mercoledì 9 ottobre 2024

Intervista a Vito Di Battista Il buon uso della distanza


 Intervista a Vito di Battista da Ippolita Luzzo 18 gennaio 2024

Il buon uso della distanza


[Ippolita Luzzo] Ho conosciuto Vito di Battista penso nel 2018 poco dopo dell’uscita del suo libro “L’ultima diva dice addio”, un fascinoso racconto diventato il libro del mese del nostro gruppo lettura di allora. Vito è stato nostro ospite a Lamezia presso la libreria Mondadori e ne ricordo la gentilezza e la competenza. 

Ora sono presa moltissimo dalla lettura di questo suo secondo romanzo, “Il buon uso della distanza”. Quando di un libro io mi innamoro stranamente non so più parlarne perché perdo proprio la distanza. 

Ora però provo a dirvi le tante parole che vorrei. Intanto lo spunto iniziale del racconto è una storia vera. È esistito uno scrittore, a Parigi, Romain Gary, che ad un certo punto per avere di nuovo successo è dovuto ricorrere ad uno pseudonimo e con quello ritornare in cima al gradimento del pubblico. «Ho creato Émile Ajar per nostalgia della giovinezza, degli inizi, per riprovare l’emozione del primo libro», scrive,in una lettera all’editore, Romain Gary, autore del libro “La vita davanti a sé”. 

Su questo autore Vito di Battista aveva fatto la tesi di laurea per la triennale e si era innamorato di questa storia. La riprende immaginando un altro scrittore, nato a Firenze da padre francese misterioso e da madre fiorentina. Lui, Pierre Renard, decide dopo gli studi di lasciare Firenze per andare a Parigi e lì lo incontriamo in una casa editrice dove lavora. Qui entra in gioco un imponderabile destino che chiameremo Madame. Madame propone a Pierre un accordo: lo pagherà per continuare a scrivere romanzi a patto che lui li scriva in anonimato, scegliendo sempre nuovi pseudonimi, da sembrare sempre nuovi esordi, e nei romanzi dovranno esserci dei riferimenti in cui lei, Madame, si possa ritrovare perché sono scaturiti dalle sue lettere. Il protagonista è titubante ma poi accetta. Aggiungo un brevissimo passo del libro per immergerci nella storia e chiedere a Vito se lui avrebbe accettato il patto. 

«“Si scrive per colmare una lacuna” ha detto a un certo punto, evitando di incrociare il mio sguardo. “Per rimediare a una distanza, per compensare uno squilibrio naturale verso il mondo che non si lascia dire. Non si può fare altro che questo, allora: stare alla larga dalla verità, ma avvicinarsi quanto più ci è consentito. Non esiste altro modo di trattare il mondo. Un mondo che, come la verità è come tutti noi, è nato senza parole”». 

Dal libro di Vito di Battista “Il buon uso della distanza”.


[Vito di Battista] D’istinto ti direi che sì, avrei accettato quel patto, e proprio per i motivi per cui lo accetta Pierre: non per il successo (che resta sempre un’incognita), ma per l’abbaglio di una libertà paradossale, del poter tornare continuamente all’inizio, del non farsi toccare da giudizi e pre-giudizi. Togliendo se stessi dall’equazione, ci si può illudere di mettere al centro solo le parole: un atto all’apparenza privo di ego, poiché si rinuncia al riconoscimento diretto, ma che forse è una scelta profondamente egoriferita, e per tutti i motivi di cui sopra. Poi però mi pongo da solo un’altra domanda: quello che intesse Pierre per far sì che questo patto abbia delle conseguenze, che entri davvero in azione, era indispensabile? Era l’unico modo possibile? E a questa domanda non esiste altra risposta se non quella del romanzo, ovvero la traiettoria sempre più perversa e oppressiva in cui Pierre si ritrova coinvolto. Con questo orizzonte in mente, la mia risposta allora cambia e diventa: “No, non avrei accettato quel patto”. Facendo una media fra gli opposti, mi sembra allora che l’unica risposta sensata alla tua domanda iniziale sia: “Non lo so”.


