martedì 15 gennaio 2013

Cosa è successo che ci ha sbarrato la strada?

 Aver cinquanta anni, sessanta e poi oltre è un tempo per noi di nuovo guardare.
Cinquanta o sessanta e possiamo dire- noi c'eravamo-
C'eravamo quando l'uomo andò sulla luna, quando uccisero Kennedy, quando il televisore si accendeva solo per il telegiornale.
C'eravamo quando le nostre mamme stavano a casa, le nostre nonne ci tenevano in braccio e i nostri papà partivano all'alba ritornavano al tramonto e noi bimbi gli davamo il bacio andandogli incontro.
C'eravamo ubbidienti seduti ad un tavolo, in tanti, a mangiare lo stesso cibo, a chiacchierare e ad ascoltare il nonno che riportava un aneddoto, un fatto strano.
Guardiamo affettuosi il tempo che fu, un tempo ormai storia di tanti, di molti, un luogo dal quale noi abbiamo preso lo slancio... di corsa
Lo studio, la laurea, l'insegnamento, il fermo proposito che l'autonomia, la stima e l'impegno sarebbero serviti a forgiare quel nuovo modello di relazione che ci sembrava il vessillo della felicità.
Cinquanta o sessanta sono tempi di bilanci,  per molti quella bilancia sembra che non abbia nulla più da pesare, un peso inconsistente, un peso da niente.
Ed ora ci chiediamo:-Cosa è successo che ci ha sbarrato la strada?-
C'eravamo un tempo e poi siamo spariti per venti, per trenta, per quaranta anni e all'improvviso ci ritroviamo in età adultà a ribaltare il nostro motore su una infanzia che ci corre incontro.
 Epimenide dormì cinquantasette anni,  poi si risvegliò e si stupì.
Sarà questo il miracolo, il dono di un pensiero informe che ogni mattina ancora si chiede:-Chissà come mi formerò?- Che forma mi regalerò per guardarmi ancora con indulgenza?-
Risposta non c'è ma forse chissà perduta nel vento sarà...
La storia risponderà
non ora
non subito
e noi non sapremo mai cosa lei ci dirà.
Resta intatto il nostro stupore.
  

sabato 12 gennaio 2013

Il sangue del fanciullo- Dino Campana



Il sangue del fanciullo- Dino Campana

A casa mia non veniva nessuno, c’era però il salotto che veniva aperto quando  parenti lontani passavano a salutare nei loro giorni di vacanze al sud.
Il salotto era in fondo al corridoio buio, soffitti alti e pomello bianco madreperlaceo alla porta liberty, ampia stanza con balcone, giardino della chiesa barocca  accanto.
I parenti erano accolti con sorrisi, fatti accomodare e, preparato il caffè, mi chiamavano.
-  Vieni a salutare lo zio, la zia, i cugini, vieni.-
Stavo nascosta fra i muri spessi di una casa antica, fredda e buia, stavo in silenzio sbuffante e non andavo, non subito almeno.
I richiami continuavano, qualcuno veniva a cercarmi, poi smettevano ed io, educatamente,  apparivo sulla soglia  ai parenti ormai in viaggio, nei saluti, sulle scale .
Eppure ho  avuto un affetto intenso per i miei, e ho sempre dato il nome timidezza al mio fare.
Non ero scontrosa come apparivo.
 Neppure Campana, sicuramente, lo era.
Quale insignificante momento della nostra infanzia ci segna il percorso che poi faremo?
Quale richiamo, quale frase ferisce inguaribilmente l’anima, e cancerosa poi fa metastasi nel nostro agire?
Non lo sapremo mai, anche ora che scaviamo e scaviamo, parlando con psicologi e psicoanalisti, terapeuti e amici, ormai tutti in possesso di conoscenze Junghiane, di testi su sogni e su associazioni, di sedute di gruppo e parliamo e parliamo.
Campana scappava nei boschi, io camminavo di lato, Campana , beh ora, ora suppongo avrebbe continuato a vivere strano, magari scrivendo per scherzo o davvero su un foglio bianco di un tablet, di un cellulare.
Ripenso che siamo veramente fortunati  noi figli di un’epoca nuova, senza catene, senza legami, senza detenzione coatta se scriviamo, se cerchiamo ancora quel solo motivo che dall’infanzia ci portò al domani.
Campana ricorda un verso di Whitman…essi erano tutti stracciati e coperti con il sangue del fanciullo…lo scandalo della vita che si cerca ancora di negare; la sua vita, ovviamente, orridamente scempiata dai familiari, dai vicini, dai concittadini.
A lui non comprarono nemmeno un pc
Noi, privilegiati, abbiamo incontrato sul nostro vissuto Joan Baez e Dylan, i Rokes e Lucio Battisti e l’infanzia ci aspetta, non ci fa paura.
Una adolescenza da padroni del mondo- una adolescenza lottante urlante caparbia e impegnata ci prese per mano
Noi abbiamo incontrato dopo quel  bosco dell' infanzia l' entusiasmo e  musiche e cinema , teatro e parole e
Ormai in quel salotto saremmo stati i primi ad entrare, a porger la mano, a chiacchierare, noi, noi  che ritorneremo indietro solo per la rincorsa... come gli atleti

