martedì 12 febbraio 2013

Habemus papam






21 aprile 2011 Habemus papam



Una favola, una bella favola il film di Nanni Moretti
Habemus papam
Lo stupore.
Tutti guardano con occhi candidi, buoni, tutti sono buoni. Affettuosi, solleciti. Nessuna cattiveria, nessuna parolaccia, nessuna impazienza. I cardinali visti nei momenti meno paludati, più intimi, visti con occhi materni, 
sono stati bambini anche loro!
Le gerarchie pazienti, i giornalisti educati, il popolo plaudente, attento.
Un papa, che sente di non poter fare il papa, vaga per una città, Roma, accolto con garbo, con cortesia. Eppure è solo un anziano, presumo senza soldi, che vaga per la città.
La commessa di un centro commerciale gli offre un bicchiere d’acqua e non si spazientisce quando l’uomo si irrita e rifiuta le sue profferte di aiuto, la ragazza  al bar gli da il suo cellulare per fare una chiamata, gli attori di una compagnia teatrale lo fanno assistere alle prove del Gabbiano di Cechov, com’era nei suoi sogni, un mondo buono, nessun spintone, nessuna richiesta di danaro, nessuno scherno.
Una favola.
Una colonna sonora rivelatrice, spiegante e modulante un ritmo eterno e sempre in movimento. 
Todo cambia, come si cambia, per non morire, così dicono le canzoni, cambiano i denti, le stagioni, i presidenti, - dice Battiato- tutto cambia, semplicemente un divenire. Se non cambiasse non sarebbe vita e morte nello stesso tempo.
Su tutto aleggiano non viste le virtù teologali, la fede, la speranza, la carità,
su tutto aleggia l’inadeguatezza dell’uomo, della psicoanalisi, scherzosamente presa in giro, affettuosamente se ne mostrano i limiti, su tutto l’inadeguatezza di un uomo che sa quanto il potere ci spersonalizzi, ci privi. 
Un potere che vuole troppo, prende troppo, un ruolo assoluto.
C’è una riconsiderazione importante sulla fragilità, sulla difficoltà, sulla non sempre lineare accettazione di un incarico.- Ne sarò capace? Lo voglio?-
Chi non si pone domande simili veleggia felice nei mari della supponenza, della prosopopea, dell’assolutismo, della prevaricazione,  non vedendo affatto la linea dell’orizzonte davanti a sé.
Habemus papam, un papa che non vuole condurre, che vuole essere condotto, come noi, come tutti, per mano, da una mano che vogliamo non ci lasci mai.
La nostra fede
Ippolita Luzzo 

sabato 9 febbraio 2013

L'arte di parlare secondo Guitton



L’arte di parlare in un luogo pubblico

Rispettare solo tre tempi sull'argomento da svolgere.
Ecco cosa vi  dirò
Ve lo sto  dicendo 
Ve l’ho detto
Così ci insegna Jean Guitton filosofo e scrittore francese su come l’oratore debba svolgere la traccia della sua relazione su un qualsivoglia argomento.
Mi sembra bello e interessante ricordarlo insieme ad  altri suoi insegnamenti
Essere brevi
Essere altruisti
Mettersi accanto all'ascoltatore ed ascoltare.

Vado seguendo, per mio diletto, molte presentazioni di libri, vado a conferenze di storia, di letteratura.
Appartengo ancora ad un mondo fatto di prosa, di cinema e teatro, musica e canzoni, testi di canzoni, e mi sembra questo mondo, insieme alla pittura e alla scultura, all'architettura e all'ambiente, il mondo della bellezza e della comunicazione.
Mi sembra sia questo il mondo da salvaguardare dagli scomposti gesti di un vano e urlante gridare ai venti chi noi siamo, cosa noi vogliamo e dove noi andiamo .
Non andremo da nessuna parte se non ci fermiamo
Le regole di Guitton, le regole, dimenticate e spesso accantonate in diversi periodi storici, sono sempre le stesse.
Come in una conferenza, così nella nostra vita qualsiasi, dopo esserci preparati, dopo aver studiato, letto e riletto un avvenimento, possiamo, potremo dire al nostro amico o congiunto
Adesso siediti su quella seggiola
E ti dirò
Ora te la sto dicendo
Te l’ho detta
Ripetendo con calma il tema della conversazione e assicurandoci che sia noi che l’altro,
sia noi che tanti altri, tutti, abbiano l’audio collegato.
Altrimenti, caro Guitton, è vano parlare come in una boccia nell'acquario dei pesci rossi.
Dall'eleganza del riccio… che è sia il libro della citazione appena riportata e sia l’animale che più ci rappresenta, con tutti quegli aculei.

