L’inserto della Domenica
della Repubblica ha una pagina tutta per Amelio, regista e cugino del direttore
di Banca nuova di Maida.
Ci trovammo a parlare di
Amelio con suo cugino, quando rispose alla mia domanda curiosa se lo
conoscesse.
Un parente deluso e ignorato.
Gianni Amelio aveva tagliato rapporti con
tutti e quando era morto il papà, fratello del papà di lui, non era andato. Non
aveva avuto più niente a che fare coi suoi parenti, un uomo freddo e senza
affetto.
Raccontandomelo lui si soffiò
più volte il naso, si commosse, si addolorò ed io, che adoro Gianni Amelio,
stetti zitta.
Rileggo l’articolo di Franco
Montini, l’intervista ad Amelio, e lui, il regista prende a parlare del padre.
Del padre che gli fece
scrivere, nel rinnovargliela, sulla carta di identità- operatore
cinematografico e non regista, un padre che lui non aveva conosciuto, essendo
emigrato in Argentina e tornato quando lui aveva sedici anni. Due estranei. Non
ne hanno fatto un dramma, lui dice. Il regista andrà subito via da casa e …” ci
ho fatto sopra qualche film”
Insieme allo sconcerto di un
pomeriggio che invera quella mia conversazione in banca una malinconia mi
pervade.
Leggo gli appunti di Piero
Tanca, surrealista, leggo le sue considerazioni sul tempo e su una generazione, suppongo la nostra, nata negli anni cinquanta, un decennio che
vede la trasformazione netta fra un modo e un altro di intendere il ricordo, la
memoria, gli affetti, l’amicizia.
Ci ripenso, con maggiore
serietà senza rimpianto, non avrei cosa rimpiangere, i tempi sono belli o
brutti relativamente ad altro…diceva lo strutturalismo, ci ripenso per saper
cosa fare del mio tempo ora, di una serie di contatti che vorrei fermare,
raccogliere e preservare, di affetti familiari troncati, non conosco moltissimi
miei parenti, non ne so nulla.
Proprio stamattina passava
davanti a me e a mia sorella un cugino, giocatore di calcio, che non vedevamo da
chissà quanto.
Non ce la siamo sentite di
fermarlo e salutarlo, ci era estraneo, estraneo benché consanguineo.
Quando con i parenti non vivi
ricordi, in nessun tempo, le trame che uniscono, logore e cenciose, si
sfilacciano e buchi, vuoti, restano i rapporti.
Questo nostro vivere esaltato
ed eccitato senza il tempo dell’attesa e della selezione, senza il contatto con
un altro, contatto da conservare in scatola che non possediamo più, mi da una
vertigine acuta. Come se vivessi su una giostra volante, su montagne russe
velocissime e una forza sola centrifuga mi scaglia lontano dalla forza
centripeta che dovrebbe riportarmi a me. Inutilmente.
Ippolita Luzzo
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