venerdì 11 gennaio 2013

Miei cari alunni vicini e lontani



Miei cari alunni vicini e lontani,  buongiorno

Siete presenti? Siete assenti? Avete fatto colazione? Preso il latte, il pane con il miele, le fette biscottate con la marmellata  ed un frutto? Bene
Una buona riserva zuccheri dà energia  e calore a mente e corpo, perché come dicevano i latini- Mens sana in corpore sano-
Vi siete lavati mani e denti? Vi siete pettinati e vestiti con cura? Bene
L’igiene ci preserva dalle malattie, il rispetto della nostra immagina lo dobbiamo a noi stessi e agli altri per un dignitoso vivere civile.
Ora possiamo iniziare con benevolenza, senza schiamazzi, senza urli, senza dispetti
Se non capite  alzate la mano e chiedete
Se avete voglia di fermarvi a riflettere  ci fermeremo
Se vi annoiate ditemelo
La scuola è l’unico luogo dove qualcuno è pagato per stare con voi, per parlarvi e per insegnarvi a conoscere storie, a inanellare numeri, a dipingere pareti, a suonare, suonare, suonare, scrivendo note sul registro della vita.
Una comunione sociale- mi dicono
Tutto quello che io vi dirò mi è stato già detto
Tutto quello che so l’ho imparato a mia volta da libri, da insegnanti
Ed ora io ve lo ridico pensando che sia un mio pensiero.
Credendoci forte, credendolo vero.
Ed è sulla base di questa onestà che si basa il nostro convulso vivere sociale, nel credere certo, nel credere vero quell’uomo, quel libro, quel fatto che tu hai per le mani.
Abbiate fiducia- aggiungevo alla fine- abbiate fiducia e siate accorti, noi siamo gli altri e gli altri siamo noi, noi porgiamo una mano e qualcuno la prenderà e così via in una assistenza chiamata solidarietà.
Dicevo e parlavo ogni giorno fra i banchi le stesse parole ma sempre nuove, felice di essere io il messaggero di tanta saggezza.
Mi sembra sempre possibile il parlare così, mi sembra sempre bello dirselo e crederci, ora però aggiungerei – Ragazzi miei cari, vivere, studiare, imparare, impegno e costanza, rispetto e attenzione, condiamoli sempre con un goccio di dubbio. Un solo goccio, senza abusare. Solo per insaporire di più il nostro pane quotidiano.-


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mercoledì 9 gennaio 2013

Parafrasando Anthony De Mello- Le aquile che noi siamo



Parafrasando Anthony De Mello-  Credevamo di essere aquile 

E invece siamo polli, nemmeno liberi di razzolare.
La vita è quella cosa che non ci accade mai mentre siamo disoccupati a fare altri pensieri.
Anthony De Mello ci invita con una favoletta ad essere consapevoli delle nostre potenzialità
E ci racconta di un’aquila che, precipitata, da uovo, in un pollaio, crebbe credendosi sempre un pollo. Da adulta vide nel cielo stormi di aquile e li ammirò domandosi chi fossero.  Lei morì senza sapere che, anche lei, era un’aquila.
Potenza del pensiero, della suggestione, della situazione che ingabbia e imprigiona, potenza  di una educazione che, invece di liberare, offusca.
Forse.
 Cosa dice Anthony De Mello?
Di credere in noi, aquile e aquilotti , capitati in un grigio pollaio che ci impedisce di volare.
Noi, a dir la verità, non abbiamo bisogno di simili consigli.
Tutti ci crediamo aquile, tutti voliamo felici nei cieli più blu , tutti,  convinti che siamo all’apice del successo,  che  elaboriamo teorie degnissime, che siamo altruisti e magnanimi e che più aquile di noi, al mondo, proprio non potrebbero volare più in alto.
Fermi su questo pensiero poi crediamo gli altri tutti meno, tutti in difetto, tutti mancanti di una o più ali per poter volare.
 Se noi, per caso,  non sempre  voliamo, la colpa è sicuramente  dei nostri simili che, come una zavorra, ci tengono ancorati al pollaio, invidiosi  delle nostre ali e rancorosi se dovessimo saltare lo steccato.
Così va il mondo, stamani, all’alba chiara di un duemila e tredici, con accanto a me il libro di De Mello, un libro di uova che si schiudono in luoghi diversi e che, aquile o no, crescono male in pollai, ma-
Credevo di volare e non volo-
cantava Lucio Battisti nel lontano 1970
Ripensiamoci un momento e con umiltà, prima di riprendere il volo, fermiamoci a riflettere.