domenica 14 aprile 2024

Lidia Popolano recensisce Pezzi

 




                
Il Romanzo è morto?

(o è diventato un blog/non-blog?)

Ippolita Luzzo non è una donna del sud, ma il sud lo porta nel sangue che scorre nei polsi, nel colore delle sue infinite sciarpe, nel calore con cui si appella al bello e all’amicizia.

Dal 2012, Ippolita scrive pezzi nel suo blog/non-blog. Sì, pezzi, come usava definire una volta gli articoli di fondo o come potremmo classificare i post di oggi. Scrive pezzi per ripetere a se stessa che la scrittura dà pace e non tormento. Dà chiarezza e giustizia, non oscurità o vendetta. Ma scrivere significa per lei anche ribadire che nel migliore dei mondi possibili dove viviamo, non è facile essere una donna o un uomo pensanti.

Nei suoi pezzi, l’insofferenza per il legame matrimoniale, così come è stato fondato e perpetuato (L’invenzione più innaturale del nostro secolo); legame che ci costringe a elaborare comportamenti e tradimenti; che ci costringe a vivere “da carbonari, nascosti, travestiti, con tante personalità”. Legame basato su un’illusione e che ci porta a giocare il “gioco eterno dei rimandi e degli inganni).

Nei suoi pezzi, l’orrore per una Storia raccontata attraverso ricostruzioni tendenziose e l’amore per una storia fatta non solo di “eccezionalità, di fatti e misfatti del condottiero”, ma anche dai “fatti minimi di un volgo che proprio voce non ha.”

Una storia che tenta di ricostruire la “sparizione” di una generazione nelle paludi del quotidiano e la sua riapparizione in età adulta, pronta a riconoscere finalmente le “lucciole” di Didi-Huberman e fare della loro ricerca un’unica ragione di vita. 

E poi, proposte di letture, come Una storia chiusa di Clara Sereni o il Ballo tondo di Carmine Abate. E subito scatta la connessione con il desiderio di autenticità delle relazioni e con la scoperta dell’oro della misericordia, nelle azioni. Proposte di recuperi e riletture, come quella de Il padre americano di Rocco Carboni. Libri noti ad amatori, lettori e critici autentici, che non cercano la “dolce euchessina” per digerire la realtà in cui ci hanno fatto piombare: subdola, più di quanto non immaginasse Orwell nel suo 1984, dove la voracità del potere almeno è platealmente imposta.

E ancora le recensioni di La signora Rosetta di Tiziana Sferruggia e di Blu Cavolfiore di Maria Caterina Prezioso e subito questi nomi sono accostati alle belle persone che li portano. Impossibile non sentire accendere la curiosità per il loro mondo interiore, apprezzato dai premi letterari e ignorato dai media e dal grande pubblico, che viene mantenuto concentrato sui volti vuoti di una letteratura come sistema economico.

Un’accusa potente e senza mezzi termini a un sistema che “tutto avvolge (nel) plumbeo mondo della burocrazia e degli interessi.” Un’accusa che non risparmia il volontariato, né l’associazionismo, affiancati e complici più che mai dei politici per instaurare la “Città coltadina”, una città che coltiva orti ben distinti e ben rappresentati, attenti a “spargere il diserbante contro ogni invenzione.” 

E non pensava certo, Ippolita Luzzo, di stare lavorando a una invenzione, pur essendosi bene accorta che la sua opera rimane ai margini della “cultura di sistema” (il virgolettato è mio).

Non pensava certo di stare lavorando a una nuova letteratura, a un nuovo genere letterario, al romanzo contemporaneo, quando riempiva la scrivania di fogli e poi li trascriveva in bell’ordine al computer, pronti per martellare i nostri stomaci assopiti e ben nutriti.

In questo romanzo, l’ordito non è fatto di pezzi; è fatto della ricerca dell’amicizia, che non sia “sincopatica” ossia che non compaia “a tempo” nelle ricorrenze canoniche, e non certo per cogliere l’occasione per essere finalmente se stessi. È fatto dell’amore, che non resti un fantasma accanto a sé, nel rito affettuoso del caffè del mattino. È fatto di consapevolezza del dolore per le assenze che mortificano, nella loro assordante presenza, e di immaginazione creativa. Quella a cui ci appigliamo per sopravvivere al vuoto, ma al di là del reale, nel mondo dove l’amore è fatto primariamente della donazione di completezza a cui troppi di noi rinunciano. 

Non è fatto di post questo libro, perché i post lei li lascia “alla posta, alla scrittura delle adunanze, dei comitati, delle cordate”. Non è neanche fatto di pezzi questo libro, ma di maglie, di ponti lanciati a chi è ancora alla ricerca del senso, anche se il senso è stato svenduto per un piatto di pubblicità progresso, come la tunica di Gesù. Non è neanche un libro scritto per raccontare l’infanzia, l’adolescenza e la maturità dell’autore, iattura letteraria che prima o poi passerà di moda.

Questo libro è scritto per beffare il destino, ridere della lebbra che ci viene attribuita quando insistiamo nel voler dire ciò che solo “chi vede il re nudo” può comprendere. Un libro di chi sa apprezzare la letteratura di Mario Borghi ne Le cose dell’orologio o di Luca Bernardi in Medusa. Non posso qui nominarli tutti, questi testi meravigliosi, e me ne scuso.

Una donna che sa ridere di sé è rara, chi altro avrebbe potuto scrivere “rido di me e di tutti, in questo luogo che non è un luogo, sono felice di stare con me e di ringraziare gli sconosciuti che da due anni mi leggono qui, in questo regno che proprio non c’è?”

Questo libro ha (è) dunque un ordito fatto di maglie accuratamente tessute con abilità antica, ma non aspettatevi una trama, per carità! La trama non c’è. La trama spetta a ognuno di noi. Questo libro è una rivoluzione praticata, non una annunciata. Questo libro è il romanzo contemporaneo. 

Lidia Popolano

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