Una partita a scacchi 14 ottobre2011
Ricordo che guardavo affascinata i pezzi sullo scacchiere, il cavallo, il re, la donna, la torre, l’alfiere.
Ricordo la sfida fra un russo Spassky ed un americano Fischer, ma dove?
Bobby Fischer incontra Boris Spassky, allora campione del mondo e vince, è quasi sicuro di vincere il torneo, ma commette un errore incredibile, perde una partita già vinta.
Comincia, allora, a fare richieste sempre più esigenti, si ritira dando la vittoria a tavolino all’avversario.
Fu montata una campagna giornalistica contro, tutti i giornali scrivevano sulle sue stranezze, lo stesso Kissinger chiese a lui di giocare la terza partita. Come una sfida metaforica tra due stati.
Fischer vinse e continuò a vincere per tutta la seconda parte del torneo. Era la prima volta che un americano, veramente un ebreo-polacco, vinceva un campionato mondiale di scacchi.
Stamani, con la pioggia, con il vento, mi sono svegliata così, con lo scacchiere davanti, con le mosse da studiare, con questa triste storia di un uomo geniale, morto a 64 anni ed ormai impazzito con le sue ossessioni.
Bobby Fischer era un genio ma non tranquillo, non risolto, una intelligenza fredda, disturbata da una emotività repressa, una intelligenza monocorde, univoca.
Tutto il mondo lo seguì, in quel lontano 1972, tutti abbiamo detto ooohhh , ma lui che tanto ci aveva sorpreso, infelice e scontento passò il resto dei suoi giorni a pensare a quale grande cospirazione il mondo avesse imbastito contro di lui, ad una cospirazione giudaica, lui che, probabilmente era figlio di un altro genio della matematica ebreo e da una madre polacca intelligente e capace che studiò, si laureò, malgrado i tempi e le angherie subite.
E’ morto infelice a soli 64 anni, è morto da solo, senza affetti, perché lui disprezzava la donna, essere inferiore, non invento, disprezzava il calore di un sorriso, di una stretta di mano, di un abbraccio.
Gli scacchi sono una metafora alta, come tutti i giochi, io giocavo per ore a dama, però, col nonno, con gli zii, giocavo e giocavo a carte, imparai il tressette col morto, vincevo e gli uomini di casa borbottavano –vinci perché non sai giocare- perché giochi senza pensare-
Giocavo per ore negli anni lunghi, lunghissimi del grande sonno, del mondo feudale che avevo intorno, il mondo non c’era a casa mia, non c’era neppure il telefono, che come nel libro – La concessione del telefono – fu messo tardi, fu allacciato da me con un inganno, con una burla, con una bugia.
Le mosse però che io ho imparato mi vengono sole, s’incastrano facili, mi vengono e vanno, ed ora, -lo vedi? - ne parlo con te, pensando che tu, mi guidi anche tu.
Una donna da sola che cosa può fare? Se vince, sicuro, un uomo ci sarà.