venerdì 1 febbraio 2013

La Batracomiomachia- La guerra dei topi e delle rane



Da Pigrete Di Alicarnasso a noi, passando attraverso Leopardi.

Il re delle rane si offre di portare sulle spalle
 per un giro sul lago il figlio del re dei topi.
Durante la passeggiata un pericolo immediato costringe il re delle rane ad immergersi, causando così l'annegamento del topo. La guerra è inevitabile.

Il poema lascia i topi sconfitti, proprio quando erano certi della vittoria,  sconfitti dall'intervento di Zeus che li incenerisce e dai granchi che li fanno a pezzi.

Nel poemetto I Paralipomeni della Bartracomiomachia Leopardi riprende in mano la storia nel momento finale, dalla sconfitta dei topi, che per lui sono i liberali napoletani, contro le rane, i borboni, aiutati dai granchi, gli austriaci.

La satira offre al poeta un divertimento ed insieme la libertà di dire la sua, da intellettuale, su quanto sia ridicolo l'agitarsi di tutti se il luogo del contendere si sposta dall'agone politico ad uno stagno.

Continuiamo con Esopo e con un'altra favola- Le rane nello stagno-
Se dal nostro mondo precipitiamo in uno stagno e, come le rane  di Esopo, continuiamo a chiedere a Zeus un governatore saggio e giusto,
ricordiamoci che Zeus mandò fra le rane un dittatore che le beccò e se le mangiò tutte.

Rammentiamo che Zeus, nella guerra fra i topi e le rane, fulminò i topi, che, sempre secondo Leopardi, erano i liberali di allora.

Nessuno riprende ora queste due favolette
eppure sarebbe divertente vedere chi sarebbero i topi ora
e chi le rane e i granchi
Forse sarebbe utile riflettere, spostandoci nello stagno e dallo stagno
osservare, prendere appunti e studiare, sentire le rane fare solo cra cra cra
e guardare i topi sulla riva, senza un traghettatore
  e dovremmo arginare i granchi che  organizzano taglienti chele per fare a pezzi e uccidere la democrazia
Sarebbe un insegnamento per tutti, ma nessuno ascolta la classicità.

 Suoni troppi lontani o troppo vicini per essere uditi nel rumore della contemporaneità

Gli aedi suonarono e cantarono ma i rapsodi per riportare i loro canti a noi devono ancora giungere... dal V secolo a.C.




martedì 15 gennaio 2013

Cosa è successo che ci ha sbarrato la strada?

 Aver cinquanta anni, sessanta e poi oltre è un tempo per noi di nuovo guardare.
Cinquanta o sessanta e possiamo dire- noi c'eravamo-
C'eravamo quando l'uomo andò sulla luna, quando uccisero Kennedy, quando il televisore si accendeva solo per il telegiornale.
C'eravamo quando le nostre mamme stavano a casa, le nostre nonne ci tenevano in braccio e i nostri papà partivano all'alba ritornavano al tramonto e noi bimbi gli davamo il bacio andandogli incontro.
C'eravamo ubbidienti seduti ad un tavolo, in tanti, a mangiare lo stesso cibo, a chiacchierare e ad ascoltare il nonno che riportava un aneddoto, un fatto strano.
Guardiamo affettuosi il tempo che fu, un tempo ormai storia di tanti, di molti, un luogo dal quale noi abbiamo preso lo slancio... di corsa
Lo studio, la laurea, l'insegnamento, il fermo proposito che l'autonomia, la stima e l'impegno sarebbero serviti a forgiare quel nuovo modello di relazione che ci sembrava il vessillo della felicità.
Cinquanta o sessanta sono tempi di bilanci,  per molti quella bilancia sembra che non abbia nulla più da pesare, un peso inconsistente, un peso da niente.
Ed ora ci chiediamo:-Cosa è successo che ci ha sbarrato la strada?-
C'eravamo un tempo e poi siamo spariti per venti, per trenta, per quaranta anni e all'improvviso ci ritroviamo in età adultà a ribaltare il nostro motore su una infanzia che ci corre incontro.
 Epimenide dormì cinquantasette anni,  poi si risvegliò e si stupì.
Sarà questo il miracolo, il dono di un pensiero informe che ogni mattina ancora si chiede:-Chissà come mi formerò?- Che forma mi regalerò per guardarmi ancora con indulgenza?-
Risposta non c'è ma forse chissà perduta nel vento sarà...
La storia risponderà
non ora
non subito
e noi non sapremo mai cosa lei ci dirà.
Resta intatto il nostro stupore.
  

