Gennareniello, una commedia di Eduardo De Filippo, si recitava quella sera a Napoli, nel sottoscala di un dopolavoro ferroviario, dicentesi teatro off, con pubblico, alcuni in vestaglia e ciabatte, altri in sontuosi tailleur di velluto nero e calze ramificanti, con rose, su splendide dècolletè nere.
Pubblico indigeno ed esterno, venuto per l'occasione.
Un trionfo.
Io, ogni tanto mi svegliavo, e, fra sonno e dormiveglia, la rivelazione.
Come dice Flaiano, nello Spettatore addormentato, sono questi i momenti che squarciano il velo fra noi e il testo, fra noi e noi.
Gennareniello, sul palco, con in mano un foglio, stava seducendo, a suo modo, una donna, leggendo un suo scritto.
Ve lo leggo?- diceva, dopo aver preso da una tasca il foglio e senza aspettare leggeva, amando quello che leggeva, senza curarsi se la malcapitata volesse o meno sentire quel suo canto dell'anima.
L'ingenuità del personaggio sarà facile oggetto di scherno da altri più scafati e lo scritto sarà motivo di ridicolo, non già di stima.
Ridendo amaramente e scherzosa, io, sveglia, promettevo alla mia amica che mai più avrei estratto dalla borsa un foglio ed avrei letto, a conoscenti e non, quello che avevo scritto la mattina.
Ridemmo molto, infatti, io della mia scoperta, lei del suo elegante tailleur, tutte e due capitate in una confusione di termini.
Lei si era vestita per andare a teatro, e non nel sottoscala, io, in quel sottoscala, avevo capito cosa succede se ci prendiamo troppo di una passione.
Scivoliamo nel ridicolo.
Così chiusi per sempre l'esperienza del foglio.
Ippolita Luzzo
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