[Ippolita Luzzo] Continuo chiedendo e ricordando a Vito ciò che scrivevo nel 2018 sul suo libro “L’ultima diva dice addio”. Credo che ci sia già in embrione qualcosa di presente e sviluppato nel “Il buon uso della distanza”, vero? «L'ultima diva, nel romanzo di Vito, è la memoria. Ciò che noi facciamo con la memoria, cosa raccontiamo e come quando vogliamo essere ricordati, cosa vogliamo ricordare e tutte le trasformazioni con cui rielaboriamo i fatti. La memoria ultima dea.

In Foscolo era la spes, la speranza, ultima dea, qui, nel libro di Vito è la memoria. Una memoria circolare che ritorna spesso su alcuni dettagli. Sono infatti i dettagli a dare le epifanie, le rivelazioni. Un affresco a pennellate ripetute, questo il libro di Vito, originale e inusuale, una spennellata sulla memoria dimenticata attraverso un pretesto immaginifico e cinematografico, la biografia di una diva del cinema ormai ritiratasi a vita privata.» 

Madame somiglia alla diva del libro precedente?


[Vito di Battista] Madame somiglia a quella diva, Molly Buck, in quanto personaggio che inventa Pierre. Così deve essere per via del loro patto. Perché in realtà – lì dove la “realtà” è il gioco meta-letterario che soggiace un po’ a tutto – anche “L’ultima diva dice addio” è uno dei romanzi di Pierre, solo che ne “Il buon uso della distanza” ha un altro titolo, che era il mio titolo di lavorazione al tempo. Pierre lo scrive in omaggio a Claire, uno dei personaggi di “Il buon uso della distanza”, dandole un altro nome e immaginando per lei un futuro da grande attrice ritiratasi a vita privata. Quindi Madame somiglia a Molly Buck, ma Claire è Molly Buck. Ed è come se, sempre dalla prospettiva di questo gioco, io fossi un altro degli pseudonimi di Pierre. Ho pubblicato due romanzi con il mio nome sopra, ma nel mondo della finzione letteraria entrambi questi romanzi sono opere sue, e questo è forse l’unico vero punto di contatto che esiste fra me in quanto persona e Pierre in quanto personaggio.


[Ippolita Luzzo] Ed adesso entriamo nel mondo dell’editoria, nel mondo dove ogni sgambetto è lecito, nel mondo dove si decide chi pubblicare e chi osannare, chi recensire sulle pagine più importanti, sulle televisioni, e farne un caso editoriale. Qui il libro si articola e ci regala uno spaccato veritiero di come e quando si decide e perché si decide, di chi ricatta chi, di chi odia chi, magari senza motivo oppure con un motivo lontanissimo nel tempo. Nel mondo intellettuale gli odi e i rancori restano fermi al primo momento di lettura, di incontro. Un quadro che Pierre Renard ci regala con esattezza. Quanto è vicino vero ce lo dirà Vito, per me è proprio come lo leggerete nel libro.


[Vito di Battista] Pierre vede e vive un mondo come tanti, anzi come tutti, che è fatto di compromessi, di bassezze, ma anche di intenti positivi e di genuinità. Si cala però soprattutto nel male che c’è, e lo fa per i propri scopi o spinto dalle ramificazioni involontarie del progetto che vuole portare avanti. E il male chiama sempre il male, in editoria come ovunque. Tutto sta a cosa si decide di farne, di questo male; come scardinarlo o sfruttarlo, ignorarlo o alimentarlo. Fino a che punto farsi contagiare o cercare un equilibrio, più o meno a distanza di sicurezza. Riguardo quanto sia veritiero ciò che si legge nel romanzo, potrei dirti che lo è totalmente, che ogni dettaglio e ogni episodio sono ispirati da fatti reali o ne sono una fedele ricostruzione, oppure che al contrario è un’invenzione, una menzogna esagerata per fini puramente narrativi. Non credo importi molto quale sia la mia verità, in tal senso, e lo credo perché una risposta netta sarebbe comunque solo la mia prospettiva e darebbe un’altra chiave di lettura alla storia, ne sposterebbe le coordinate in un campo di analisi che è molto più complesso e va oltre la storia in sé, oltre lo spazio che ci è concesso qui o anche semplicemente la mia esperienza in merito. Credo invece che a importare sia quanto ciò che si legge nel romanzo risulti plausibile, e poi ognuno trarrà le proprie deduzioni da questa plausibilità. Il tuo ritenerlo aderente al vero mi fa piacere soprattutto per questo motivo: dalla tua prospettiva, la plausibilità che ho cercato di raccontare ha funzionato perché è parsa reale, a prescindere da quanto lo sia davvero.