sabato 12 gennaio 2013

Il sangue del fanciullo- Dino Campana



Il sangue del fanciullo- Dino Campana

A casa mia non veniva nessuno, c’era però il salotto che veniva aperto quando  parenti lontani passavano a salutare nei loro giorni di vacanze al sud.
Il salotto era in fondo al corridoio buio, soffitti alti e pomello bianco madreperlaceo alla porta liberty, ampia stanza con balcone, giardino della chiesa barocca  accanto.
I parenti erano accolti con sorrisi, fatti accomodare e, preparato il caffè, mi chiamavano.
-  Vieni a salutare lo zio, la zia, i cugini, vieni.-
Stavo nascosta fra i muri spessi di una casa antica, fredda e buia, stavo in silenzio sbuffante e non andavo, non subito almeno.
I richiami continuavano, qualcuno veniva a cercarmi, poi smettevano ed io, educatamente,  apparivo sulla soglia  ai parenti ormai in viaggio, nei saluti, sulle scale .
Eppure ho  avuto un affetto intenso per i miei, e ho sempre dato il nome timidezza al mio fare.
Non ero scontrosa come apparivo.
 Neppure Campana, sicuramente, lo era.
Quale insignificante momento della nostra infanzia ci segna il percorso che poi faremo?
Quale richiamo, quale frase ferisce inguaribilmente l’anima, e cancerosa poi fa metastasi nel nostro agire?
Non lo sapremo mai, anche ora che scaviamo e scaviamo, parlando con psicologi e psicoanalisti, terapeuti e amici, ormai tutti in possesso di conoscenze Junghiane, di testi su sogni e su associazioni, di sedute di gruppo e parliamo e parliamo.
Campana scappava nei boschi, io camminavo di lato, Campana , beh ora, ora suppongo avrebbe continuato a vivere strano, magari scrivendo per scherzo o davvero su un foglio bianco di un tablet, di un cellulare.
Ripenso che siamo veramente fortunati  noi figli di un’epoca nuova, senza catene, senza legami, senza detenzione coatta se scriviamo, se cerchiamo ancora quel solo motivo che dall’infanzia ci portò al domani.
Campana ricorda un verso di Whitman…essi erano tutti stracciati e coperti con il sangue del fanciullo…lo scandalo della vita che si cerca ancora di negare; la sua vita, ovviamente, orridamente scempiata dai familiari, dai vicini, dai concittadini.
A lui non comprarono nemmeno un pc
Noi, privilegiati, abbiamo incontrato sul nostro vissuto Joan Baez e Dylan, i Rokes e Lucio Battisti e l’infanzia ci aspetta, non ci fa paura.
Una adolescenza da padroni del mondo- una adolescenza lottante urlante caparbia e impegnata ci prese per mano
Noi abbiamo incontrato dopo quel  bosco dell' infanzia l' entusiasmo e  musiche e cinema , teatro e parole e
Ormai in quel salotto saremmo stati i primi ad entrare, a porger la mano, a chiacchierare, noi, noi  che ritorneremo indietro solo per la rincorsa... come gli atleti

