Il breve trattato sulle coincidenze" di Domenico Dara, dovrò segnalare al regista. 
Per le vie antiche e sciupate, un profumo di garofani, quei garofani piccoli e odorosi delle estati del sud e, nel mentre io ricordo a Giuseppe la poesia di Costabile, lo ringrazio per aver trovato in lui una perfetta aderenza fra le sue scelte e il suo essere uomo in mezzo a noi, in quella relazione che umani ci fa. 
 Sonno di garofani
L'acqua 
del paese 
ancora scorre 
senza tubature, 
ne s'alzano antenne 
architetture 
di pulegge e gru 
perché gli uccelli 
possano sbagliare. 
C'è pace 
vita chiara 
di donne di bambini 
di carri tirati dai buoi 
e a sera, quando ai balconi 
c'è un sonno di garofani, 
due stelle bizantine 
s'affittano una stanza 
nel cielo della piazza. 
   


martedì 19 aprile 2016

Conforme alla gloria

Appunti 
Fra offesa e rancore 
“zona grigia” proposta da Levi: il male non ha intrinseca grandezza, può scaturire da piccoli gesti e piccoli atti e avere conseguenze catastrofiche. 
"Il rancore si presenta così sotto forma di “un demone prigioniero”, che continua il suo eterno lavorio, imprigionato dentro di noi, alimentatore di rovelli inestinguibili, tenuto in vita dal nostro stesso desiderio. Il demone rumina, rimugina, rimastica sempre il medesimo bolo, come se il tempo della digestione definitiva non dovesse mai giungere. Kancyper, che ha dedicato all’argomento del risentimento uno studio, sostiene che questa emozione è legata alla dimensione temporale, differenziando tra due tipi di memorie: la memoria del dolore, che continua nel tempo della rassegnazione, e la memoria del risentimento e del rancore, che “si trincera e si nutre dell’aspettativa della vendetta in un tempo futuro”. Per questo il risentimento appare allo psicoanalista legato a pulsioni di morte: “la compulsione ripetitiva e insaziabile del potere vendicativo”; si regge, dunque, sul principio del “tormento”, un pensare calamitoso, come lo chiama un paziente dello psicoanalista argentino, in cui la collera diventa la sola via di fuga dal tormento interiore.  - : http://www.doppiozero.com/rubriche/4270/201604/risentimento-i-parte#sthash.sjlMZlj7.dpuf

"La memoria è uno strumento meraviglioso ma fallace. E questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento. I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei. Lo sanno bene i magistrati: non avviene quasi mai che due testimoni oculari dello stesso fatto lo descrivano allo stesso modo e con le stesse parole, anche se il fatto è recente, e se nessuno dei due ha un interesse personale a deformarlo. Questa scarsa affidabilità dei nostri ricordi sarà spiegata in modo soddisfacente solo quando sapremo in quale linguaggio, in quale alfabeto essi sono scritti, su quale materiale, con quale penna: a tutt’oggi, è questa una meta da cui siamo lontani. Si conoscono alcuni meccanismi che falsificano la memoria in condizioni particolari: i traumi, non solo quelli cerebrali; l’interferenza da parte di altri ricordi «concorrenziali»; stati abnormi della coscienza; repressioni; rimozioni. Tuttavia, anche in condizioni normali è all’opera una lenta degradazione, un offuscamento dei contorni, un oblio per così dire fisiologico, a cui pochi ricordi resistono. É probabile che si possa riconoscere qui una delle grandi forze della natura, quella stessa che degrada l’ordine in disordine, la giovinezza in vecchiaia, e spegne la vita nella morte. É certo che l’esercizio (in questo caso, la frequente rievocazione) mantiene il ricordo fresco e vivo, allo stesso modo come si mantiene efficiente un muscolo che viene spesso esercitato; ma è anche vero che un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dall’esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese." Primo Levi  I sommersi e i salvati