[Ippolita Luzzo] “Il buon uso della distanza” ci invita ad usare bene la distanza, anche dall’ossessione della scrittura, anche dalle critiche feroci o dagli elogi entusiastici, e ci aiuterà poi a trovare il bandolo come farà Pierre Renard nella sua storia raccontata con uno stile originale e affabulante. Nelle sue lettere a Madame ho ritrovato una mia lontanissima corrispondenza con un autore che avrebbe voluto avere successo, e le nostre e-mail ormai chissà chi le leggerà. Resteranno le e-mail come le lettere di una volta nei cassetti e saranno ritrovate oppure scompariranno nel nulla di un ricordo estinto? Me lo domando e te lo domando essendo appunto il tuo un libro di lettere inviate, di lettere che compongono una storia umana che riguarda sempre due persone, chi scrive e chi legge, chi risponde e chi ne farà un romanzo. 


[Vito di Battista] In una qualche misura, forse meno affascinante ma solo per via di un gusto rétro, sì, resteranno, o comunque potrebbero farlo. Alla fine, ciò che ha una qualche ragione che vada oltre resta sempre, o quasi sempre, o scalpita per riuscirci. In potenza, tutto quello che ci riguarda può rimanere e, per un tempo più o meno limitato, dire ancora qualcosa. Il problema è che gran parte delle cose di cui ci circondiamo perde di senso nel momento in cui non c’è più una voce che le spieghi, che le racconti. Le parole, che siano in forma di lettera o di e-mail, per fortuna si raccontano da sole. Bastano a loro stesse. E uno dei grandi paradossi di Pierre sta forse proprio in questo: mette in piedi ricatti, sotterfugi, vendette, ma quello a cui mira è che le parole, un giorno, quando tutti i ricatti e i sotterfugi e le vendette saranno dimenticati poiché nessuno potrà più raccontarli, possano restare perché bastano a loro stesse. In un punto nel romanzo Colette, la maîtresse di un bordello illegale, dice a Pierre che «deve passare del tempo prima di raccattare cosa resta fra le macerie», che «il grano deve morire prima di diventare un tozzo di pane». Pierre (citando Gide) le chiede di rimando: «E se il grano non muore?». Colette risponde che allora ci si dovrà accontentare «degli avanzi della sera prima». Sta qui, forse, la risposta alla tua domanda. Il presente scivola presto via e si fa futuro per diventare passato. Ed è il passato che rimane, solo che non possiamo sapere in che misura accadrà, non a priori. Non possiamo saperlo quando è ancora presente ma non si è ancora fatto futuro. Decidono il tempo e la distanza, il caso e le circostanze. Noi, come Pierre e Madame, per il momento possiamo solo scrivere, e come Pierre possiamo cercare di fare un buon uso della distanza e delle opportunità. Lui forse ci è riuscito, forse no, sicuramente non del tutto, e la sua sorte in quanto personaggio racconta questo tentativo. Il tentativo di dare valore alle macerie del futuro e non alle ossessioni, alle critiche e ai giochi di potere del presente, per quanto siano indispensabili anche loro. Forse purtroppo.



Vito di Battista è nato nel 1986 in un paese d’Abruzzo a trecento gradini sul mare e vive a Bologna. Nel 2012 è stato selezionato per il Cantiere di Scritture Giovani del Festivaletteratura di Mantova. Agente letterario, editor e traduttore, ha scritto su “Futura”, la newsletter del “Corriere della Sera”, e su “Nuovi Argomenti”. Il suo primo romanzo, uscito nel 2018, è L’ultima diva dice addio. 


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