venerdì 11 gennaio 2013

Miei cari alunni vicini e lontani



Miei cari alunni vicini e lontani,  buongiorno

Siete presenti? Siete assenti? Avete fatto colazione? Preso il latte, il pane con il miele, le fette biscottate con la marmellata  ed un frutto? Bene
Una buona riserva zuccheri dà energia  e calore a mente e corpo, perché come dicevano i latini- Mens sana in corpore sano-
Vi siete lavati mani e denti? Vi siete pettinati e vestiti con cura? Bene
L’igiene ci preserva dalle malattie, il rispetto della nostra immagina lo dobbiamo a noi stessi e agli altri per un dignitoso vivere civile.
Ora possiamo iniziare con benevolenza, senza schiamazzi, senza urli, senza dispetti
Se non capite  alzate la mano e chiedete
Se avete voglia di fermarvi a riflettere  ci fermeremo
Se vi annoiate ditemelo
La scuola è l’unico luogo dove qualcuno è pagato per stare con voi, per parlarvi e per insegnarvi a conoscere storie, a inanellare numeri, a dipingere pareti, a suonare, suonare, suonare, scrivendo note sul registro della vita.
Una comunione sociale- mi dicono
Tutto quello che io vi dirò mi è stato già detto
Tutto quello che so l’ho imparato a mia volta da libri, da insegnanti
Ed ora io ve lo ridico pensando che sia un mio pensiero.
Credendoci forte, credendolo vero.
Ed è sulla base di questa onestà che si basa il nostro convulso vivere sociale, nel credere certo, nel credere vero quell’uomo, quel libro, quel fatto che tu hai per le mani.
Abbiate fiducia- aggiungevo alla fine- abbiate fiducia e siate accorti, noi siamo gli altri e gli altri siamo noi, noi porgiamo una mano e qualcuno la prenderà e così via in una assistenza chiamata solidarietà.
Dicevo e parlavo ogni giorno fra i banchi le stesse parole ma sempre nuove, felice di essere io il messaggero di tanta saggezza.
Mi sembra sempre possibile il parlare così, mi sembra sempre bello dirselo e crederci, ora però aggiungerei – Ragazzi miei cari, vivere, studiare, imparare, impegno e costanza, rispetto e attenzione, condiamoli sempre con un goccio di dubbio. Un solo goccio, senza abusare. Solo per insaporire di più il nostro pane quotidiano.-


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mercoledì 9 gennaio 2013

Parafrasando Anthony De Mello- Le aquile che noi siamo



Parafrasando Anthony De Mello-  Credevamo di essere aquile 

E invece siamo polli, nemmeno liberi di razzolare.
La vita è quella cosa che non ci accade mai mentre siamo disoccupati a fare altri pensieri.
Anthony De Mello ci invita con una favoletta ad essere consapevoli delle nostre potenzialità
E ci racconta di un’aquila che, precipitata, da uovo, in un pollaio, crebbe credendosi sempre un pollo. Da adulta vide nel cielo stormi di aquile e li ammirò domandosi chi fossero.  Lei morì senza sapere che, anche lei, era un’aquila.
Potenza del pensiero, della suggestione, della situazione che ingabbia e imprigiona, potenza  di una educazione che, invece di liberare, offusca.
Forse.
 Cosa dice Anthony De Mello?
Di credere in noi, aquile e aquilotti , capitati in un grigio pollaio che ci impedisce di volare.
Noi, a dir la verità, non abbiamo bisogno di simili consigli.
Tutti ci crediamo aquile, tutti voliamo felici nei cieli più blu , tutti,  convinti che siamo all’apice del successo,  che  elaboriamo teorie degnissime, che siamo altruisti e magnanimi e che più aquile di noi, al mondo, proprio non potrebbero volare più in alto.
Fermi su questo pensiero poi crediamo gli altri tutti meno, tutti in difetto, tutti mancanti di una o più ali per poter volare.
 Se noi, per caso,  non sempre  voliamo, la colpa è sicuramente  dei nostri simili che, come una zavorra, ci tengono ancorati al pollaio, invidiosi  delle nostre ali e rancorosi se dovessimo saltare lo steccato.
Così va il mondo, stamani, all’alba chiara di un duemila e tredici, con accanto a me il libro di De Mello, un libro di uova che si schiudono in luoghi diversi e che, aquile o no, crescono male in pollai, ma-
Credevo di volare e non volo-
cantava Lucio Battisti nel lontano 1970
Ripensiamoci un momento e con umiltà, prima di riprendere il volo, fermiamoci a riflettere.